Marcello Maloberti: Girandole, casse acustiche, registratori, microfoni, radici, carrelli, teste di bambola, gommapiuma, cigni, gabbiette per topi, sedie, culle, ghigliottine, termometri, passamontagna, matia bazar, mini moto, fisarmoniche, biscotti, tappeti, terrra cotta, giocattoli, pagliacci, soldatini, paolo conte, giornali, trombe, frigoriferi, funghi, vetri rotti, megafoni, angurie, falce, lampadine, cd, pane secco, tamburi, lupo di gesso. Ma cos’è quel lupo di gesso appena entri nel tuo studio? Io ho due pantere nere che da dietro il tavolo guardano tutti quelli che entrano.
Liliana Moro: In bocca al lupo, passando dalla pancia e su fino alla testa, due grandi occhi da cui guardare il mondo! Proposta per un concorso di scultura nel parco, la si pensava alta 5 metri, da un’apertura nella pancia e attraverso una scala a chiocciola arrivavi nella testa e dagli occhi guardavi fuori; non ho vinto e siamo fermi in studio.Questo è il lupo che ti accoglie nel mio studio. A volte ci sono anche Gino e Peppino, i gatti.
MB: Lo sai che ti ho sempre vista come l’Anna Magnani dell’arte contemporanea.
LM: Grazie! Senti questa di Anna Magnani è troppo forte, certo mi piace! Ehhh, quella corsa. Ma forse ti riferisci ai miei show!
MB: Quando sono arrivato da Fabro tu già non c’eri più, ma si parlava sempre di te, tra tutti quelli di Lazzaro Palazzi quello che facevi tu mi condizionava più del resto. Cosa ti ricordi di quegli anni?
LM: Quel nostro anno è stato abbastanza unico da Fabro, lui per me è stato fondamentale. Ricordo che ci portò a montare il suo lavoro all’apertura del Castello di Rivoli. C’erano tutti, tutti i grandi dell’Arte Povera. C’era Beuys, che guardavamo in silenzio mentre succhiava e sputava l’olio dei suoi Olive Stones. C’era tutta la Germania, da Rebecca Horn con la sua grande macchia di Mercurio, fino a Kiefer. È stato bellissimo, tieni conto che era il 1984, eravamo poco più che ventenni ed eravamo circondati dai mostri dell’arte. Per noi era stupefacente, De Dominicis montava solo di notte, e noi la notte lo spiavamo, poi c’erano i Merz, che durante gli allestimenti erano macchine da guerra. Abbiamo visto per la prima volta i retroscena e il fare dell’arte, è lì che ho avuto la conferma che volevo diventare un’artista.
MB: Volevo parlare con te di una cosa che ha detto González-Torres, la sento molto vicina al mio lavoro e anche al tuo, è la questione della felicità dell’incontro con gli oggetti, a me sembra quasi che con i tuoi lavori a volte i materiali e gli oggetti siano presi da un abbraccio, io che li guardo sento che raccontano la storia di un’appartenenza, è così? Come Avvinghiatissimi (1992).
LM: Mi fa piacere che tu abbia notato questa cosa del mio lavoro, l’incontro che ho con gli oggetti è molto felice, devo dire che è importante anche portare avanti un buon rapporto con le cose. Mi piace tutto il lavoro di costruzione che si mette in atto, la spogliazione, la relazione, forse in questo senso si può parlare di appartenenza. Avvinghiatissimi l’ho esposto la prima volta in una mostra curata da Giacinto Di Pietrantonio all’Ansaldo, si chiamava “Milano Poesia”, era installato nei bagni. Nasce sia da un incontro che da una necessità, avevo bisogno della struttura di un letto per legarci sopra dei materassi di gommaspugna cinghiati con dei tiranti, c’erano poi ai lati due casse audio da cui usciva una musica, un tango splendido di Astor Piazzolla. Ho usato il letto che avevo in casa da cui mi era venuta l’idea, infatti poi dormivo per terra. Ora forse sono un po’ meno punk! Nel senso che sono meno di slancio, di pancia, più lenta ma ciò che non ho perso è il piacere del fare.
