Ciao Sara,
grazie al tuo sguardo capirai il senso tra le righe di questa lettera. Vorrei parlarti di quando ho scambiato la mia vita con un’altra persona, di quello che c’è stato prima e di quello che ci sarà dopo.
Tutto è iniziato a Beirut, mercoledì 21 settembre 2011, dopo il mio arrivo nella casa di Gemmayze, sopra il ristorante Dartaud, al secondo piano. Entrambi credevamo di conoscere quello che stava per accadere, ma non era così, niente poteva essere prevedibile, niente pianificabile. Parlavamo, i sorrisi erano sommessi, gli occhi sembravano graffi, quei momenti mi ricordavano le nostre cene, dove ogni battuta, ogni sguardo incrociato e ogni movimento impacciato rimanda all’inesorabile finale pieno di carne. La prima cosa che ci siamo scambiati sono state le chiavi di casa, poi gli orologi, poi i documenti. Ognuno leggeva la lista che l’altro gli aveva scritto, la mia era sul retro di un manifesto recuperato nel palazzo dov’ero in residenza, la sua era blu: password — email — nome — età — impegni imminenti — amici — chi è chi — chi è cosa per te — chi sei tu per loro. La mia: password — email — pochi impegni — modi per dimenticare — meditazioni autodidatte — chi è chi — chi sei tu per loro — ricerca forzata di abitudini libanesi. Ci scambiammo le scarpe, avevamo entrambi il 44, i vestiti erano così diversi, io non mi sposto dall’anonimato, lui invece adora le fantasie a righe e a quadri, i colori sgargianti e il gusto pacchiano che si riflette nel caldo mediterraneo, però è norvegese. Jorgen Ekvoll, 1981, di Oslo, cercalo… Appena ci saremmo svegliati tutto sarebbe iniziato. Quella notte i sogni sono stati pazzi, io ero una testa all’altezza del soffitto di questa stanza gialla, parlavo con un’altra testa vagamente mora e giapponese, da sotto il suo collo si estendeva un panneggio bianco messo come se lei lo stesse tenendo con le mani nella posizione della riverenza. Non ricordo di cosa parlassimo, so solo che lei si muoveva ondeggiando e ogni volta che sfiorava il soffitto con i capelli lasciava una traccia grigia fumosa, che sporcava l’intonaco con odore di grafite. Aperti gli occhi mi sono ritrovato solo in quello che doveva essere ufficialmente il mio letto, come poter sentire mie una serie di abitudini così definite da un altro? Ricordarsi di preparare un buon ritorno al mio coinquilino nonché mio migliore amico con cui ho attraversato a piedi il Libano da Nord a Sud, non gettare la carta nel water, non alzare la musica nel lato destro della casa, spegnere sempre la bombola del gas per evitare che saltasse tutto in aria, succhiare snuss al posto delle sigarette, vestirmi in modo assurdo sentendomi una specie di arlecchino in versione pappone in miseria, il poco cibo in casa, formaggio spalmabile, pane da arrotolare e tutte le altre particolari attenzioni che sapevo avrei dovuto avere erano una questione di pura apparenza, un involucro che avrebbe dovuto raccogliere e tenere unita una persona la cui coscienza desiderava essere una ballerina tra corpi da riempire. Dire scambiamoci la vita, può voler dire tutto e niente, era chiaro nel progetto, ma nella realtà si è rivelato molto più intenso, molto più lungo e molto più l’opposto di quello che credevo essere. Volevo dimenticarmi, volevo fare un regalo al figlio che ancora non ho, iniziare a iniettarmi la memoria del cambiamento, della mutazione guidata e voluta, della volontà intrinseca che va oltre la mente che la produce, perché semplicemente è, non ho nessun desiderio megalomane, odio gli esaltati e nessun ideale mi spinge. Tu lo sai, la mia è una necessità biopersonale. Volevo dimenticare Luca De Leva, volevo iniziare a far esistere solo un corpo abile a svuotarsi e ricomporsi ogni volta che lo volessi, non basta ricordare, facciamolo. E quindi tutto era iniziato. Cercavo in me la base fisica di