Pubblicato originariamente in Flash Art no. 331, Febbraio – Marzo 2017.
Perché l’approccio al suono di Lorenzo Senni (Cesena, 1983) può essere definito concettuale? E che cosa lo ha portato da batterista underground e rave voyeur della riviera romagnola a lanciare l’etichetta Presto!? Records (fra gli artisti ricordiamo Florian Hecker, Carsten Höller, DJ Stingray, Carl Michael Von Hausswolff, Evol, Gatekeeper, Mattin, Palmistry e John Wiese), a corroborare scene, apparire in festival internazionali di musica elettronica, nonché gallerie, fondazioni e musei, performare con due progetti paralleli (One Circle e STARGATE) e infine pubblicare per l’etichetta inglese Warp? Analista puntiglioso del linguaggio del clubbing e del suo apparato di intrattenimento, Senni nei suoi live allestisce un dialogo sofisticato e quasi perverso con il corpo individuale e collettivo. L’esperienza è scintillante, frustrante, euforica, immersiva, ma soprattutto straniante. E anche se regala inaspettati piaceri, è inevitabilmente politica.
Andrea Lissoni: Fra gli anni Novanta e i Duemila suonavi punk-hardcore e frequentavi i club da spettatore non attivo, o almeno non psicoattivo, della scena gabber e hardcore. Che cosa ha motivato il passaggio al comporre?
Lorenzo Senni: I miei migliori amici hanno sempre frequentato le discoteche della riviera spingendosi a volte oltre i propri “confini”. Io, entusiasta, li ho seguiti nelle loro avventure. Ma non ho mai fatto uso di alcool e droghe quindi, oltre a guidare ogni weekend, vivevo queste esperienze in una dimensione tutta mia, arrivando a definirmi un “rave voyeur”. A dire il vero mi divertivo molto, ma ero consapevole di essere in una condizione differente da quella dei miei compagni di serata. Detto questo, è altrettanto vero che il resto della settimana lo condividevo quasi esclusivamente con le band in cui suonavo. Stare a contatto con la musica era la mia passione. Quando ho incominciato a frequentare il DAMS a Bologna ho incontrato prospettive musicali differenti. Ho studiato i pionieri della musica elettronica, saccheggiato la ricchissima biblioteca e incominciato a interessarmi di sintesi del suono e di software. Da qui i miei primi esperimenti sonori.
AL: Dall’ascolto, alla selezione, al campionamento, alla decomposizione, alla ricomposizione: puoi provare a raccontare l’approccio analitico alla base del tuo suono?
LS: Negli ultimi anni ho esplorato questioni legate alla musica trance e il contesto del club, con i dischi Quantum Jelly (Editions Mego, 2012), Superimpositions (Boomkat Editions, 2014) e l’ultimo Persona (Warp Records, 2016). Uno dei veri primi passi in questa direzione è stato quello di recuperare un numero infinito di musica che apparteneva a quel genere, senza andare a pescare i dischi migliori o quelli più importanti. Volevo capire che cosa potesse caratterizzare questo genere musicale. La mia intenzione era impararne il linguaggio, le strutture e le dinamiche, per poi essere in grado di isolare in maniera più sicura e agile le parti che ritenevo interessanti, così da raccogliere solo il materiale utile a ciò che avevo in mente. Oltre alle sonorità, ero molto interessato a una specifica parte presente in ogni pezzo trance, il cosiddetto build-up. È un passaggio specifico, che si manifesta a circa un minuto dall’inizio del pezzo e in cui il brano si interrompe per lasciare spazio a un break in cui il beat svanisce e lascia il produttore “libero” di creare una transizione prima di riemergere. In questo passaggio il produttore può esprimersi in maniera molto personale a livello contrappuntistico e musicale, sempre rimanendo fedele alla funzione di caricare le aspettative dell’ascoltatore e alimentare la tensione del pezzo. Una volta individuati gli elementi chiave, ho voluto comporre una musica mia e cercare di portare questi meccanismi e sonorità nella computer music, un territorio a me più congeniale. Quindi ho cercato di lavorare a versioni più asciutte, eliminando ciò che trovavo superfluo. Così sono nati i primi live con il sintetizzatore trance per eccellenza, il Roland JP-8000 (del quale sono genuinamente ossessionato).
