Premetto che il mio giudizio su Documenta 13 sarà parziale. Non solo perché, nonostante i tre giorni spesi a Kassel, non sono riuscito a vedere che una bassa percentuale dei lavori in mostra. Neppure perché credo si tratti di un giudizio relativo (dunque provvisorio, insufficiente, opinabile) come ogni parere può essere e, in realtà, è. Ma all’opposto perché vorrei fare della parzialità un momento di forza, una categoria teorica giusta con cui leggere questa esposizione monumentale. Ho sempre dubitato delle sintesi e con Documenta 13 siamo di fronte a qualcosa del genere. A partire dallo spettro di Harald Szeemann, in questa edizione c’è tutto: l’ecologia, l’educazione, la filosofia, la storia, la militanza, l’economia, etc. E ci sono anche tutti i modi per raccontarle: la scrittura, la performatività, il suono, la danza, il cinema, la collezione etnografica e, ancora, la coltivazione agricola. Ma il punto è che tutto viene integrato nell’identità e nell’unità dell’arte, filtrato e ordinato da un’istanza unitaria, olistica, che in nome del sensibile vorrebbe ricongiungere animato e inanimato, visibile e invisibile.
Documenta 13 è come un soggetto collettivo totalizzante, in cui l’uguaglianza delle parti è ottenuta dall’integrazione, dalla soppressione delle differenze, delle asimmetrie economiche e sociali, delle distanze spaziali e temporali che sono chiamate a riunirsi in un tutto organico impossibile. Dunque: la Kabul esotica di Boetti e di Francis Alÿs s’incontra con il Sahara de La Cooperativa Unidad Nacional Mujeres, la storia del monastero di Breitenau di Ines Schaber e Avery F. Gordon con il passato raccontato da Haris Epaminonda e Daniel Gustav Cramer, gli oggetti del Museo di Beirut danneggiati dalla guerra libanese con i vasi e le bottiglie dell’atelier bolognese di Giorgio Morandi usate come modello per le sue nature morte. Ma dove sono le molteplicità, le eterogeneità frammentarie, gli elementi nomadi e le forze centrifughe della realtà contemporanea? Sembra che ogni elemento sia destinato a ritornare al posto e al ruolo predefinito: i temi ecologici nel Karlsaue Park, quelli scientifici nel gabinetto di Astronomia e Fisica dell’Orangerie, quelli biologici nel Museo di Storia Naturale, e così via. L’archivio e le mappe sui dati dell’economia di Mark Lombardi stanno all’atlante di mele di Korbinian Aigner, come queste ultime stanno agli esperimenti sulla fisica quantistica di Anton Zeilinger. Perché mettersi dalla parte del tutto? Di quale unità possiamo ancora farci sostenitori, senza tradire le istanze delle molteplicità di oggi? Solo quindici anni fa Documenta 10 aveva presentato, all’interno di una cornice espositiva letteralmente e irrevocabilmente frantumata, una pluralità di spazi paralleli ed eterogenei di visibilità, di leggibilità, discorsivi e no, fisici, virtuali, etc. che aprivano a un nuovo terreno non più dialettico ma conflittuale. E ora perché questa totalità organica, proprio quando il modello finanziario tedesco rappresenta il principale esempio di svolta autoritaria del Neoliberismo minacciando addirittura la scissione dall’euro? È così che in questa Documenta il pubblico sarà tentato solo di apprezzare singoli pezzi, pescando i migliori qua e là, per poi finire con il riaffermare le classiche assegnazioni e distribuzioni di ruoli e funzioni artistiche.
Oggi la sintesi può essere solo unilaterale. Una politica culturale all’altezza della (grave) situazione attuale riconosce soltanto parzialità frammentarie, minoranze che, da sole, hanno la capacità di incidere sulla trasformazione del reale.