un’idea, la scarica elettrica che le fa da specchio, cercavo di sentirla attraverso un senso che non so definire con le parole, ma che qualcuno chiamerebbe sensibilità. Dopo una serie di pensieri tra le lenzuola mi sono messo a lavorare al computer, con penna e tavoletta, nel mio ufficio, che era costellato di libri, leggendo i titoli pensavo che alcuni sarebbero potuti essere anche miei, no, così non andava, perché io non ero più io, non c’era quell’io cui mi riferivo, ma anche se Luca non esisteva non potevo sentirmi Jorgen, cercavo di sentirmi chiunque, un campo sterminato di zolle spalancate. Mentre camminavo per strada il secondo giorno ho avuto la prima crisi, indossavo dei pinocchietti a righe verde pisello e una maglietta bianca, scarpe nere e cuffie gialle, musica elettronica mi percuoteva i timpani, ero confuso, avevo mangiato pesante come sempre in Libano, carne maledetta, camminavo da un paio d’ore, ma il Beirut Art Center non lo trovavo, ero stanco, stanco morto, faceva caldissimo, ho visto bianco, un cerchio alla testa fortissimo, mi sono dovuto appoggiare al muretto al mio fianco, non capivo più niente, ma che stavo facendo? Aveva senso? Smettila di giocare con le parole, entra nel linguaggio e modificalo da dentro, il linguaggio siamo io e te, perché noi lo comprendiamo, il nostro corpo è un ottimo materiale, con tutto quello che ne consegue. Quella è stata la prima crisi, non era facile curarla, mi mancavo molto, ero combattuto, non volevo trasgredire all’unica regola che mi ero dato, non ero Luca, non ero nessuno, non mi importa di quello che è gia sentito, io ero il pioniere della mutazione ed ero riuscito a trovare un ignaro adepto della mia teoria, tutto quello che cerco di far passare per strampalato in me, di inattendibile, di inaffidabile, è solo la scorza che i veri amanti possono scalfire, che tu puoi scalfire.
Parente di chi muta e che dal passato ha soffiato fino ai nostri giorni. Avevo mal di pancia, un senso di distanza primitiva da tutto quello che conoscevo di me, ed erano passati solo due giorni, stavo accasciato al muretto sul bordo di quella stradona larga, avvelenata e trafficata, quanto rumore facevano i clacson e quanto rumore faceva la mia testa. Implodevo ed esplodevo, forse è per questo che tornato in Italia pesavo cinque chili in meno, mi stavo schiacciando, mi stavo spremendo, avrei dovuto raccogliere l’olio e farne dei ghiaccioli. Andando in giro per i locali di Beirut, vestito in quel modo diciamo carnevalesco, incontrai diverse persone, a volte mi presentavo come Jorgen il norvegese, a volte evitavo le risposte. I momenti migliori erano però quelli in cui incontravo Luca, si finiva spesso intorno ai tavoli dell’Em Nazhim, ubriaco di arak, a parlare in gruppo, ecco, non è facile parlare di sé stessi in terza persona, soprattutto se chi ti fa le domande non capisci se le sta facendo a te o a chi abitava quell’immagine prima di te, chiedere come sta la sua ragazza e avere in questo unico modo informazioni su di te, si generavano bolle di confusione in noi e in tutte le persone intorno, l’esperimento si espandeva a macchia d’olio, siamo un’intrecciata mailing list dal vivo, ci formiamo come unico organismo e solo cosi possiamo essere, la percentuale dell’idea che non mi appartiene è quella che la mette in relazione con il mondo e le da significato, non posso pensare una cosa che non conosco, sicché quello che non conosco non esiste, è per questo che i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio tempo… La persistenza è un valore e le cose che trascorrono sono invece inaffidabili? Ci sono stati molti momenti divertenti, come quando ho fatto gli auguri a mio padre per il suo compleanno, non credevo che riuscissi a creare battute in norvegese, ma sembrava divertirsi dalle risposte che mi dava. Lo stesso fece