Appena entro in casa di Luca Maria Patella sono assalita da un presentimento: tutti gli orologi sono sincronizzati su un fuso orario decisamente personale, tutto suo. Qui c’è il rischio di sprofondare in un’intervista infinita…
Patrizia Ferri: Cosa ti ha impedito di consegnarti totalmente alla scienza e cosa invece è stato determinante nel cedere alle seduzioni dell’arte?
Luca Maria Patella: La mia formazione è stata artistica fin da bambino, ovvero da quando illustravo i miei libri che dettavo alla zia Margaret Sinclair Pentland, figlia dell’ultimo viceré delle Indie.
Poi sono andato verso una formazione classica e in seguito verso la scienza, nello specifico chimica strutturale elettronica che ho studiato con molto interesse in Sudamerica, in contatto con l’allora futuro Premio Nobel Linus Carl Pauling. Contemporaneamente disegnavo dal vero nei parchi tropicali. Poi sono tornato da solo in Italia e ho dovuto lottare a lungo contro me stesso perché continuavo a sopravvalutare la scienza sull’arte, fino a quando ho capito che se avessi scelto la scienza non avrei potuto dedicarmi all’arte, mentre scegliendo l’arte avrei potuto dedicarmi anche alla scienza. Mi sono occupato molto anche di psicoanalisi da Ernst Bernhard a Mario Trevi.
PF: Come si è trasformata negli anni la finalità della tua ricerca e, se l’arte è una questione di originalità e di metodo, qual è il tuo?
LMP: A questo proposito cito Ovidio “postmoderno” con l’incipit delle Metamorfosi: “L’estro mi spinge a narrare di forme mutate, in corpi nuovi”. Detto questo vorrei chiarire che ciò che faccio non è contro qualcuno (non uso la cultura per rendermi irraggiungibile) ma per tutti. Stimo molto certi miei colleghi. Sono a favore quasi di tutti gli umani ma anche quasi… contro tutto perché sono polemico rispetto a un’arte intesa solo come piacere e bellezza, deve essere invece anche politica e complessa. E attenzione ti cito Eraclito che dice: “La sapienza è dire e fare cose vere”, ma anche Arthur Rimbaud, “Non mi sono mai annoiato tanto come in Africa!”. è uscito da poco un mio libretto dal titolo Paradismi (tra paradigmi e aforismi) — come sai il libro è un progetto su cui ho lavorato molto — e te ne leggo uno che dice: “Non voglio e non posso esser relegato nemmeno nello ‘specifico’ dell’arte”. La mia azione consiste nell’applicare un principio di relazione e trasformazione ovidiana tra i vari media. è stato detto che questo tipo di complessità ha previsto certi sviluppi della ricerca attuale, come anche ha preceduto alcuni aspetti della ricerca degli anni Sessanta e Settanta: non è che non “somiglio a nessuno” ma è stato scritto che (ops…) a volte sono arrivato prima!
PF: Hai attraversato i momenti più radicali della neoavanguardia: cosa ti ha portato a ricominciare a produrre opere, a riconciliarti con tecniche, forme, immagini concrete?
LMP: Il problema non è tanto quello del peso materiale, ma del peso “moralistico”. Già dagli anni Sessanta sono spesso passato dall’immagine alla scrittura: dal Senza Peso al Con il Peso della Storia (da cui i “Muri Parlanti” e gli “Alberi Parlanti” del 1970-71): ed ecco opere immateriali come un libro per esempio su Diderot proto-psicoanalista (1984) e opere da otto quintali e oltre come i Letti Paraduchampiani (1983-85) in ferro, o la Magrittefontaine fisiognomica (2002) di Bruxelles, mentre Le Maison du Plaisir Cosmique (1996-97) è una costruzione solo digitale.
PF: Adoperi un linguaggio decisamente complesso a fronte anche di un aspetto teorico, a sfondo scientifico e psicologico, dove l’opera è spesso la dimostrazione di un assunto di base, in alcuni casi piuttosto enigmatico, apparentemente un po’ cervellotico, un rompicapo perfino per gli addetti ai lavori. Credi possa arrivare a tutti o possa essere tacciato di intellettualismo a oltranza?
LMP: Una frase di Dalì dice “Mi comporto esattamente come un pazzo salvo che… non sono pazzo”. L’opera è un fatto est-etico. I miei oggetti, magari anche molto teorici, si danno prima nella loro valenza estetica perché chi vuole fermarsi a questa soglia possa farlo, ma qualcuno può entrarvi e magari sprofondare sempre di più. Sappiamo che la realtà è fortemente simbolica.
