La prima esperienza con il lavoro di Laure Prouvost si può definire indimenticabile. Per me è stata segnata dalla sua voce, sentita gridare dalla cima del Palais de Tokyo di Parigi. Prouvost stava partecipando al cosiddetto seminario performativo di poesia di Alex Cecchetti, Nuovo Mondo, che si è svolto in tre serate nell’estate 2014. All’imbrunire, lei ha annunciato suo “nonno”; un limone, una carota, una cipolla e un pomodoro sono piovuti dal tetto; e presto l’artista è scesa dalla scala a chiocciola per perlustrare la terra in un mosaico invaso da orti comunitari.
“Il nonno”, una volta amico intimo di Kurt Schwitters, è l’incipit per il racconto di Prouvost: aveva scavato un tunnel dalla sua baracca a Nord dell’Inghilterra, ed era recentemente scomparso al suo interno. “L’IDEA DI MIO NONNO FU DI COSTRUIRE UN TUNNEL IN AFRICA SENZA FARSI NOTARE DALLE AUTORITÀ”, scrive Prouvost, in maiuscolo nel suo testo in bianco e nero, punteggiato da errori ortografici infantili e una sintassi “Franglish”. Quando il limone, la carota, la cipolla e il pomodoro cadono nella sua stanza nel cuore della notte, attraverso dei fori nel soffitto che corrispondono esattamente alla forma del prodotto, l’artista esclama: “È un segno di Dio! Il nonno sta bene!” Le saghe del nonno e della veglia della nonna nella cabina piena di fango della coppia guidano l’incantevole video dell’artista e l’installazione Wantee (2013), commissionata da Grizedale Arts e mostrata alla Tate Britain come parte di Schwitters in Great Britain. Questo lavoro ha fatto vincere a Prouvost il Turner Prize nel 2013, in combinazione con Swallow (2013), la sua installazione video per il Max Mara Art Prize for Women e il prodotto di una proficua residenza in Italia.
Quest’anno, Prouvost trova di nuovo ispirazione in Italia, rappresentando la Francia alla 58a Biennale di Venezia. Dopo Annette Messager e Sophie Calle, Prouvost è solo la terza artista femminile a prendere la guida del Padiglione francese. Nella sua intervista con la curatrice Martha Kirszenbaum – la quale lavora da tempo a fianco dell’artista e ha presentato i suoi lavori in città come Parigi e Los Angeles – Prouvost colloca il suo progetto per la Biennale nella matrice della sua pratica intuitiva: “Vorrei dire che il mio lavoro per il padiglione francese è parte di una continuità, perché la mia pratica è organica e tutto è connesso, sia nelle sue intenzioni sia nella sua forma”¹.
Il linguaggio, costituito da un inglese con accento francese, è al centro del lavoro di Prouvost. Nelle sue mostre, ad esempio quella al Palais de Tokyo nel 2014, l’artista usa la sua voce come una macchina, o come un motore che fa le fusa, e a volte come una sirena, che guida la narrazione in “modalità emergenza”. Allo stesso modo, nei suoi video, la sua voce, combinata con montaggi percussivi di testo e immagine, rende il lavoro molto intenso e coinvolgente. Appena dopo l’uscita di Swallow, in un’intervista con Adrian Searle, critico di base a Londra, Prouvost in merito al video afferma: “Come creatore si ha un buon controllo… Ritengo che se si desidera controllare un’emozione questo è uno strumento davvero straordinario”². Per questo lavoro, l’idea era “mostrare il gusto del sole”. Immagini sfocate di una bocca rosa che sbadiglia scandiscono scene idilliache di piedi nudi su un’erba rigogliosa, Prouvost e le sue amiche che si bagnano nude in una cascata, e pesci d’acqua dolce che si abbuffano di lamponi. “Girati”, intona la voce fuori campo dell’artista, “i frutti sono puri”. Prouvost conosce il potere della propria voce, seducente come un frutto maturo o le curve di un corpo nudo. “PRIMA DI TUTTO DEVO CHE DIRE ADORO IL SUONO DELLA TUA VOCE”, lampeggia come una cornice di testo nel video We Know We Are Just Pixels (2014).
Molti dei testi di Prouvost, o “Segni”, iniziano con la parola IDEALMENTE. Con questo passaggio linguistico lontano dal reale, lei insiste nel domandare come l’istituzione artistica, le opere d’arte e i semplici gesti della vita quotidiana possano essere migliorati: “IDEALMENTE QUESTA STANZA SAREBBE MOLTO MODERNA CON ANGOLI TAGLIENTI PIENI DI SPECCHI E FINESTRE” (2014), “IDEALMENTE QUESTO SEGNO TI PORTEREBBE PIÙ IN ALTO” (2017), “IDEALMENTE QUESTO SEGNO TI PRENDEREBBE TRA LE SUE BRACCIA” (2011). “Sto solo suggerendo e ipotizzando possibilità”, spiega Prouvost, “il pubblico costituisce una determinata immagine nella propria testa”³.