Luca in quel momento, rispondendo alle mail, la cosa strana è che iniziavano sempre con un italiano corretto per poi finire in frasi che pur impegnandosi non avevano nessuna logica costruttiva, noi decostruivamo noi stessi tanto quanto la sintassi grammaticale della lingua dell’altro. Fantastico leggere tutto questo una volta tornato indietro nel mio corpo, inutile farlo leggere ad altri, l’esperienza funziona nel momento in cui avviene, solo ripetendola se ne può carpire il senso profondo, pur rischiando di allontanarsi dalla semplicità negativa delle cose. Alternavo momenti di eccitamento infantile a fasi di vuoti totali; qualcuno mi disse che ero come morto, era una distanza siderale quella tra noi, incolmabile, inarrivabile, il fatto che ci fosse un altro al mio posto rendeva impossibile elaborare il lutto, perché a ogni tentativo di contatto arrivava puntuale una risposta, che talaltro aveva sempre il tono adatto al tipo di domanda, i tentativi di contatto non hanno mai smesso di arrivare, una tomba virtuale, il profilo di un angelo. Una settimana può sembrare poco, non lo è. La prima volta che incrociai luca lui recitava a fare l’italiano, metteva in atto tutti gli stereotipi tipici, la seconda volta che l’ho incontrato stava impazzendo, era scuro in viso e non riusciva più a vivere mentendo, credo che lì la cosa stesse iniziando a funzionare anche per lui, è un viaggio nel ghiaccio, la cosa più fredda che abbia mai provato. La profondità abissale in cui ci si spinge porta la temperatura sotto la soglia sopportabile. Più cercavo di dimenticare me stesso e più mi calavo in profondità, verso gli ultimi giorni mi ritrovai perso nei miei pensieri, avevo ricordi della mia adolescenza che riaffioravano alla mente in modo spontaneo, cose quasi rimosse, alle quali non avrei mai pensato, è stato forte, forse la cosa più assurda di tutte, gli occhi rovesciati, non abbiamo bisogno di specchi per guardarci le spalle. Sviluppavo attitudini da quell’esperienza, comportamenti spontanei. L’interzona non mi era mai stata così familiare, mi sentivo la sezione tra gli insiemi, la deriva necessaria allo scopo, ho provato a unire orizzontalmente le due chiavi degli appartamenti e guardare nello spazio che ne deriva, lo continuo a fare circa ogni giorno. Non crediamo più nei telescopi, ma nelle trasparenze della pelle che mi hanno fatto scoprire il quorum sensig, parole prima sconosciute mi hanno fatto pensare alla vera natura che mi gonfia la fronte, ho raccolto parecchio materiale da questa esperienza, posso soddisfare il bisogno di oggetti con varie forme e in modi diversi, ma quelli che preferisco sono due. Mi sono fatto bersaglio del virtuale, quando un’idea si concretizza è come la caduta di un angelo dal paradiso, se riuscissi a utilizzare quell’energia alla rovescia e ad aggrapparmici forse potrei arrivare altrove. Parzialmente convinto di possedere solo il mio corpo e il mio tempo, in ogni caso sono le sole due cose che percepisco esserci con certezza, gli unici materiali necessari da plasmare — e come piace a loro farsi toccare, godono urlando quando le mie mani ne afferrano le forme viscide in un bavoso attaccamento a una bolla di gomma — rappresentare, nel senso di svolgere le proprie funzioni in nome di altri, forse finiremo un giorno con lo scoprirci estranei e amanti, resteranno solo i nostri denti, fossili di igiene orale, ancora più reale di noi e degli spazi vuoti intorno cui orbita la nostra fame, quello che davvero può saziarmi è sapere che la mia stessa volontà possa ripetersi in altre storie, sto creando un’agenzia di viaggi chiamata “Thy Self People”, persone che vogliono passare un periodo nella vita di un’altra, mentre l’altra ne stupra la propria, per ora siamo in una ventina.
Affronto fisicamente un’idea, finché questa mi possiede.
Con te per sempre.