Quando la sera del 27 settembre 1968, nella sua casa/atelier di Bruxelles, in Rue de la Pépinière 30, Marcel Broodthaers si auto-dichiarò direttore e curatore del Musée d’Art Moderne-Département des Aigles, stava portando all’esasperazione una riflessione sui meccanismi di ricezione e definizione dell’opera d’arte che durava almeno dal ready-made duchampiano. Ciò che sembrava in gioco, nelle intenzioni dell’artista belga, non era una semplice appropriazione degli “spazi discorsivi” dell’istituzione museo, quanto una vera e propria decostruzione dell’autorità di quest’ultimo, compiuta mediante quelle stesse pratiche che avevano contribuito a instaurala.
A più di cinquant’anni dalla storica inaugurazione del Musée d’Art Moderne, il MASI di Lugano, in collaborazione con il centro d’arte contemporanea Wiels di Bruxelles e con la curatela di Charlotte Friling e Dirk Snauwaert, dedica un’ampia mostra alla produzione artistica di Broodthaers e, in particolar modo, alle sue Poesie industriali. Si tratta di placche di plastica, realizzate grazie alla tecnica della termoformatura, che l’artista crea tra il 1968 e il 1972 – proprio negli stessi anni del Musée – con il chiaro intento di destabilizzare la tradizionale funzione assegnata alle insegne e alle targhe. Oltre ad acquisire una rilevanza sia fisica che visiva, le parole, le lettere e i simboli impressi con contorni morbidi e tattili sulle Poesie industriali servono a mettere in moto un principio di livellamento generale che porta l’artista ad abolire ogni gerarchia tra i vari elementi. In una serie di placche intitolata Département des Aigles (David – Ingres – Wiertz – Courbet) (1968), ad esempio, i nomi dei celebri pittori sono posti sullo stesso piano di alcune parole che, solitamente, sono disseminate negli spazi museali, come “guardaroba”, “scala a”, “informazioni”.
Prodotte in multipli da una ditta che si occupava di stampare i cartelli stradali per la città di Bruxelles, le placche racchiudono tutte le principali tematiche affrontate dal lavoro di Broodthaers e testimoniano un autentico collasso tra la dimensione industriale – legata ai materiali utilizzati e alla produzione in serie – e quella artistica e poetica – legata alle operazioni di détournement. Assimilata la lezione saussuriana sull’arbitrarietà del segno linguistico, Broodthaers segue una linea già tracciata da René Magritte, ma tenta di superare i cortocircuiti visivi del maestro surrealista trasformando le parole scritte in veri e propri oggetti in rilievo. Se molte delle Poesie industriali sono ispirate all’autore di Ceci n’est pas une pipe, altre sono dedicate a poeti francesi come Stéphane Mallarmé e Charles Baudelaire. D’altronde Broodthaers inizia la sua carriera come poeta e approda solo in un secondo momento all’arte visiva – “La poesia mi impediva di entrare in contatto con gli altri, anche con gli altri poeti”, affermerà in un’intervista televisiva del 1969 condotta da Sélim Sasson. Assieme alle numerose placche, ai disegni preparatori e a una selezione di lettere aperte spesso direttamente correlate ai soggetti delle Poesie industriali, la mostra accoglie anche due brevi film incentrati sulla scrittura: Une seconde d’eternité (D’après une idée de Charles Baudelaire) (1970) – in cui l’artista riprende per un secondo la sua stessa firma – e La pluie (project pour un texte) (1969) – una pellicola dove si vede Broodthaers seduto mentre scrive su un piccolo quaderno delle frasi che sono perentoriamente cancellate da una pioggia artificiale battente.
Nucleo centrale dell’opera dell’artista belga, le Poesie industriali esposte a Lugano sono un chiaro esempio di quella natura ibrida (tra poesia e arte visiva) che caratterizza gran parte della ricerca di Broodthaers. Al contempo, sono lavori che riflettono sul ruolo della comunicazione, della pubblicità e dei mass media, partecipando a quel processo di destrutturazione dei codici linguistici e istituzionali che l’artista portava avanti parallelamente all’attività espositiva del suo museo fittizio. Quando gli avevano chiesto quale fosse il significato delle sue placche di plastica, l’artista aveva affermato: “Diciamo che sono dei rebus. E il soggetto, una speculazione sulla difficoltà di lettura che questo materiale comporta”.