L’archivio della memoria di Letizia Battaglia (73 anni di dolce fierezza) è costruito con i materiali di un dolore e di un sentimento per la sua terra che sfidano il tempo. Classici perché intensi e assoluti, ma mai passati, mai museificati o invecchiati, bensì sempre intatti e reali. Per diciotto anni, a partire dal 1972, Battaglia è stata cronista di frontiera per il periodico L’Ora, documentando insieme a Franco Zecchin la Palermo in cui la mafia fronteggiava lo Stato e regolava i propri conti amministrando con il sangue la legge del territorio. La macchina fotografica era insieme strumento di lavoro e scudo con cui proteggersi dalla ripetitiva e insopportabile fl agranza dell’orrore, ma anche manifesto e medium elettivo per una denuncia e una lotta alle quali Letizia Battaglia non ha mai voluto rinunciare. Ha infatti portato sul campo il proprio impegno, dapprima come fondatrice del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”, fino a divenire assessore all’ambiente nella giunta Orlando in quello che potrebbe essere defi nito un breve Rinascimento palermitano. Negli anni più recenti il suo lavoro di autrice — per non farle torto è bene spendere questo titolo nobiliare in luogo di quello di artista — ha ripescato il proprio ricco repertorio per ripensarlo ed esorcizzarlo in un ininterrotto discorso sulla bellezza e la rinascita, sull’inquietudine e la necessità di fare. Protagonista è l’inquietudine di una donna — un’attrice-performer — che dà volto al sentimento dell’autrice. Intanto, nella relativa indifferenza delle istituzioni nazionali, Letizia Battaglia continua a essere tra gli autori più rispettati all’estero, insignita di premi come il recente Cornell Capa Infinity Award, lo Eugene Smith Award, il Mother Jones Achievement for Life e il Dr. Erich Salomon Award. Il suo archivio è ancora un tesoro nazionale in attesa di tutela, recupero e valorizzazione.
Augusto Pieroni: Buongiorno Letizia.
Letizia Battaglia: Buongiorno Augusto. Lo sai che le interviste non mi piacciono. Mi stancano.
AP: Lo so. Togliamoci subito gli argomenti pesanti, allora, vuoi? Per esempio: consideri un problema il valore artistico conferito alla tua produzione reportagistica?
LB: Facevo la reporter, poi non ho continuato. Se quelle foto sono belle è — come dire? — un incidente di percorso. Si tratta della memoria di una terra, di una storia, della mia memoria di donna e di cittadina. Ma quel dolore che mi segna e mi inquieta oggi ha sempre meno interlocutori. Questo mi dispiace tantissimo. Il lavoro che ho realizzato successivamente è importante per me, ma quando vengo considerata un’artista rischio di venire spogliata di tutto ciò in cui ho creduto e che per me è fondamentale. A Palermo, in Sicilia e in Italia le cose stanno andando malissimo. E intanto le mie foto sulla mafia vengono considerate arte e si ritrovano musealizzate. Ci si riempie la bocca del loro coraggio, ma così le si “neutralizza”. Vuoi vedere che mi tolgono l’unica cosa a cui tengo? Possono essere così bravi da togliermi la lotta?
AP: Tu stessa hai affrontato il peso di quella memoria, tentando di riutilizzarla come sfondo per i lavori più recenti. Hai usato gigantografie dei tuoi scatti, inserendovi una donna, dei fiori e degli oggetti. Hai lavorato a un’enorme sublimazione del dolore e a una rinascita degli elementi primi: l’acqua, la donna, la bellezza e il nudo.
LB: Era un fare qualcosa con le foto. Quasi un lavoro senza pensiero. Non dicevo: “Ora esorcizzo!”, ma facevo spogliare una donna, prendevo alcuni oggetti e li facevo agire sopra le vecchie foto. Non volevo pensare troppo, per non farmi troppo male. Ricordi il documentario di Daniela Zanzotto, Battaglia. Una donna contro la mafia [Audience Award al Biografilm Festival di Bologna nel 2005, ndr], in cui cercavo di affidare al mare le mie foto stampate su grandi fogli di carta e la corrente me le riportava indietro? Non è facile disfarsi della memoria. Ora, dopo aver realizzato la serie più recente, sono finalmente riuscita a svuotare l’archivio. Ho strappato tante foto e non ho più l’archivio della Palermo di tanti anni fa. Sono rimasti i negativi, ovviamente, ma l’ossessione delle foto del passato mi sta passando. Tuttavia è vero che ogni nuova idea naufraga nelle difficoltà e nell’indifferenza.
AP: Hai realizzato anche un video, Fine della storia, di cui è protagonista Serena Barone, l’attrice che compare anche nella tua serie fotografica più recente. Nei temi e nella prassi di lavoro credo che questo video apra alla comprensione dei tuoi ultimi lavori fotografici.
