Nel 1990 Flash Art pubblica un’esplorazione dalla giovane arte italiana. Ma già in questo contesto emerge una difficoltà della critica a inquadrare degli artisti che tentano piuttosto di “darsi in assenza”. Tra i protagonisti di quegli anni, Amedeo Martegani commenta un’ipotetica bibliografia di questo progetto all’insegna della “sparizione”.
I testi che seguono sono tratti da recensioni apparse su Flash Art e da piccoli cataloghi che hanno accompagnato le mie mostre personali o condivise con artisti conniventi. Quello che li accomuna è una costante necessità di affiancare le opere in mostra per indicare un’inclinazione, piuttosto che per giustificarne la presenza. Gli estratti sono a cura della redazione di Flash Art, così come l’alternanza di brani scelti dalla critica corrente.
Non credo sia il momento più adatto per fare domande, né per dimostrare la consueta femminile debolezza per non correre alcun rischio. È necessario, invece, porre un problema anche se per nulla reale o rilevante: è possibile organizzare, indicare, interpretare, chiarire, insomma scegliere tra il produrre un senso e semplicemente vivere? Forse questa domanda è sintomo di una situazione preoccupante, di una dissociazione più che sospetta e in qualche modo teatralmente apocalittica, perché è evidente a tutti che a ogni domanda si risponde con buon senso e con un po’ di moderazione: lasciarsi vivere e seguire un senso, tutto qui. Purtroppo non è vero. Se all’Arte – e con questo dico l’intero pachiderma della Storia – non si può imputare un difetto, questo è d’essere sbrigativa o di non avere a cuore la vita: solo per questa sua deformazione il problema resta vero, cioè interamente percorribile da qualunque artista ne voglia fare la sua targa.
[Amedeo Martegani, testo pubblicato in occasione della mostra di Amedeo Martegani, “Labilità necessaria”, Galleria Massimo Minini, Brescia, 1990]
Il mito dell’artista diventa l’artista mitizzato, ironicamente celebrato da autoritratti paradossali dove comunque il soggetto si dà in assenza, e l’operatività esplicita si fa la più elementare possibile.
[Giorgio Verzotti, “Ironica Lombardia. Un confronto senza assiomi”, in Flash Art, no. 158, ottobre – novembre 1990, p. 96]
Aver cura della vita dell’artista non è cosa da poco: di ogni particolare è necessario comprendere il precario equilibrio che lo conserva e che lo lascia intendere. […] L’artista è un personaggio subdolo, se mi è consentito, multiforme cioè capace di investire della sua enorme personalità l’arredo più meschino, l’oggetto più consumato, il vestito più modesto; averne cura non è semplice né è affare da poco seguirlo nei suoi spostamenti; nessuna emozione lo tradisce, nessun inganno lo lusinga: è quello che ha deciso di essere. […] La sua straordinarietà ha però qualche punto debole […] Del misero burocrate non avrà lo sguardo grigio, dell’intraprendente professionista la grinta d’ufficio, del portaborse il rancore, del pilota l’aggressività, dell’atleta la rassegnazione… Di ogni uomo che avrà deciso di essere non riuscirà a compiere la parabola in modo perfetto. Qual è la cura, l’attenzione che si merita tanto sforzo nel rendersi invisibili?
[Amedeo Martegani, “Aver cura della vita dell’artista”, pubblicato in occasione della mostra di Mario Dellavedova e Amedeo Martegani, “La casetta del collezionista”, Galleria In Arco, Torino, 1991]
Ribadisce insistentemente Amedeo Martegani: “l’ipocrisia del progettare ha gli stessi inconvenienti del dipingere o del disegnare e presuppone un pubblico sedotto”. Ma l’ipocrisia della menzogna presuppone una tensione alla verità, una verità che l’arte non può vedere realizzata come non può vedere realizzato l’insistente gioco dell’artista al semplice corollario dello “spiazzamento”.
[Gabrielle Perretta, “Amedeo Martegani e Mario Airò. Galleria Raucci/Santamaria, Napoli”, recensione della mostra, in Flash Art, no. 171, dicembre 1992 – gennaio 1993, p. 108]
Si trattava di delineare, così come si dispiegava la Cultura, una propria posizione. Si ponevano molti altri ordini di problemi: questa posizione doveva dimostrarsi autonoma ed inaccessibile per sembrare o essere effettivamente solida e affascinante, oppure era il caso di costruire una sorta di corporazione o di legame semi familiare tra sé e gli altri compagni di fuga, per dimostrare in questo caso una forza inafferrabile? Da questo momento, da quando si rese necessaria questa scelta, le cose non poterono più conciliarsi, anche se ovviamente nulla era chiaro e definito come si sarebbe voluto.
