Samuele Menin: Nello statement di presentazione del tuo lavoro affermi che la ricerca si concentra sul rapporto tra immagine, visione e architettura/paesaggio, da dove è nato questo interesse e come cerchi di formalizzarlo nei tuoi lavori?
Margherita Moscardini: Mi sono domandata come richiedere all’osservatore la minima azione necessaria affinché conceda attenzione. E se fosse necessario sviluppare una forma di resistenza rispetto alla produzione di oggetti e di immagini? Che possibilità ha oggi un’immagine di essere adeguata (complessa e visibile)? È successo che più mi interessavo ai contesti specifici, e più sottraevo all’immagine la possibilità di fissarsi su un supporto, se non retinico.
SM: Spesso alcune tue opere mi sembrano concepite come se fossero dei veri e propri quadri, questo perché tu stessa suggerisci il punto ottimale di visione come nell’intervento alla tinaia o più esplicitamente nella Quadreria Tozzoni.
MM: Questo è in parte l’equivoco che nasce dalla documentazione. I vari strati su cui si articolano i miei interventi spesso si manifestano come coordinate (volumi e piani diversamente allineati), la cui unione visiva offre un’immagine che non si dà come oggetto, ma come evento, perché si tratta di un’immagine ottica. Von Hildebrand avrebbe parlato in termini di forma esistenziale e forma effettuale. Nella Villa La Magia ho realizzato un blocco di stratificazioni geologiche presenti nel sottosuolo locale; il blocco, che ricorda l’esito di un grosso carotaggio, termina con una porzione di prato che, dato un preciso punto di osservazione, segnalato da uno sgabello da disegno, si presenta in prospettiva come naturale continuazione visiva del paesaggio inquadrato dalla luce della porta. In questo caso il blocco, il neon, lo sgabello regolabile formano un oggetto autonomo: un carotaggio, un plastico… La Quadreria Tozzoni voleva dichiaratamente trasformare le stanze in quadri, ma era appunto una casa-museo che diventava una piccola pinacoteca. Negli altri interventi la frontalità dell’immagine è un momento che offro visivamente, ma è solo una parte del lavoro. Per me è importante che tra l’intervento nello spazio e l’immagine che può suggerire non ci sia una gerarchia ma una tensione. E che quindi mantengano una certa autonomia. Anche perché, nella sostanza, quello spazio e quell’immagine mi sono indifferenti.
SM: Come ti documenti prima di un intervento?
MM: Con diversi sopralluoghi, fotografie, disegni. In fase di progettazione ho bisogno di piante e rilievi, e spesso di studiare i comportamenti della luce.
SM: Dai tuoi lavori emerge la grande importanza che dai alla storia e al vissuto dei luoghi dove intervieni; mi potresti spiegare come ti approcci alle location e in che misura o in che grado è importante, per te, mettere in luce degli aspetti del loro passato come in Milleluci o nell’intervento alla limonaia?
MM: La storia mi interessa nella misura in cui si manifesta attraverso le proprie tracce stratificate nello spazio. Per me è importante capire come lo spazio si è modificato, in che misura si è allontanato dal proprio disegno originario, quali rapporti esistono tra le intenzioni della sua progettazione e il suo aspetto presente. In che modo il paesaggio, come elemento pre-esistente, ha determinato la progettazione dello spazio, e come lo spazio invece ha condizionato la conformazione del paesaggio. I loro reciproci condizionamenti nel tempo, insomma. Ogni mio intervento è sempre uno dei processi di trasformazione a cui lo spazio è costretto a sottoporsi.
SM: La maggior parte dei tuoi lavori si possono definire effimeri perché destinati a scomparire e a modificarsi per l’azione del tempo come in QO 1,9 o ad essere distrutti al termine della mostra.
