Il cinema d’artista italiano ha superato il secolo di vita 1, se pensiamo che i primi esperimenti astratti dei fratelli futuristi Corradini-Ginanni (Ginna e Corra), dipinti a mano su pellicola e purtroppo perduti, risalgono al 1910-11. Ma è il 1916 l’anno-chiave in cui ci si rende conto che il cinema è un’arte troppo importante e innovativa per lasciarla ai cineasti: con il Manifesto della cinematografia — firmato da Marinetti, Balla, Chiti, Settimelli e naturalmente Ginna e Corra — si auspica che questa giovane forma espressiva, antipassatista per eccellenza, si possa affrancare dal teatro e dalla letteratura avvicinandosi piuttosto alla pittura e alla musica. In questo campo i futuristi hanno teorizzato molto più di quanto abbiano realizzato, ma le loro idee sono alla base di molti film dell’avanguardia storica europea e non solo.
A parte figure isolate come Luigi Veronesi o i fratelli Silvio e Victor Loffredo — che realizzano i loro court bouillon tra Parigi e Firenze dagli anni Cinquanta ai Sessanta — parlare del cinema sperimentale e d’artista nostrano vuol dire ricostruire soprattutto le avventure di un decennio, compreso tra il 1965 e il 1975 e ha come centro propulsivo Roma, che attraversa un periodo di autentico splendore per quel che riguarda le arti visive, grazie tra l’altro all’attività di due gallerie come L’Attico e La Tartaruga, all’exploit della cosiddetta scuola di Piazza del Popolo e alla presenza di una fitta serie di artisti e iniziative. Difficile sintetizzare tutti gli intrecci che si stabiliscono in questi anni tra il cinema sperimentale e gli altri ambiti artistici, dall’avanguardia musicale — Sylvano Bussotti che realizza Rara Film tra il 1967 e il 1969 — a quella teatrale: Carmelo Bene dirige cinque lungometraggi, tra cui il capolavoro Nostra signora dei turchi (1968) e il saggio di pittura cinetica Salomè (1972) — molto amato da de Chirico — basato su costumi e scenografie ricoperte di materiale rifrangente 3M: entrambi costruiti visivamente con l’apporto dell’operatore Mario Masini, anch’esso autore di film sperimentali.
Il New American Cinema di Jonas Mekas e compagni è un modello imprescindibile per questo cinema di ricerca; molti autori italiani hanno modo di vedere i film di Warhol, Anger, Markopoulos, Brakhage e Mekas, grazie a retrospettive come Porretta Terme (1964) e Pesaro (1967). In questo stesso anno il Filmstudio di Roma diventa il cineclub dove programmare l’underground italiano e internazionale. Ma il 1967 è anche l’anno in cui nasce — ispirandosi sempre alla Filmmaker’s Coop di Mekas — la Cooperativa del Cinema Indipendente, che avrà sede a Roma, anche se il nucleo originario è napoletano (i fratelli Vergine). La CCI si pone l’obiettivo di distribuire i film in modo capillare e funzionare come polo di aggregazione per gli autori. “I canali distributivi sono enormi” — osserva Alfredo Leonardi, uno dei membri più attivi —, “in Italia esistono decine di migliaia di circoli del cinema, circoli culturali, associazioni di ogni genere che hanno un proiettore a 16mm, oppure che hanno una stanza, perché il proiettore possiamo portarlo anche noi, oppure che hanno un proiettore a 8mm, perché almeno la metà dei film che abbiamo in catalogo sono a 8mm. Ognuno ha i suoi contatti, crea un interesse, si crea un’abitudine a pensare che esistono questi film, i film si danno, se ne parla 2”.