[Amedeo Martegani, “Dell’alibi”, in Toujours mensonges / Bugie tutti i giorni, catalogo della mostra di Stefano Arienti e Amedeo Martegani, Galerie Analix, Ginevra, 1993]
Quello di Martegani mi è sembrato un esercizio sul vuoto e sulla negazione: vuoto come la giornata vuota di un artista troppo esteta e intelligente per interrogare il senso del mondo, o per essere coinvolto dalla grave realtà del quotidiano. Infatti quest’installazione, a differenza di altre, è il piacere di se stessa; l’ironia, con la quale Martegani mette insieme i pezzi e le regole di questo esercizio, allontana il rappresentato e nega l’artefice allo sguardo indiscreto dei più. È la rappresentazione dell’ozio intellettuale come immagine morale moderna e dell’insensatezza come forma dell’estetismo moderno. Perché allora ripetere con lo spostamento di contesto dell’oggetto l’espressione di un’attitudine concettuale attraverso un’ideologia formale? Perché insomma quel flipper, usato solo per autoreferenza a un sistema diffuso di segni e di regole e non a qualità godute, e che sembra limitare la libertà del gusto alla pratica di linguaggio?
[Sergio Risaliti, “Amedeo Martegani. Galleria Massimo De Carlo, Milano”, recensione della mostra, in Flash Art, no. 178, ottobre 1993, p. 110]
La critica, aldilà dei singoli autopromozionali benefici, dovrebbe chiedere che si possa giustificare un’apparenza, comprendendo e anzi incoraggiando la gratuità di ogni esperienza che sia fondatamente libertaria e non compromessa.
[Amedeo Martegani, “Della predisposizione”, in Toujours mensonges / Bugie tutti i giorni, catalogo della mostra di Stefano Arienti e Amedeo Martegani, Galerie Analix, Ginevra, 1993]
Mi chiedo se la ricerca di un senso complessivo di questo lavoro lo si possa ritrovare più nelle condizioni di partenza che nei risultati […] e penso anche che il rischio di questo genere di libertà possa essere quello di fermarsi alla definizione della propria posizione, apprezzabile in tutta la sua complessità, ma restia a un confronto con il mondo e perciò pericolosamente esposta a morire per soffocamento. […] Credo che oggi più che mai compito dell’artista sia quello di vivere nel dubbio ma sfuggire all’ambiguità, comunicare un senso, urlarlo se necessario.
[Emanuela De Cecco, “Amedeo Martegani e Stefano Arienti. Analix, Ginevra/Spazio Itaca, Milano”, recensione della mostra, in Flash Art, no. 181, febbraio 1994, p. 95]
Il progetto era molto ambizioso: rintracciare le radici dell’azione nella sparizione del soggetto. Si trattava d’investigare la possibilità (teorica e desiderabile) di un’azione radicalmente svincolata da un soggetto agente responsabile e referente dell’azione stessa; la ricerca avrebbe dimostrato quanto la “sparizione” del soggetto purificasse i contenuti dell’azione, liberandola da ogni parentela e ogni vincolo biografico. L’evidenza dell’azione orfana di ogni artefice nell’improvviso realizzarsi di un impulso: una sorta di storiografia del miracolo.
[Amedeo Martegani, “Sparizione”, in Riga no. 17 (“Italia #2”), Marcos y Marcos, Milano, 2000]
Ecco, tornando a oggi, e in particolare al “rischio di questo genere di libertà” a cui accennava lucidamente Emanuela De Cecco, posso dire di avere conquistato la più serafica indifferenza verso ogni polemica riguardante ruoli, competenze e opere. In questi ultimi trent’anni ho cercato di costruire quello che non trovavo e che continuo a considerare capace di sviluppare ossigeno nel sangue. La tassonomia critica nel frattempo ha continuato a svolgere le sue trame ordinanti, ma con miglior fortuna delle singolarità artistiche. Ha gestito meglio l’informazione, organizzato gli spazi e confezionato il senso con più oculatezza. Le vittorie del pensiero semplificatore hanno coinciso probabilmente con una certa odierna rassegnazione da parte degli artisti a essere fornitori di servizi o rappresentanti formali di azioni richieste. È una dicotomia che lascia l’azzardo, il rischio, la meraviglia alla manualistica scolastica sul primo Novecento e compatta la visione di musei, gallerie, fiere e grandi mostre verso la pura ricerca di consenso. Niente di nuovo, anche se la rinascita qualitativa dell’editoria indipendente mi sembra che ora occupi felicemente quello spazio di pensiero e di forma inaspettata che agli artisti è un po’ caduto di mano. Credo che oggi sia proprio l’editoria ad assumersi il “rischio di questo genere di libertà”, senza calcoli, spazi espositivi, aiuti statali, senza nemmeno un pubblico – proprio come quando s’inizia un lavoro, un’opera che non si sa come andrà a finire.