MM: Come dicevo, proprio perché mi inserisco in un processo di trasformazione già in atto, il mio intervento è destinato a essere assorbito dagli ulteriori cambiamenti a cui lo spazio sarà soggetto. La distruzione del lavoro è inevitabile. Esprime anzi la sua coincidenza col luogo. Anche dove il mio intervento è permanente, non si tratta mai di un oggetto o di una struttura compiuta, ma di una predisposizione di condizioni che permettano l’assorbimento del lavoro da parte del luogo, e il manifestarsi del processo come evento. In QO1,9 infatti, la crescita delle piante consentirà a un certo punto la lettura della scritta, poi la cancellerà, finché la visione del disegno sarà riassorbita interamente dal paesaggio.
SM: La luce è un elemento importante dei tuoi lavori: in Strappo#1 utilizzi una lampada modificata per fare in modo che l’opera abbia la stessa illuminazione del sito originale, e nell’intervento a Palazzo Tozzoni di Imola hai modificato la posizione dei lampioni stradali in modo tale che illuminassero le sale. Come influisce sulla visione finale dell’opera?
MM: Considero la luce (naturale e non) un elemento strutturale, oltre che condizione di visibilità. Mi interessa capire il modo in cui determina la visione dello spazio. Sia come sorgente luminosa che come oggetto.
In Terza Stanza, ex casa-studio divenuta galleria, la lampada era concepita sotto tutti questi aspetti: la ceramica bianca smaltata era stata scelta per l’analogia con elementi domestici (sanitari), la forma era di una lampada da studio, predisposta per supportare un sistema di illuminazione stradale affinché illuminasse il parco. Era la sola fonte luminosa presente, quindi la condizione di visibilità dell’ambiente. Se la luce rivolta verso l’esterno rendeva ambigua la dimensionalità della struttura, l’oggetto-lampada, con il cavo elettrico che attraversava il davanzale e parte dell’ambiente, ne dichiarava la tridimensionalità.
SM: I tuoi lavori parlano sempre di luoghi e quasi mai di persone, compresa te stessa. Unica eccezione forse il progetto al carcere Le Vallette di Torino.Me ne parleresti?
MM: Le Vallette è un istituto detentivo attivo. Ho individuato un corridoio di passaggio, tra i reparti detentivi maschili e la sala degli avvocati/magistrati. Su due finestre ho sostituito parte delle sbarre esistenti facendone realizzare altre che non fossero verticali. La mia struttura era funzionale alla proiezione del riflesso solare sulla parete di fronte, dove ho installato una didascalia con il titolo. Per pochissimi giorni l’anno, a dicembre, il disegno delle sbarre riflette sul muro, diventando l’oggetto indicato dalla didascalia.
SM: Hai delle fonti o eventualmente delle tematiche ricorrenti per i tuoi lavori?
MM: L’immagine dello spazio che si svuota (della propria funzionalità e delle contingenze) per essere ridisegnato. Che guarda in qualche modo alla sua condizione originaria.
Il rapporto che cerco di stabilire tra ciascun segno che compone l’intervento e la visione che possono indicare è analogo alla relazione che c’è tra un progetto, come disegno autonomo, e la realizzazione cui aspira. Gabriele Mastrigli descrive bene questa tensione nella postfazione a Junkspace di Rem Koolhaas, a proposito del rapporto che c’è tra la sua scrittura e l’architettura. “La narrazione”, dice, “non rimanda semplicemente ad un’opera da farsi (cinematografica come architettonica), ma esprime piuttosto — parafrasando Pasolini — i significati di una struttura in movimento, ossia di una struttura dotata della volontà di divenire un’altra struttura. Si tratta in altre parole di un “processo”, ma di natura singolare, che implica non un passaggio da uno stadio a un altro, ma un “dinamismo”, una “tensione” — per usare ancora i termini di Pasolini — che si muove, senza partire e senza arrivare, dalla struttura della narrazione a quella dell’architettura: in breve, una “struttura che fa del processo la sua caratteristica strutturale”.
Così non si può più andare avanti/bisogna tornare indietro/e ricominciare daccapo, dice ancora Pasolini, convinto che la Storia si sia inceppata in un punto, e che da quel punto continui a ripetersi su se stessa senza reali possibilità di svolgimento.