AL: Ripercorro i riferimenti che hai citato in passato: Mogwai, Black Dice, Aphex Twin e il suono della Rephlex Records, Carsten Nicolai e quello della Raster Noton, Pita e quello della Mego, Christian Fennesz, Florian Hecker e così via. Nicolai a parte, nessuna di queste figure è un artista visivo, ma tutte orbitano nel campo dell’arte, o si muovono ai suoi bordi. In che modo hanno influito nella postura non ovvia fra musica dance e arte che hai adottato?
LS: Le ho sempre viste collaborare con artisti visivi, o prendere parte a mostre, o sviluppare un’estetica molto personale. In ambito prettamente musicale quest’attitudine non è cosi comune e lo è ancora meno quando la musica elettronica entra in contatto con il dancefloor. Durante l’università sono cresciuto con determinati ascolti che mi hanno condizionato molto, come David Tudor, Iannis Xenakis, Curtis Roads ecc. e penso di aver imparato a cercare di ragionare su quello che sto facendo e non solo a farlo per il gusto di sentire un suono uscire dagli speaker. Ci sono dei magnifici esempi come Plastikman che è riuscito a sviluppare un lavoro musicale molto coerente nel corso degli anni, parallelamente a un immaginario incredibile. Il suo box “Arkives 1993-2010” è un documento eccezionale per capire quanto stratificato possa essere un rappresentate della techno.
AL: Che cos’è Advanced Abstract Trance (2014 – in corso) e come funziona?
LS: Chiamerei AAT una live diffusion: è una composizione, o meglio un “display”, che ha le pretese di essere una composizione che viene diffusa e monitorata da me live. Non esiste altro modo per poterla ascoltare. Inizialmente l’avevo concepita per una quadrifonia ma poi mi è stato chiesto di presentarla in contesti nei quali sarei stato felice di poterla “testare”, ma che avevano delle caratteristiche tecniche che non permettevano di realizzare esattamente quello che chiedevo. Mi sono felicemente adattato ma ora, per quanto riguarda numero e posizionamento degli speaker nello spazio, mi preoccupo di esserne soddisfatto al 100%.
AL: Che cosa intendi esattamente con “abstract”?
LS: È necessario premettere che AAT è composta unicamente da sezioni e campioni di pezzi trance, hardstyle, hard trance e hardcore di altri artisti, e ne sono stati contati più di cinquecento. In AAT – la cui principale ispirazione è Images of the Dream and Death (Phono Suecia, 1991) di Ákos Rózmann – avviene una sorta di deformazione delle dinamiche degli oggetti sonori, della loro struttura e sicuramente anche della loro funzione, quindi mi sembrava che il termine “abstract” potesse aiutare a leggere velocemente cosa si andava ad ascoltare.
AL: Questo farebbe pensare che le tue composizioni siano statiche, nel senso che non stimolerebbero nessun “viaggio” nel tempo, né generino associazioni a luoghi o momenti situabili altrove. Che cosa cerchi nel costruire una sequenza di attacchi e di build-up che suggeriscono una “partenza” pur sapendo che non accadrà mai?
LS: Il percorso che mi ha portato a dar vita alle mie prime tracce come, ad esempio, “XMonsterX”, inclusa in Quantum Jelly, è stato graduale ed è nato di conseguenza ai mix e composizioni molto simili a lavori come AAT ed Echoes (2012). Quello che ho fatto per diverso tempo è stato ritagliare ed archiviare build-up da trance e ri-comporli e ripeterli in maniera ossessiva per vedere che sembianze potevano prendere se decontestualizzati e spinti all’estremo della loro propria funzione. Una volta che ho preso coscienza di certi meccanismi ho cercato di creare una mia musica partendo da questo pensiero. Era essenziale creare una musica che non fosse un qualcosa di passaggio, ma che rispondesse agli stessi meccanismi di ciò stavo guardando e che quindi producesse una certa tensione. Il fatto che non ci sia una vera risoluzione porta lentamente a capire che quello di cui si deve godere sta già accadendo.
AL: Per continuare con i generi artistici, a cosa alludi quando invece parli di pointillisme?
LS: È una questione tecnica. Quando mi metto al lavoro su una traccia setto i parametri dei miei sintetizzatori in modo da iniziare creando un suono molto breve in durata in relazione alla nota che sta suonando e, cosa basilare, che mi soddisfi a pieno in termini di timbro, texture e percezione della nota. In questo modo, avendo un suono di brevissima durata come suono di partenza, ho più margine per “aprire” questo suono, creare un interessante nuovo build-up e avere uno degli aspetti compostivi che gioca a mio favore. Per questo una delle parole chiave che uso per descrivere la mia musica è Pointillistic trance.