Della CCI, che chiuderà i battenti già nel 1970, fanno parte cineasti come Massimo Bacigalupo e Giorgio Turi, oppure come Guido Lombardi e Anna Lajolo, che nei primi anni Settanta fondano insieme a Leonardi il gruppo Videobase, realizzando con il videotape reportage a sfondo politico-sociale. E poi, naturalmente, ci sono artisti come Luca Maria Patella e Gianfranco Baruchello; quest’ultimo — coadiuvato da Alberto Grifi, altra rilevante figura di filmmaker prima e videomaker poi — è l’autore di Verifica incerta (1964-65), uno dei film più celebrati dell’underground, massimo esempio di found-footage o, meglio, di film-trouvé dadaista “sponsorizzato” da Duchamp. Pochi sanno tuttavia, che quasi contemporaneamente all’assemblaggio di spezzoni di pellicole destinate al macero che Baruchello e Grifi effettuavano in moviola, un collettivo di artisti toscani composto da Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Lucia Marcucci e Antonio Bueno (Gruppo 70), realizzava qualcosa di molto affine: Volerà nel 70 (1965) è infatti un montaggio di trailer, ma anche di cinegiornali, documentari e provini, molto affine alla poesia visiva. Marcucci e Miccini qualche anno dopo confezioneranno Pugni, pistole e baci (1967) basato stavolta unicamente su film western.
Se Patella con Terra animata (1967) o Vedo, vado! (1969) crea brevi saggi di Land Art ante litteram o narrazioni comportamentali, Nato Frascà — già componente di Gruppo Uno — con Kappa (1965) compie un vertiginoso viaggio intrauterino nell’inconscio individuale e collettivo, creando un’opera autoanalitica sul proprio essere (uomo, artista) ed essere stato (bambino). Anche Franco Angeli, interprete del suggestivo cortometraggio Inquietudine (1960) di Mario Carbone e protagonista del lungometraggio on the road Morire gratis (1968) di Sandro Franchina, passa dietro la macchina da presa per girare Schermi (1968) e New York (1969), due film riportati alla luce di recente dopo oltre 40 anni di oblio basati su visioni psichedeliche frutto di esposizioni multiple (sovrapposizioni create in macchina). Ma il cinema assume anche forme installative, come nel caso di Motion Vision (1967) di Umberto Bignardi, concepito per essere proiettato, insieme a slide, sul Rotor, schermo cilindrico motorizzato costituito da superfici bianche e specchianti che rifrangono le immagini nello spazio circostante. È un esempio di expanded cinema proposto per la prima volta nella mostra collettiva “Fuoco, Immagine, Acqua, Terra 3”.
Rivedere molti dei film underground di area romana vuol dire inoltre attingere allo stesso tempo alla documentazione di un’epoca irripetibile. Quasi tutte le opere sono pregne di citazioni e riferimenti, oltre a essere gallerie di personaggi di ogni tipo: soprattutto i film di Leonardi e Schifano, dove compaiono da Pino Pascali a Franco Angeli, da Pierre Clementi a Carlo Cecchi, da Gerard Malanga a Carmelo Bene, da Tano Festa a Felice Gimondi, da Nanni Balestrini a Sandro Penna, da Alberto Moravia ai Rolling Stones, da Jean-Luc Godard a Marco Ferreri. C’è poi SKMP2 (1968) di Patella che riunisce insieme in 4 episodi distinti gli artisti de L’Attico (Mattiacci, Kounellis, Pascali e Patella medesimo), i quali improvvisano performance con (o a partire da) le loro opere.
Spesso è labile il confine tra film d’artista e home movie, per l’approccio non professionale di questo cinema, quasi sempre fatto da una sola persona (secondo la dichiarazione teorico-poetica di Brakhage), a parte eccezioni quali la trilogia di Mario Schifano, che ambisce invece, sulla scorta di Warhol, a essere cinema per il grande pubblico, rifiutando lo sperimentalismo “di nicchia”, tanto è vero che il pittore romano — così come il suo amico cineasta Franco Brocani — non aderì mai alla CCI. I lungometraggi Satellite, Umano non umano e Trapianto consunzione e morte di Franco Brocani, tutti girati da Schifano tra il 1968 e il 1970, rappresentano un’articolata e acuta riflessione sull’arte, la politica e l’esistenza, attraverso l’intreccio di azioni e visioni, monologhi e dialoghi in campo e fuori campo.
