La correlazione tra la propria situazione casalinga e la propria vita è stata un’ovvietà inaggirabile dello scorso anno, e di sempre in fondo. Le reti sociali e familiari che ci soffocano o ci fanno sentire soli sono plasmate con la natura materiale del luogo in cui abitiamo. La mostra di Lydia Ourahmane “Barzakh” alla Kunsthalle Basel affronta la questione della casa e le sue tante diramazioni, svelando l’interconnessione tra personale e globale, tra illusioni di riservatezza e i fantasmi della storia impressi negli oggetti banali che affollano le nostre vite private. L’installazione centrale, 21 Boulevard Mustapha Benboulaid (2021), è composta dagli oggetti dell’appartamento di Ourahmane ad Algeri (dalle scrivanie alle coperte ai posaceneri semipieni… circa 5000 in tutto). L’immobile già arredato – il primo da quando è tornata in Algeria dopo essersene andata da bambina – era stato in precedenza abitato da una donna da poco scomparsa che era venuta dalla Germania portandosi i mobili in seguito a un divorzio. Era l’unico appartamento disponibile per una donna single. Il lavoro dialoga con questioni identitarie, di nazionalità e differenza culturale sul piano del concetto e dell’oggetto – questioni che si riflettono a vicenda e affiorano nella presenza astratta delle due donne. Si scopre che la vita di Ourahmane si è confusamente intrecciata con quella della donna: le foto sul frigorifero sono evidentemente dell’artista e dei suoi amici, altre forse no. Beckett e Poe affiancano Mark Fisher. Questi simboli domestici rappresentano un ritratto e al tempo stesso un enigma: l’artista e il fantasma con cui vive. Nati dalla sfera privata, questi elementi mettono in discussione il modo in cui tutti ci rapportiamo e assorbiamo le identità e le culture degli altri, le loro cose e le loro storie.
Questo gesto concettuale pervade i toni di un’installazione che è decisamente scultorea, e non frutto di un copia e incolla. Un portasapone appeso nella sua solitudine vicino all’ingresso, a qualche metro dal suo consueto vicino, il mobiletto del bagno, e una abat-jour nella sala più lontana hanno collocazioni particolarmente poetiche. Un lavoro precedente di Ourahmane, Untitled (cassette pulled from car crash) (2015) è tipico della rinascita del ready-made della metà degli anni Dieci del Duemila: l’oggetto carbonizzato del titolo è perpendicolare alla parete, per cui lo spettatore se lo trova di fronte come se fosse all’interno dell’automobile ormai distrutta. In questo caso, stanze invisibili sono state conservate astrattamente. Come con l’audiocassetta, lo spettatore diventa la struttura mancante: un voyeur ben accetto e al tempo stesso un intruso.
Questa sensazione è amplificata dall’inclusione di cinque sculture organiche da tavolo in vetro, tutte intitolate con un numero telefonico svizzero e che rivelano essere “installazioni sonore reattive”. Questi lavori si ascoltano – per esempio chiamando il +41 77 207 89 09, chiunque può farlo. Se la mostra recente di Park McArthur alla Kunsthalle Bern ruotava essenzialmente attorno alla sua accessibilità fuori sede, quella di Ourahmane a Basilea scatena avvincenti discussioni sulla privacy trasferibile dal terreno sacro della propria abitazione a quello del museo. La sala espositiva diventa un palcoscenico per artista e spettatore, ed espone entrambi molto. L’arredamento potrebbe essere utilizzato da chiunque, ma come con Facebook, Gmail, e via dicendo, questo regalo comporta un costo in termini di privacy.
È a questo smascheramento che si allude in modo alternativo in 21 Boulevard Mustapha Benboulaid (entrance) (1901 – 2021): la porta estratta dallo stesso appartamento (con tutto l’infisso e, ancora una volta, una lezione magistrale sulla forma trovata e il suo allestimento). Composta in realtà di molteplici porte, lastre di acciaio e innumerevoli serrature, è il ritratto di un luogo e della sua storia incrementale di guerra civile e sicurezza agognata. Ancora una volta ci ricorda che gli spazi privati che troviamo e scolpiamo con gli oggetti legati alla nostra personalità sono rifugi sicuri e al tempo stesso possibili prigioni. La casa non è solo un luogo di sicurezza: ritirarsi in essa può ricordare Sidney Prescott che sale le scale fuggendo in Scream. Qui, però, c’è una possibilità che qualcuno sia in ascolto: il mondo esterno, lo spettro del passato, o, forse entro l’estate, altri spettatori, che al momento sono fisicamente assenti come l’artista e la sua ospite domestica.