AL: Proviamo a ordinare tutti gli elementi che disponi in un live o in un’installazione. Partendo da te: abbigliamento, posa, Red Bull, adesivi sul laptop e sui case. Nel suono: la sequenza break down/build up. Nello spazio: banner, americane, cannoni a CO2, nebbia artificiale, laser verdi. Uso “disponi” perché hai parlato di “display”, nonostante tu faccia riferimento a una traccia sonora. Mi racconti di questo dispiegamento di codici di immaginario e di come lo straniamento si combina con il live?
LS: È tutto legato alle aspettative disattese. Il materiale sonoro è estremo in sé, in quanto è chiaramente legato al contesto del clubbing e palesemente elemento attivatore di una reazione che tutti conosciamo e al quale sappiamo rispondere. Uso tutti questi elementi molto connotati per poi non far accadere nulla di quello che ci si aspetta. Eventualmente li utilizzo in maniera opposta a ciò a cui siamo abituati. In questo caso però viene coinvolto anche uno stato emotivo particolare, quindi la reazione può essere più intensa. Il build-up che cresce e non sfocia mai in un drop; il musicista che beve diverse lattine di Red Bull ma rimane immobile, seduto al suo computer; le luci statiche e i cannoni a C02 che nei festival di EDM e nelle feste di Ibiza sottolineano l’euforia generale, nel mio caso “suonano” pattern come un interludio alla composizione.
Rispetto alla parola “display”: la uso perché voglio che sia chiaro il processo mentale che c’è dietro, voglio isolare ogni elemento. Anche in AAT tutti i campioni musicali usati sono disposti uno di seguito all’altro, nessuno si sovrappone. Per quanto mi riguarda, dev’essere una distesa brutale e una chiara dichiarazione dei miei intenti. È interessante notare che anche quando è tutto cosi esposto alla luce del sole, la reazione nei confronti delle aspettative disilluse è comunque molto forte, forse perché per anni siamo abituati a rispondere a determinati stimoli in modo preciso: nel club, una volta che il build-up cresce, ci si prepara a saltare sul posto inondati dalla fresca brezza dei cannoni a CO2…
AL: Per quanto possano evocare, non è detto che gli elementi in display necessariamente raggiungano tutti. Poniamo di essere completamente avulsi da tutti i codici: cos’è per te la cosa più importante?
LS: Il suono.
AL: Come dicevi, nella tradizione trance il build-up è indubbiamente un momento molto personale dell’autore. Spesso, forse non a caso, l’intro è vocale. E spesso, la voce è femminile. Eppure nei tuoi pezzi la componente vocale manca, come mai?
LS: È un’osservazione interessante. Cerco sempre melodie particolari e impiego molto tempo a lavorare su quest’aspetto. È anche vero che seppure “cantabili” queste frasi melodiche non avranno mai le caratteristiche e la forza espressiva di una voce. Per ora non sono particolarmente interessato a impiegare la voce in quanto ci sono tanti aspetti da tenere in considerazione quando si aggiunge un elemento così importante. La voce molto spesso determina che ci sia un testo e così tante altre “problematiche” subentrano. Forse la spinta che potrebbe portarmi a lavorare con la voce sarebbe per assurdo un testo.
AL: Cosa ti ha spinto invece alla collaborazione con Ed Atkins per la copertina di Persona?
LS: L’idea dietro Persona è quello che definivo “rave voyeurism”, la condizione personale vissuta da teenager e che tutt’ora continua da sobrio spettatore in contesti di clubbing, rave e festival di musica elettronica. Da diversi anni seguo con attenzione il percorso di Atkins e, quando il concept del disco è stato chiaro, ho pensato subito a un momento di un suo video, Ribbons (2014), in cui il protagonista osserva una qualche scena da un buco, e osserva in maniera molto particolare, spingendo il naso contro la parete. Il fatto che il protagonista avesse sembianze umane, ma che potesse essere anche un robot, e che se fosse stato un umano potesse somigliare molto verosimilmente a un gabber, mi ha fatto pensare che sarebbe stato perfetto per aggiungere un ulteriore strato a quello che volevo suggerire con Persona. Ho contattato Ed che conosceva la mia musica e dal quel momento è stato molto facile per entrambi capire che l’immagine perfetta sarebbe stato proprio quello still di Ribbons.