Le recenti sculture di Prouvost della serie Parle Ment (2017) – il titolo è la francesizzazione del termine inglese “Speak, Lie” che significa “Parla, menti” – potrebbero essere descritte come figure stilizzate a grandezza naturale. Realizzate con sbarre di metallo nero e monitor a schermo piatto come teste, sono state presentate nella mostra “LOOKING AT YOU LOOKING AT US” presso la galleria parigina di Nathalie Obadia nel 2017. Ironizzando sulle rappresentazioni schematiche di genere, in The Parle Ment sitting Woman reading a letter (2017), ad esempio, Prouvost indicava il seno con macchie di cartapesta rosa che cadevano dal telaio metallico della scultura. Nel frattempo in The Parle Ment Metal Man Offering Drinks (2017) teneva un piccolo vassoio di legno con quattro tazze da tè in porcellana e una teiera floreale. Il testo digitale sui monitor dei lavori catturava il visitatore con frasi bisognose, chiedendo uno spazio per il dialogo e lo scambio: “MI È STATO DETTO DI RESTARE QUI E RILASSARMI”, “MI PIACEREBBE FARE UN GIRO QUI INTORNO CON TE”, “VORREI ABBRACCIARTI”.
Nel mentre, insieme all’artista Jonas Staal, Prouvost ha ideato L’Aube’s cure Parle Ment (2017) (pronunciato l’obscure parlement, i.e. l’oscuro parlamento), un’installazione per la mostra “State (in) Concepts” curata da iLiana Fokianaki presso la Kadist Art Foundation a Parigi. Strutture nere ordinate con tende (realizzate da Staal) servivano da palchi per i frammenti di dialogo e le forme che Prouvost mostrava anche presso la galleria Obadia. Un’enorme lingua rosa, prodotta da Prouvost in resina e schiuma, si spalancava al centro dell’installazione. La lingua, meccanismo vitale del parlato e motivo ricorrente nei suoi video, in questo contesto è stata posizionata nell’epicentro, come fosse un perno del corpo governato degli artisti.
Mentre il nonno scavava, la nonna si manteneva qualche passo indietro a servire il tè, a volte con un goccio di gin, e a lavorare ai suoi arazzi. Il titolo del lavoro di Prouvost Wantee è un riferimento al soprannome paternalistico della partner di Kurt Schwitters, Edith Thomas, che spesso offriva ai suoi ospiti un’infuso caldo. “Vuoi un tè?” Continua a chiedere Prouvost, non facendo il verso alla signora Thomas bensì alla cultura machista che ne ha inventato il soprannome. Nel mentre, gli ambiziosi e coloratissimi arazzi di Prouvost si fanno metafore formali per i suoi racconti e per gli ampi e avvolgenti ambienti che crea nelle sue installazioni e video. Al Palais de Tokyo la scorsa estate, Ahead of Us (2018), un arazzo di tre metri per quattro, impreziosito da rami d’albero, metteva in mostra quello che sembrava un tavolo da tè della cabina della nonna con ceramiche fatte in casa. Il testo che incornicia l’arazzo recita: “IMMAGINACI MENTRE FACCIAMO TUTTO INSIEME, ALLA RICERCA DELLE BACCHE, A CACCIA DI MAIALI – SAREMMO TUTTI SUDATI, GRAFFIATI E SPORCHI PER LA CORSA NEI CESPUGLI”. Il potere del collettivo emerge con l’assenza del nonno, e Prouvost ci permette di dare un’occhiata a una sorta di utopia femminile che si basa su rituali domestici artigianato.
“Speak”, una mostra collettiva alla Serpentine Gallery di Londra nel 2017, ha coinciso con l’antologica dopo la scomparsa di John Latham, con il quale Prouvost lavorò come assistente quasi vent’anni fa, durante i suoi studi alla Central Saint Martins. Appropriandosi del titolo di un film sperimentale di Latham del 1962, la mostra riuniva i lavori di Prouvost, Tania Bruguera, Douglas Gordon e Cally Spooner. Prouvost ha occupato uno spazio buio al centro della galleria con l’installazione end her Is story (2017). Una serie di oggetti su piedistalli – vetro, bustine di tè, rami, burro e gli onnipresenti limone, pomodoro, cipolla e carota – erano alternativamente illuminati dai riflettori e dalle intonazioni melodiche della voce narrante di Prouvost. Latham ha anche lavorato con libri e testi, invitando i suoi studenti a masticare e sputare le pagine di Art and Culture di Clement Greenberg. Anche per Prouvost, la lingua e il testo scritto rappresentano i media più flessibili.
