I film di Lene Berg danno prova di una rara capacità di penetrare ciò che domina l’inconscio personale e di gruppo, affrontando il tema del raccontarsi e controllarsi a vicenda come pratiche di coesione. I racconti, le fantasie, i lievi scarti tra finzione e verità e tutti i trucchi resi possibili dalla verbalizzazione del sentimento, sono metodi capaci di stabilire gerarchie e di tenere insieme un nucleo familiare, un gruppo di amici o interi popoli. Nell’uomo, la dinamica del branco animale diventa più sofisticata ma non meno feroce, come seppero intravedere sia Sigmund Freud sia, in modo più lucido per gli effetti politici, suo nipote Edward Bernays, che inventò parte dei metodi della CIA partendo dal convincimento che i comportamenti abbiano un fondamento irrazionale.
Nel film Sporchi, giovani, dissoluti (2013) siamo in un albergo, di notte. Un ragazzo viene condotto via su una barella, mentre restano nella camera un uomo e una donna che forse erano con lui. Infermieri e aiutanti se ne vanno, i due rimangono soli e scoprono che tutto ciò che è accaduto nella camera era stato ripreso da una telecamera nascosta. Noi spettatori non capiamo se c’è di mezzo un amore triangolare, un atto di gelosia, un traffico illegale, un atto di violenza o un incidente. Soprattutto, ci chiediamo se ci sia una vittima e se ci sia un manipolatore. L’interrogatorio a cui i vengono sottoposti i protagonisti accentua la temperatura emotiva della relazione, dell’inquisizione e del nostro desiderio di sapere, anche noi spinti da uno sguardo giudicante.
È questo film che Lene Berg ha scelto di associare alle opere di Edvard Munch per la sua partecipazione alla Biennale di Venezia, nel Padiglione Norvegia che è coprodotto e ospitato dalla Fondazione Bevilacqua La Masa. Ciò che avvicina due norvegesi così distanti per epoca e modus operandi è l’associazione tra una società sentita come opprimente, da un lato, e dall’altro l’inevitabile irragionevolezza dei nostri impulsi. I rapporti tra le persone in un sanatorio, i gruppi di ragazzotti che fanno sentire debole chi cammina isolato, l’associazione simbolica tra una vecchia e una giovane, l’angoscia che regola i rapporti umani, si ritrovano in artisti così lontani ma scossi da domande compatibili.
Nel precedente film, Kopkfino (2012), otto donne raccontano i loro incontri con uomini dalle speciali fantasie sessuali. Disposte frontalmente dietro a una tavola, come in un’ultima cena, ciascuna narra degli episodi e dei personaggi più sapidi che ha incontrato. Ognuna veste abiti adatti alla propria specialità (sadismo, dominazione, infantilismo, eccetera). Ne emerge un quadro di perversioni innocenti e ossessive, un affresco di regressioni tra crudeltà e debolezza, che ci immerge in una domanda drammatica: fino a che punto è sopportabile l’emancipazione femminile? Non porta l’uomo a reagire in maniera talmente cruda da doverne mettere in dubbio l’efficacia e la necessità? E queste donne, che per mestiere raccolgono i cascami di psicologie a pezzi, sono vittime, lavoratrici qualsiasi o avvoltoi?
Qui come in altri film, quali Stalin by Picasso or Portrait of a Woman with Moustache (2008), The Man in the Background (2006) e 33 minutes (1999), Lene Berg associa questi temi a una domanda costante sulla realtà e sulla sua ricostruzione storica, anzi, sulla possibilità stessa di scrivere la storia: che cosa è vero e cosa è allucinato? Qualsiasi verità è costruita dalle parole o da manipolazioni che hanno influenzato sia gli eventi, sia la loro traduzione in un racconto. Qualsiasi luogo è un luogo del potere e del suo andirivieni tra dominato e dominatore.