MB: Io sono un artista un po’ tamarro ma anche tu non scherzi però! Ti ho sempre vista un po’ punk, agire prima di pensare, e se pensi, pensi con l’immediatezza delle immagini. Dai lavori che fai si vede proprio la gioiosità del fare. Non ho fatto tante esperienze di strada con te, è più come se ti vedessi da lontano, come se vedessi il tuo mondo con un occhio pulito, e nel tuo mondo ci sto bene. Mi ha suggestionato quella cosa che mi hai detto di Nancy, non mi ricordo bene le parole, ma mi parlavi della superficie, che si tocca dall’interno. Come le tue casine con le luci di Natale.
LM: Toccare il fuori dal di dentro, era questa la citazione di Nancy. Mi piace la delicatezza di questa frase, e allo stesso tempo l’azione forte, precisa che richiede. Le Città del 1994, sono casine in carta con le finestre tagliate e le lucine rosse intermittenti incastrate dentro a illuminare l’interno. Ero in treno, un viaggio lento attraverso i paesi e guardavo dentro le case illuminate, e vedere qualcuno all’interno mi faceva sentire su questo mondo, veramente una sensazione molto forte.
MB: Volevo chiederti del tuo lavoro in terracotta Giovanna e la Luna, mi sembrava una statua egizia, una sfinge muta. Mi sembra che da lì tu ti sia interessata sempre di più alla dimensione della scultura. Mi piacciono gli artisti che cambiano, perché hanno carattere. Prima non ti interessava proprio rifare gli oggetti, ma forse mi sbaglio.
LM: Giovanna e la Luna, la scultura in terracotta, è nata dalla figura presentata nella performance Il Rovescio della medaglia: una figura avvolta in fasce di gommaspugna, una luce intermittente in una mano, una figura mistica, staccata, che si fa guardare. Nel mio lavoro è entrata così una dimensione del tempo che non conoscevo, si è dilatato, le relazioni sono cambiate e anche il mio modo di sentire ed essere nello spazio si è modificato, mi viene da dire che si è aperto. All’inizio non è stato facile mettere in gioco una sicurezza acquisita per un’altra, entra in gioco anche il lavoro manuale che metti nelle mani di un altro. Giovanna e la Luna è stata realizzata nello studio di Roberto Cerbai a Capalle (FI), ho un ricordo fortissimo di tutti quei giorni di lavoro passati insieme e lui era speciale, ho imparato che bisogna sapere modificare il controllo del proprio lavoro. Molto interessante, grazie a lui. Ho realizzato diverse opere in terracotta, e poi anche in vetro, la lavorazione è emozionante, ho provato anche con il bronzo con Underdog del 2005.
MB: Mi parli del tuo lavoro con i vetri rotti? Quella volta che hai creato una tabula rasa…
LM: Il lavoro del vetro rotto, sì, una tabula rasa , tutti quei vetri a terra, anche molto simbolico: “………” , questo il titolo di quel lavoro del 2001, un lavoro che è più un’esperienza, camminare sui vetri, il sottile pericolo, ti costringe a quell’attenzione che bisogna prestare per abitare i luoghi. Il suono del nostro passo, e sul fondo un foro nel muro da cui guardare un oggetto prezioso, un lettino per bambini in cristallo.
MB: Mi sembra che sia importante anche nel tuo lavoro creare dei dispositivi sonori, come se volessi dare voce alle cose che di solito rimangono mute. Più che suono è una questione di voce, di oralità, c’è spesso un racconto, a volte un testo letto veloce, a volte con autorevolezza, molte volte è solo un bisbiglio.
