Incontrando i lavori di Liliana Moro si ha la percezione che sia presente solo ciò che è strettamente necessario. Questo carattere, evidente nel suo percorso a partire dagli esordi, negli anni si è ulteriormente confermato e rafforzato. Si potrebbe parlare di rigore, di concentrazione e capacità di saper andare, ogni volta, al cuore del problema.
La riduzione all’essenziale intesa come attitudine, pratica e posizione, non è il risultato di una ripresa del linguaggio minimal, si tratta piuttosto di una modalità che l’artista mette in atto sia quando sceglie di impiegare tecniche elaborate, sia quando sceglie di utilizzare materiali esistenti o oggetti d’uso comune, di disegnare…
In principio tutto è a disposizione, tutto potenzialmente può essere incluso in un lavoro, ma una volta che la scelta è compiuta, cambiano le regole: è il corpo dell’opera che deve crescere ed è esso stesso che detta le “sue” regole, regole che Liliana Moro ascolta, esplorandone le potenzialità, considerandone i limiti, a volte forzandoli, altre rispettandoli.
La libertà di azione è un aspetto importante del lavoro, ma lo definisce solo in parte: ciò che produce lo scarto interessante è la relazione tra l’universo delle possibilità e la tensione a più livelli — fisica e poetica — generata da questa relazione.
Tali aspetti vanno considerati come punto di partenza e non di arrivo. Essi definiscono una sorta di pre-condizione valida per tutto il suo lavoro. Considerarli tali, e dunque tenerne sempre conto, schiude la possibilità di andare a esplorare ulteriori livelli di significato. Per esempio, uno degli elementi che ha un posto di rilievo nella ricerca di Liliana Moro è la dimensione politica, che, come vedremo in seguito, si articola in modi diversi, ma che in linea con la processualità incorporata descritta poco sopra non si traduce in illustrazione di contenuti, ma riguarda le modalità di relazione con i destinatari, per esempio con il disporre a terra il proprio lavoro chiedendo implicitamente a chi guarda di abbassarsi per vedere.
Prima di arrivare al punto è però indispensabile riprendere le fila di un discorso più ampio, poichè Liliana Moro ha condiviso con altri artisti, affacciatisi come lei sulla scena nazionale e internazionale negli stessi anni, non solo pratiche, sensibilità e questioni ma anche la partecipazione a mostre che hanno lasciato un segno: documenta IX nel 1992 e “Aperto” a Venezia nel 1993 sono le due più note. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, molti artisti hanno espresso un rinnovato interesse per la prossimità, lavorando tra le pieghe di aspetti del quotidiano, sottolineandone le criticità, dando un ampio spazio alla soggettività, la propria e quella dei destinatari. Ma la storia dell’arte di tutto il XX secolo è segnata da numerosi viaggi di avvicinamento e allontanamento del reale dagli artisti e viceversa. Ed ogni volta è necessario considerare che cosa si intenda per “reale”. Nel periodo in questione, un aspetto destinato a lasciare un segno è la presa di coscienza che il rapporto con il “reale” in corso non poteva che essere filtrato dalla presenza dei media: la percezione del mondo e i possibili racconti su di esso erano cambiati in modo irreversibile. Debord aveva scritto tempo prima sulla società dello spettacolo ma, a confronto, ciò che lui osservava era un’anticipazione non ancora allo stato solido. A un certo punto inizia a essere chiaro che il costo di questo passaggio è una mutazione radicale del modo di esperire la realtà, vicina o lontana non importa. Non la si può considerare una risposta diretta, ma neanche solo una casualità che numerosi artisti abbiano allora dato voce alla fragilità, al senso di impotenza e di inadeguatezza, prendendo le distanze dalla grandiosità dello spettacolo dispiegato dagli apparati di comunicazione (Foster, 1996 e 2003; Groys, 2008) ma senza dichiarare apertamente alcuna guerra. La frammentarietà, le narrazioni discontinue di sé e del mondo, il procedere per indizi, testimoniano la necessità di produrre un segno diverso dall’eterno presente raccontato dai media. Restringendo il discorso allo spazio politico prodotto dall’arte contemporanea a partire dal passaggio tracciato poco sopra, si possono considerare a grandi linee due poli che costituiscono gli estremi (in termini di strategie di comunicazione, non di contenuti) e alcune varianti dove questi due poli sono ri-articolati in modo singolare, come è il caso di Liliana Moro.