LB: Hai detto bene: “attrice”. Qualcuno insiste nel dire che è una modella, ma io non uso modelle. Si tratta di donne, non di manichini. Davanti alla mia macchina fotografica o alla macchina da presa, Serena interpreta un’emozione. Ho sempre preferito ritrarre persone che hanno dentro qualcosa… Qualcosa in cui posso rivedere il mio stesso malessere, i miei stessi sogni, la mia stessa idea di bellezza. Un’idea opposta ai canoni estetici della moda. Il bello assoluto non mi interessa. Per me la bellezza interessante è quella interiore, inquieta. Amo il lavoro di Josef Koudelka e di Christian Boltanski. E poi, Robert Frank, Sally Man… Insomma, credo di amare i fotografi che non fanno distinzione tra vita e fotografia. Ammiro i fotografi senza vanità, come Eugene Richards, e guardo con molto interesse gli artisti contemporanei che usano la fotografia o il video per comunicare le loro inquietudini.
AP: Dopo vorrei tornare sui sogni, ora ho una curiosità: quando ho incontrato Serena a Palermo, mi ha detto che lavori velocemente, che sei dolce ma anche piuttosto dispotica. E che tutto avviene in poco tempo.
LB: So quello che voglio e lo chiedo. Poi deve essere lei a interpretarlo. Io mi limito a scattare, oppure lascio che l’operatore riprenda. Ecco, l’operatore! Realizzare dei video è molto costoso, almeno per pagare gli operatori o chi si occupa del montaggio. Per questo motivo dubito che il mio progetto per il prossimo video vedrà mai la luce [Palermo vista con gli occhi della nipotina Marta, testimonianza vivente della transizione dall’innocenza alla consapevolezza nell’età di passaggio tra infanzia e adolescenza, ndr]. Sono ferma di fronte alla mancanza di fondi e non sarò io a chiederli alle istituzioni che mi ignorano, e ancor meno ai privati. Intanto Marta cresce, ora ha quattordici anni, non è più la bambina di tre anni fa, e io non posso che continuare ad aggiornare il mio progetto. Uno specchio recuperato per strada rimane ancora inutilizzato. Domani cercherò uno spazio sotto il cielo, con alberi e fili d’erba, un luogo di sogno e di pace. Lì inserirò un documento del mio disagio e lo specchio ripeterà il verso della mia ossessione. Poi, mi distenderò esausta sulla terra bagnata e amerò la piccola nuvola bianca.
AP: Continuerai a occuparti delle donne, della loro anima espressa mediante il corpo?
LB: Sto superando anche questo. Cerco altro, anche se sono solo all’inizio di una nuova fase, perché ho abbandonato il pensiero ridicolo che le donne salveranno il mondo. Così, ho esaurito anche la speranza nei confronti di un’efficace e civile lotta antimafia e vedo ormai fallito il progetto di collaborazione per un mondo più giusto. Le mie contraddizioni mi confondono e, al contempo, mi esaltano. In questo momento, più che mai, odio i cliché. Sento il bisogno di uscire dalla città, anche per poco. Vorrei ritrovare la natura e specchiarmi in essa. E poi si dovrà ripensare alla lotta… Vedo la figura di Che Guevara fondersi con quella di Cristo.
AP: Un’autrice che ha legato il proprio nome a immagini così crude, realistiche e devastanti, come quelle degli omicidi di mafia, certamente soffre dell’indifferenza che il pubblico può nutrire verso le sue emozioni e la sua intima fantasia. La tua opera recente dimostra pienamente la necessità di liberare questa parte di te, che confina — lo si voglia o meno — con la dimensione dell’arte. Allora, lascia che ti chieda: che cosa sogni?
LB: Ho un sogno ossessivamente ricorrente. L’ambientazione è quella di un vecchio quadro degli anni Cinquanta, con una Palermo piena di strade, montagne, pendii scivolosi e fango. Tengo sempre in braccio una bambina e cammino, percorro all’infinto strade diverse, ma non riesco a trovare la strada di casa mia. Si tratta di una condizione simile a quella che sto vivendo: giro un angolo dopo l’altro e ogni volta trovo un ostacolo diverso, e nessuno che abbia le risposte alle mie domande
AP: Né la psicanalisi né la fotografia? Ti hanno deluso entrambe?
LB: No. La fotografia non mi ha mai delusa. Né io ho mai deluso me stessa, anche se ho sbagliato e a volte ho realizzato fotografie che oggi considero brutte e banali. Trovo sublime il lavoro, il tentare, il cercare. Quando ero giovane e stavo male, sono stata in analisi da un meraviglioso maestro freudiano che si chiamava Francesco Corrao. Dopo la sua scomparsa, ho scoperto che potevo farcela da sola ed è per questo che mi sono ritrovata in mano una macchina fotografica, con la quale potevo instaurare un rapporto sincero, diretto e non mediato. Così, nel tempo, ho felicemente sperimentato che non ero più soggetta a Freud, a Jung, a Lacan o agli altri. Ero libera nel grande mondo.
AP: Che mi pare sia ancora, irriducibilmente, uno dei tuoi insegnamenti principali per le giovani e spaurite generazioni. Grazie di questo e di tutto, Letizia!