PF: Ti definiscono uno degli eredi diretti di Duchamp. Da perfezionista quale sei, che rapporto hai con il caso e l’imprevisto, e cosa intendi quando dici di essere un artista totale?
LMP: Tot-ale è volare tra le semiologie umane, troppo umane, solo umane: “Patella ressemble à Patella” (titolo anche dell’antologica a Castel Sant’Elmo a Napoli nel 2007 organizzata dalla Soprintendenza e dalla Fondazione Morra, a cura di Achille Bonito Oliva e Angela Tecce). Anche l’amico Marcel l’ho analizzato (e assai prima di lui il grande Diderot) come “auto-proiettivo”.
Quando si parla della totale libertà di scelta di Duchamp, forse si dimentica che, anche a chi fa un “test auto-proiettivo”, si dice: “Scegli in tutta libertà senza relazionarlo a niente”. Con questo non voglio ridurre affatto il fondamentale apporto del readymade… anzi! è uno dei pilastri da cui ci muoviamo insieme alla multidisciplinarità futurista e alla citazione di de Chirico e del Surrealismo. Che cose grandi e vive! Da perfezionista, come tu dici, spacco i capelli in quattro e in quarantaquattro, ma accanto all’analisi la presenza vitale dell’inconscio: l’essere aperti a tutto o quasi tutto. Credere forse all’incredibile? Af-fidarsi anche ad esso. Dice Dante, grandissimo poeta e teorico “I’ mi son un che quando Amor mi spira, noto, e quel ch’Ei ditta dentro i’vo significando”.
PF: Il tuo rapporto con il quotidiano, con il tempo che scorre e soprattutto con te stesso. Ogni tanto scendi con i piedi per terra?
LMP: Per me l’arte non è un mestiere, ma è un fare la vita, la conoscenza; è fare e subire me stesso. Lavoro notte e giorno e accanto al mio libro (…ops) volevo dire al mio letto ma va bene, è calzante questo lapsus, c’è una pila di libri alta così che a volte cade quando ci salta su uno dei miei gatti. Pragmaticamente ed esistenzialmente progetto e faccio opere, guardo e studio gli altri, scrivo, leggo, vedo film solo quintessenziali, sogno intensamente… E poi c’è lei, Rosa, Rosa Foschi artista e mia moglie, ma anche la mia parte inconscia, “l’altro” che abita in me come diceva Rimbaud.
Il tempo che passa invece non mi piace, come dice Eugenio Montale: nell’occhio scuro della rondine vedi che lei “[…] non vuole che la vita passi”. Sembra che io stia tra le nuvole, ma mi occupo proprio del quotidiano e del contingente perché al di fuori dell’umano non esiste nulla… O tutto? Ma sterminato e assolutamente inconcepibile. Mio padre Luigi (cosmologo umanista quasi artista) avrebbe condotto Patrizia, Rosa e me, sotto le volte stellate, nelle notti serene di “Madmountain” (1960-70), indicando con ampi gesti i “Miti scritti nella grande lavagna dei cieli”. Avrai visto all’“Auditorium” di Roma l’omaggio che rendo anche a lui nella mia vasta installazione Mysterium Coniunctionis (1973-84), che approda da molti musei internazionali anche in casa nostra.
PF: Luca, insomma vale la pena di giocarsi una vita dietro all’arte? Rispondimi magari con uno dei tuoi giochi di parole…
LMP: Si v-ale… ali che volano ovunque e ti ringraziano e salutano: vale! Anche ovale, che ha due fuochi appunto. Vale lavorare nell’arte perché l’arte è la globalità, totalità; non la globalizzazione, ma un concettualismo o un esistenzialismo totale. Certo qualcosa ho sacrificato, non ho figli non ho forti guadagni e mi accorgo con gli anni che passano che forse potevo essere più “furbo” e invece mi sono dato corpo e mente a questa arte che è tutto ed è niente… Ma cosa potevo fare? Non mi resta che vivere la mia sicurezza o fiducia che permette la trasformazione metamorfica e che è legata all’incertezza radicale come essenza della vita stessa…
Ma non hai altre domande da rivolgermi? Peccato pensavo proprio che questa potesse essere finalmente la mia inter-vista in-finita…