Patrizia Ferri: Nella tua ricerca la volontà di costruzione e la necessità di dissoluzione dell’opera creano una dinamica interessante, senza che i due termini si neutralizzino a vicenda. Rappresenta in qualche modo il rapporto ambivalente che hai con essa?
Marco Fedele Di Catrano: I miei inteventi nascono e si materializzano in una zona di confine tra lo scontro e l’incontro con lo spazio in cui avvengono. Sono spesso transitori per necessità, ma il germe dissolutore che portano intrinsecamente segue la logica dello sbarramento, per cui una situazione inaccessibile può cambiare di segno o viceversa. Diventano quindi dei momenti di confronto limitati nel tempo.
La sinergia con lo spazio crea un’accumulazione di energia di cui io stesso divento osservatore: in questo senso il rapporto con il pubblico avviene in sinergia. Sono accadimenti e, in quanto tali, potenzialmente in evoluzione o effimeri.
PF: Lo spazio vissuto come dimensione stratificata e impraticabile, in un attraversamento pieno di ostacoli, sbarramenti ecc., è uno degli snodi del tuo lavoro. Vivi le tue architetture decostruite come metafora esistenziale o sfida strutturale?
MFDC: Direi entrambe. Il lavoro si struttura secondo le funzionalità dello spazio architettonico ed espositivo in antitesi o in sintesi, e le caratteristiche ambientali sono la sorgente di un intervento che diventa poi evidenza di uno stato esistenziale nel momento in cui ci si confronta con esso. Credo che questo si possa leggere nel lavoro Exchange all’American Academy di Roma, realizzato direttamente su una delle pareti dello spazio espositivo. In un primo momento l’intervento è stato quello di intagliare le dodici stelle della bandiera europea sull’intonaco, dopodiché, attraverso la tecnica che si usa per gli affreschi, le stelle sono state staccate intatte dalla parete per essere poi conservate.
PF: Molto spesso il confronto è con lo spazio della tua casa, con la dimensione del quotidiano spogliata dal vissuto, creando in alcuni casi una specie di metaluogo, uno spazio “altro” dove si incrociano dimensioni temporali e costruttive con le quali fare i conti…
MFDC: Più che la dimensione del quotidiano e della mia casa mi interessa la spazialità nella sua forma ridotta, gli equilibri e le relazioni che si instaurano al suo interno. Nel lavoro Nord Sud Ovest Est, per esempio, ho ricostruito interamente le mura della mia abitazione all’interno di un’altra abitazione a Berlino, attraverso la sovrapposizione delle piantine delle due architetture, secondo i quattro punti cardinali. Le mura hanno un colore grigio chiaro medio, quasi acromatico; mancano completamente riferimenti personali e le due abitazioni svuotate interagiscono tra loro creando un ibrido architettonico. Il lavoro diventa scultura itinerante e cangiante.
Per quanto riguarda la relazione con l’oggetto, ho realizzato un lavoro intitolato Perpetuum Mobile (2007), in cui una palla da basket, proiettata direttamente sul muro su scala naturale, sale un ipotetico piano inclinato, perdendo e poi riguadagnando il colore nello spostamento da un punto A a un punto B, diventando più strumento di misurazione che oggetto in sé.
PF: La porta è un elemento fondamentale: più che la soglia duchampiana, confine fluido e attraversabile, rappresenta una resistenza che si può aggirare attraverso un ribaltamento che assume un senso filosofico oltre che operativo. Cosa è per te il limite?
MFDC: Il limite è qualcosa che ci poniamo o che ci viene imposto e, in quanto tale, è imperfetto, fluido e modificabile nel tempo e nello spazio. Nel lavoro Senza Titolo, all’interno della mostra “C’era una volta un futuro”, l’attraversamento è possibile. Le porte del luogo espositivo, montate all’interno di un corridoio-intercapedine, diventano la manifestazione di questa fluidità temporale, perdono la loro funzionalità quotidiana per diventare soglie penetrabili e allo stesso tempo resistenza a un incedere materialistico e relativo. Anche in questo caso il lavoro si stabilisce e si nutre nella relazione emotiva che si crea con lo spettatore.