Le tecniche di animazione sono ampiamente usate nei film d’artista, soprattutto quelli prodotti dalla Corona Cinematografica, società di produzione romana dei fratelli Gagliardo, per la quale all’epoca lavoravano Claudio Cintoli, Rosa Foschi (moglie di Luca Patella con cui spesso collabora) e Magdalo Mussio (tra l’altro art director della rivista “Marcatrè”). I primi due marchigiani, il terzo di Cortona ma legato comunque alle Marche (a lungo docente all’Accademia di Macerata). Sono film questi realizzati in breve tempo, della durata media di 10 minuti per accedere ai cosiddetti “premi qualità” indetti dal Ministero dello Spettacolo. Questi artisti hanno creato, spesso su esili pretesti narrativi, un immaginario assemblato, mescolando la fotografia al collage, le riprese dal vero al découpage, l’animazione di oggetti al disegno animato: Mezzo sogno e mezzo (1965) e Primavera nascosta (1969) di Cintoli risentono moltissimo dell’iconografia dei fumetti e del prelievo pop-artistico e sono accostabili ai suoi coevi acrilici e olii su tela dell’artista. Un altro artista-animatore che si dedica a lavori su committenza (pubblicità e sigle televisive) riuscendo a creare un ponte tra la produzione commerciale e quella artistica, è Pino Pascali. Nei suoi lavori — rimasti a lungo “anonimi”, anche perché prodotti sotto l’egida dello studio di Sandro Lodolo — ritroviamo il Pascali più ludico e ancestrale.
Lontano da Roma girano film molti altri artisti, a cominciare dal torinese Ugo Nespolo, fiancheggiatore dei suoi amici dell’Arte Povera, ma autore dal 1967 fino a oggi di oltre 50 film. Nespolo animato da un esprit dada che si fonde con uno stile pop prosegue per tutti gli anni Settanta, girando film come Con-certo rituale (1973) o Un Supermaschio (1976). Altre figure di rilievo del cinema d’artista sono il modenese Franco Vaccari, il fiorentino Andrea Granchi e il rodigino Paolo Gioli: quest’ultimo — che lavora come i due precedenti sia con film che con la fotografia, trasferendo procedimenti e stilemi da un medium all’altro (dal fotofinish al foro stenopeico alle immagini realizzate con otturatori manuali) — è forse l’unico artista che continua a produrre film in 16mm ancora oggi, con una media di due film all’anno. Di area milanese sono invece Gianikian e Ricci Lucchi, creatori nei primi anni Settanta dei famosi “film profumati”, dove la visione diventava esperienza percettiva diffusa, l’architetto Ugo La Pietra, l’artista-musicista Davide Mosconi. A Sud c’è da segnalare il nome di Giuseppe Desiato, artista performativo che resta più isolato, ma i cui poco conosciuti Super8 — a volte dai risvolti decisamente pornografici — sono in netto anticipo sui tempi.
Dopo il 1970, con la diffusione anche in Italia dei primi portapack (videocamera e registratore portatili), il medium elettronico si affianca o sostituisce quello filmico nella pratica di molti artisti. Un’epoca sta probabilmente tramontando e il versante più poetico e inconscio del cinema (Se l’inconscio si ribella è il titolo di uno dei cortometraggi di Leonardi) lascia il posto alla documentazione performativo-politica. La poesia visionaria slitta nel concettuale e spesso nella noia, anche se ci sono artisti come il padovano Michele Sambin — autore di alcuni film nei primi anni Settanta — che sfruttano in modo intelligente le specificità del nuovo dispositivo, pensiamo a Il tempo consuma (1978).
È ormai iniziata un’altra fase del rapporto tra arti visive e immagini in movimento.