LM: Il suono per me non è dare voce alle cose, il suono è un’esperienza totalizzante, è attraversare l’opera sul posto, come nel mio ultimo lavoro Moi, 2012 presentato a Como per la Fondazione Ratti. La presenza delle casse acustiche che segnano uno spazio, formano un perimetro, una richiesta d’ingresso, mentre la mia voce parla di un movimento, di un’azione performativa da me eseguita diversi anni fa, Studio per un probabile equilibrio in movimento, 1997.Il testo che recito è stato estratto dal testo di un critico, Hubert Besacier, che allora scrisse di quel lavoro: la riscrittura del testo è l’azione, mi interessava riprendere il movimento. Realizzando Moi, ho pensato anche molto al mio lavoro Nessuno del 1993, era un lavoro che nasceva dal pensiero del “nessuno” di Beckett.
MB: Sei ancora interessata a quel tipo di performance in cui racconti lo spazio del corpo?
LM: È molto tempo che non faccio performance, non ne ho fatte molte, ci penso, a volte vorrei. Sicuramente è stato molto importante l’incontro con Virgilio Sieni nel 1997, la collaborazione che abbiamo avuto all’interno del suo spettacolo Canti Marini.
L’emozione di entrare in scena è già una scarica di adrenalina, meno male che non ero sola, la figura in scena era composta da due persone legate una all’altra, io avevo legata al fianco una pianola tipo Bontempi, ai piedi avevamo degli zoccoli e ci seguiva un cavo elettrico lunghissimo. La figura tenta di compiere un cerchio, si muove, si china, si appoggia, si siede, muoversi in due non è semplice, ogni volta raggiunta una posizione suono un tasto della pianola, pausa. Però preferisco la regia, quando sono sola mi sento meno sicura.
MB: Dimmi qualcosa del tuo amore per Beckett e Pasolini. Pasolini dice che le prime cose che vedi e che studi nell’adolescenza sono quelle che rimangono poi tutta la vita, sono le forme di conoscenza che rimangono più radicate. Cosa c’è nel tuo mondo, nel tuo immaginario, che ritieni fondante?
LM: Beckett e Pasolini, bella la sua citazione che usi, molto vera. Ho conosciuto Pasolini il giorno che è morto, il 2 novembre 1975, avevo 14 anni. L’impatto con quella morte, con quell’omicidio così violento fu sconvolgente, penso fu così per molti altri. Le immagini sono ancora forti, quelle di allora, e tutto ciò che provocò, che ancora vive. Ho iniziato a leggere i suoi libri, è stato il mio primo pensiero politico. Nel 1992 ho pubblicato sulla rivista Tiracorrendo degli estratti degli atti processuali (di che cosa?), le diverse deposizioni di Giuseppe Pelosi, che avevo letto nel libro Omicidio nella persona di Pasolini Pier Paolo,(Kaos edizioni).Beckett è stato iniziatico, con il primo libro, Aspettando Godot, ho capito cosa mi piaceva, mi sono avvicinata al teatro pensando alla scenografia, a 18 anni il mio primo viaggio al Festival di Sant’Arcangelo di Romagna, fu un’esperienza meravigliosa, il teatro era in gran fermento, primi spettacoli dei Magazzini Criminali. Sono tornata al settimo cielo e ho deciso di iscrivermi all’Accademia di Belle Arti a Brera, indecisa tra scenografia e pittura, che alla fine ho scelto, e a parte un primo anno con Saverio Terruso abbastanza deludente, all’arrivo di Luciano Fabro come docente ho scelto di iniziare con lui. Non è così facile spiegarti l’amore per Beckett, forse all’inizio parlavi di appartenenza, forse è un po’ così. Ho fatto nel 1993 un lavoro a cui sono molto legata, l’ho citato prima a proposito del lavoro Moi, ed è Nessuno, la mia voce recita le note al testo di Giorni Felici, tutte le azioni che gli attori compiono in scena, la mia voce esce da quattro casse acustiche disposte a croce, al centro una piccola architettura in carta con lucine intermittenti.
MB: Dormi con la luce accesa? Quali sono le tue ossessioni?
LM: No, dormo con la luce spenta, però il buio buio, quello totale non mi piace, e ossessioni… rimanere senza sigarette la prima che mi viene in mente. Poi anche i registratori a nastro, quando ne vedo uno, non so perché, ma devo averlo, soprattutto quelli con l’autoreverse.