Si pensi da una parte ai lavori condensati in un’unica immagine dove aspetti traumatici della contemporaneità sono tematizzati in modo molto esplicito (Damien Hirst, Maurizio Cattelan), e dall’altra ai lavori sviluppati secondo una strategia opposta dove la “con-fusione” tra il lavoro e tutto il resto si arresta solo quando l’opera è esposta in uno spazio dedicato all’arte (le fotografie di Gabriel Orozco, le passeggiate urbane di Francis Alÿs). In sintesi, nel primo caso attraverso la scelta di una singola immagine ad effetto — il teschio di Hirst (For the love of God, 2007), i corpi coperti da lenzuola in marmo di Cattelan (All, 2008) —, l’attenzione concentrata su un unico elemento è anche un modo attraverso il quale l’identità del gesto artistico, e quindi il rapporto con la storia dell’arte, ne esce rafforzato; nel secondo caso, dove il grado di “artisticità” è ridotto al minimo, i lavori, apparentemente fragili, di fatto ribaltano il rapporto tra figura e sfondo, acquistando consistenza nell’accordare più spazio allo spettatore e lasciando entrare più mondo al loro interno.
Come accennato poco sopra, Liliana Moro si sottrae dal dover scegliere a priori l’una o l’altra via ma, in continuità con quanto detto a proposito della corporeità, il principio che la guida è interno alle esigenze dettate dal singolo lavoro.
L’opera più vicina al primo dei due poli è il gruppo scultoreo in bronzo costituito da cinque cani in lotta tra di loro (Underdog, 2005). Gli animali si azzannano e si guardano ma, le favole insegnano, il rimando al conflitto tra umani è inevitabile. Il materiale freddo, carico di storia, immobilizza i gesti aumentandone la brutalità, ma soprattutto introduce una relazione altra con il tempo, in quanto esso è l’elemento attraverso il quale l’artista prende le distanze dalla cronaca, svincola quest’opera dall’essere illustrazione (come tante che scorrono incessantemente) di un singolo conflitto e la rende immagine persistente di una condizione che persiste.
A proposito del secondo polo, indicazioni assai precise arrivano da due recenti personali di Liliana Moro. Lo scarto prodotto dall’artista negli spazi del DOCVA di Milano (“This is the End”, 2008), con un intervento che altera i connotati dello spazio espositivo definendone i percorsi, condiziona la percezione della mostra fisicamente e non solo. Attraverso l’inserimento di muri separatori in calcestruzzo l’artista inverte il rapporto tra contenitore e contenuto, dove lo sfondo (il contenitore) è in primo piano e la figura sullo sfondo. Al primo passaggio prevale la percezione dell’opera-contenitore rispetto a quella dei lavori esposti. Grazie a questo ribaltamento Liliana Moro costruisce le condizioni per un’esperienza concreta, circoscritta allo spazio espositivo e del tutto reale allo stesso tempo. In “Endgame” (Galleria Emi Fontana, 2009), un analogo ribaltamento di piani è articolato su più fronti. C’è un lavoro audio, un registratore a muro che trasmette suoni sporchi, a proposito dei quali non abbiamo particolari indicazioni, si distinguono rumori della strada, ogni tanto qualche parola detta da una voce femminile. C’è continuità con una delle prime inversioni tra primo piano e sfondo messa in atto dall’artista (Nessuno, 1993), dove ascoltiamo la sua voce registrata che legge le note di regia di Giorni Felici di Beckett. In questo nuovo lavoro l’inversione tra ciò che ci aspetteremmo in primo piano e ciò che ci aspetteremmo sullo sfondo porta l’attenzione al fuori. Rende protagonista un contesto ordinario, senza effetti speciali, qualcosa che è importante perché esiste. Così sfumano i confini tra il dentro e il fuori, ascoltiamo ciò che spesso ignoriamo, consideriamo marginale, eppure la strada, la città costituiscono il tessuto connettivo delle nostre vite, sono gli spazi dove i rituali sociali vanno in scena, accadono. Accanto, a terra, una raccolta di bicchieri ordinari e calici eleganti, bicchierini da liquore, vasi e vasetti vari, portacenere, portacandele. Sono uno diverso dall’altro ma tutti in vetro trasparente, vuoti. Contenitori singolari disposti all’accoglienza, protagonisti di un mondo dove — senza alcuna retorica — le differenze sono semplicemente una risorsa.