Angel Moya Garcia: Superfici e immobili abbandonati o in via di trasformazione, spazi di transizione, disoccupati, vuoti o in disuso e, soprattutto, aree dismesse. Che rapporto può esserci tra questi luoghi e il paesaggio urbano della città contemporanea e che ruolo possono ricoprire queste superfici teoricamente marginali?
Lara Almarcegui: Nella città contemporanea c’è troppo design, architettura e costruzione; tutto lo spazio è organizzato e corrisponde a un programma; all’interno di questo spazio iper-razionalizzato, le aree dismesse sono gli unici luoghi che sfuggono a un disegno e a un programma, sono spazi aperti a tutti i tipi di possibilità; mi sono necessari come alternativa all’architettura e allo spazio costruito che mi circonda.
AMG: Nel tuo lavoro vi è anche una percezione molto acuta del rapporto tra architettura e contesto urbano e, allo stesso tempo, una critica alla speculazione urbanistica che tendenzialmente ribalta o annulla questi spazi abbandonati. Com’è nata l’idea di scrutare questi luoghi attraverso, ad esempio, mappe o guide, e com’è il tuo rapporto diretto con loro?
LA: Le guide di aree dismesse localizzano i terreni abbandonati più importanti e descrivono il loro passato, lo stato attuale e futuro; ognuno di questi terreni ha una storia differente, ha un proprio discorso diverso da quello ufficiale, critico perché mostra ciò che la città nasconde, ma anche diverso dal discorso di altre aree dismesse. Le guide sono un invito a conoscere questi terreni, a visitarli e avere un’esperienza in prima persona del luogo. Io sostengo che a 200 metri da dove ci troviamo ora c’è uno spazio diverso. Inoltre, le aree dismesse si trasformano e scompaiono e le guide alla fine documentano come erano.
AMG: Un’altra parte importante della tua ricerca si incentra sulla misurazione e sullo studio di materiali, volumi e pesi presenti nelle edificazioni, in un processo dialettico che collega l’esterno con l’interno. In questo contesto, la tua analisi si potrebbe definire come rivelatrice di ciò che sfugge alla nostra attenzione o, addirittura, alla nostra conoscenza; oppure si potrebbe includere in una matrice ecologista o politica che tenta di difendere la natura della speculazione?
LA: Con i progetti di materiali intendo presentare l’edificio dove ci troviamo di una forma molto fisica, scomposto nei suoi materiali di costruzione; provo a rompere o a distruggere un’immagine dell’architettura o dello spazio molto idealizzata presentando, invece, l’edificio nella sua forma più bruta, che corrisponde anche al passato dello spazio costruito e il suo futuro. Attaccare lo spazio costruito e l’architettura, alla fine, ha sempre un valore ecologico.
AMG: Le tue proposte sono articolate attraverso video o installazioni che narrano le storie e le caratteristiche di queste rovine o aree abbandonate per restituirle alla coscienza pubblica. Che rapporto si stabilisce tra questi “luoghi di possibilità” e i tuoi progetti espositivi?
LA: La critica all’eccesso di design mi costringe, nel mio lavoro, a evitare di indirizzare troppo il pubblico, in modo che, anche se invito nelle guide a visitare aree dismesse o apro queste aree o riesco a proteggerle, non definisco troppo la posizione del pubblico. Non faccio mai niente nelle aree dismesse per mantenerle senza funzione. Le mie installazioni, nelle sale espositive, sono semplici e, spesso, vogliono solo attirare l’attenzione su un luogo in particolare, in modo che il pubblico vada a vederlo.
AMG: Il tuo lavoro consiste soprattutto nella richiesta di permessi, spedizioni, approfondimenti e in azioni o documentazioni per conservare o segnalare questi luoghi, come una sorta di archeologia del presente. Come ti collochi nel contesto attuale dell’arte contemporanea?
LA: Quando ho iniziato a lavorare negli anni Novanta ero molto preoccupata per la mia posizione: la decisione di lavorare sempre con il contesto, con la città, essere coinvolta nel luogo. Ormai non la questiono più del dovuto perché abbiamo lavorato in tanti con questa metodologia e non credo debba essere ancora difesa. Semplicemente io lavoro nel miglior modo possibile con i mezzi che ho a disposizione, partendo dall’arte contro il design e l’architettura; tra i miei nemici principali, le grandi operazioni di riqualificazione urbana come, ad esempio, i giochi olimpici o le esposizioni universali.
AMG: Octavio Zaya, commissario del Padiglione di Spagna alla prossima Biennale di Venezia, ti ha selezionato per rappresentare la Spagna nella 55ma Esposizione Internazionale d’Arte. In che modo hai affrontato o stai affrontando questo progetto e quale sarà il rapporto tra la tua poetica e le caratteristiche urbanistiche di Venezia?
LA: L’enorme padiglione mi permette di realizzare una grande installazione sulla sua costruzione, ma anche di lavorare su Venezia. Nel mio primo soggiorno ho percorso aree vuote che saranno soggette a trasformazioni. Tra queste, un’isola di fanghi di dragaggio dei canali del porto industriale, lo spazio dismesso di un progetto di terminal di traghetti, aree sotto i viadotti della nuova tranvia, gasometri, fortezze abbandonate nelle isole, un sanatorio in rovina, i terreni sigillati di uno scavo per un palazzo del festival del cinema che si fermò a metà costruzione e diversi terreni vuoti prossimi ai nuovi cancelli. Tuttavia, la Sacca San Mattia mi sembra l’area più significativa nel contesto di Venezia, grazie alla sua complessa e strana configurazione come luogo di discarica dei materiali dell’attività edilizia e degli scarti della produzione del vetro, ed è questo il luogo su cui sto lavorando. L’isola di Sacca San Mattia si originò grazie al riempimento di detriti e resti di costruzione e dragaggio della laguna; è servita come discarica dei cantieri navali di Venezia; le industrie del vetro di Murano lo utilizzarono per i loro scarti industriali in modo che si è riempita in gran parte di scarti di vetro. Ci sono stati piani per trasformare quest’area in zona verde che non sono mai stati fatti. Con ventisei ettari di estensione, quest’area è lo spazio disponibile più ampio di Venezia ed è diventato luogo di speculazioni, come l’allucinata idea di collegare Murano con un ponte alla terra ferma o il controverso progetto del Sublagunare.