Gli arazzi disposti nel tunnel che costituiva l’ingresso di “Ring, Sing and Drink for Trespassing” di Prouvost al Palais de Tokyo nell’estate 2018, si presentavano come un monumento allo scavo concettuale del nonno e all’incessante lavoro della nonna. Delle teiere in ceramica smaltate a mano erano sparse qua e là, assieme a una cesta con frutta e verdura, oltre a lamponi scuri che maturavano sugli specchietti delle macchine. In questo caso, era la forma femminile a trionfare al centro della mostra, una fontana di seni di uvetta grande come l’opera centrale di un Giardino d’Estate. We Will Feed You (2018), ha spiegato Prouvost, è “un simbolismo estremo, femminile – una fontana surreale, leggermente grottesca di nove seni”⁴. La storia del tunnel è un modo affascinante, innocente e ingannevole, per seppellire les maitres, i maestri.
Prouvost si pone spesso come una personalità singolare, tuttavia esiste una ricca discendenza in cui il suo lavoro potrebbe essere inserito, iniziando forse con i primi lavori di Gina Pane. Il legame con la terra e la ricchezza di materiale e di testo, rimanda ad esempio al primo grande lavoro d’arte ambientale di Pane, Acqua alta / Pali / Venezia (1968-70). Qui l’artista presenta una foresta di colonne inclinate di Duralinox che emergono da pozze di fango e coprono il pavimento, il muro e soffitto con le parole italiane “acqua alta”, “pali” e “Venezia”. L’ipermaterialità e l’urgenza del lavoro di Pane riecheggia nella pratica di Prouvost. Sebbene la gravità emotiva del lavoro performativo di Ana Mendieta sia in contrasto con la relativa leggerezza di Prouvost, entrambe le artiste lavorano con il proprio corpo nel paesaggio in maniera audace rispetto ai loro tempi. Si potrebbe tracciare un parallelo più formale con il lavoro di Martha Rosler, in particolare con il suo video Semiotics of the Kitchen (1975). L’insegna di Rosler in gesso bianco su una lavagna portatile che annuncia il titolo di questo lavoro con una serietà impassibile riecheggia nei “Segni” di Prouvost e nelle teste ansiose delle sue sculture Parle Ment e nei testi sugli schermi dei suoi video. E la voce fuoricampo ansimante di Prouvost nel video If it was (2015) è un riff estatico del provocatorio Little Frank and His Carp (2001) di Andrea Fraser, esibito al Guggenheim Bilbao, all’epoca appena inaugurato. “Nel mio museo… di notte”, intona Prouvost in If it was, “tutti quelli che lavorano qui baciano il pavimento ovunque… ti verrà chiesto di toccare tutto, anche di leccare… non andiamo più in chiesa la domenica, veniamo qui”.
Questa estate, i seguaci del suo lavoro si recheranno a Venezia per vedere “DEEP SEE BLUE SURROUNDING YOU / VOIS CE BLEU PROFOND TE FONDRE”, il progetto dell’artista per il padiglione francese, in cui si appropria dell’iconografia del cefalopode. Il polpo compare già nell’opera di Prouvost This Means (2019), una scultura in vetro di Murano alta due metri, attualmente attualmente in mostra al M HKA di Antwerp, così come nel video Lick in the past (2016). Prouvost non è l’unica artista contemporanea a utilizzare la metafora col mondo marino in relazione alle dinamiche animalesche del nostro momento storico dominato dai social network. L’artista Monira Al Qadiri, di origine kuwaitiana di base a Beirut, ha recentemente affermato: “nell’attuale epoca segnata dall’iperconnettività, quale creatura si deve diventare in questo scenario? Occorre praticare l’oktopolitik”⁵. Al-Qadiri condivide con Prouvost anche l’uso dell’umorismo, assieme a una deliberata non chalance che quasi maschera la critica ben strutturata di entrambe le artiste nella creazione del mito che concorre nel plasmare la storia dell’arte, del genere e del parlare d’arte. Entrambe le donne sembrano vedere una soluzione nel lavoro della collettività. A Venezia, Prouvost spera che “ogni spettatore possa diventare un tentacolo del progetto… Il linguaggio si apre a un’infinità di possibilità sorprendenti”⁶.