“Il ritratto di Jacquard era un quadrato di seta tessuta, grande cinque piedi, incorniciato e sotto vetro, ma che sembrava così perfettamente simile a una incisione, che fu considerato tale per errore da due membri della Royal Academy.” Charles Babbage¹.
La manifestazione più recente dell’indagine plastico-materica di Margherita Raso (Lecco, 1991; vive tra New York e Milano) è accaduta lo scorso novembre da Bible, un cubo nero seminterrato nel Lower East Side di Manhattan, in occasione della sua prima personale negli Stati Uniti. Al termine della ripida scala d’accesso, Raso ha disposto nove bacili in ceramica smaltata d’argento scuro (For those sleeping with the sound of the ocean, 2018) che rilucevano, illuminati da una croce di neon glaciali, insieme a tre tessuti jacquard con fili neri e blu elettrici appesi al soffitto e orientati nello spazio come pannelli architettonici (W0934.A e W0934.B, 2018; Untitled, 2016). Questi oggetti lucenti sono stati generati da immagini che, attraverso la loro ripetizione, vengono indagate nella possibilità di creare una suggestione di movimento: quelle delle ceramiche e di Untitled appartengono a una serie astratta che Raso ha iniziato nel 2014, ovvero composizioni di texture organiche fotografate al microscopio, come piume, foglie o polvere di rame, rese digitalmente in flussi inorganici vibranti; quelle di W0934. A e B, invece, sono state realizzate tracciando con un pastello a olio i movimenti di due corpi umani sdraiati su rotoli di tela e componendoli digitalmente in una coreografia. La traduzione di Untitled e di W0934.A e B in jacquard permette a Raso di operare un trasferimento dimensionale e materico da oggetti a immagini a nuovamente oggetti. Per il telaio jacquard, le immagini corrispondono infatti a stringhe di linguaggio binario che la macchina interpreta tessendole e trasformandole in oggetti, e sono l’evoluzione delle schede perforate che legano la storia di questo telaio a quella del computer.
Si tratta cioè di software meccanici (con un codice binario di buchi e non-buchi, l’attuale 0-1) per la programmazione di hardware meccanici come appunto il telaio di Joseph Marie Jacquard (1801) e la macchina analitica di Charles Babbage (1837). Ada Lovelace, che per prima nel 1842 inventò un software algoritmico per essere elaborato dalla macchina analitica, descrive quest’ultima come in grado di tessere “motivi algebrici, proprio come il telaio Jacquard tesse fiori e foglie”. La filosofa ciberfemminista Sadie Plant ha espanso questa convergenza mettendo in luce la complessità dello jacquard, poiché non solo a livello fenomenico fili e cavi, telai e computer, tessuti e reti informatiche possono essere considerati equivalenti, ma anche, e in maniera ancora più stupefacente, a livello ontologico il disegno non è imposto sullo sfondo (come quando si disegna) ma emerge dall’intreccio stesso, è immanente alla sua produzione². Parlare di immagine è stato quindi impreciso, dovrebbe piuttosto essere sostituito da un’altra tipologia di termini come pattern o motivo, poiché quello di cui si è discusso è in realtà un’immagine incorporata in una struttura che, seppur invisibile come la griglia di trama e ordito o il ciberspazio, diviene reciprocamente all’immagine. La ripetizione meccanica di trama e ordito mette in luce le qualità ritmiche intrinseche al pattern che, per l’artista, ampliano le possibilità di creare l’illusione del movimento tramite la ripetizione di immagini. Il loro moto è connesso alla conoscenza dello spazio dove è messo in scena, che viene così misurato nei suoi limiti e mappato. Tale esplorazione è stata condotta a livello ambientale con Piercing (2017), un’installazione per la sua prima personale da Fanta a Milano.
Anticipando la ricerca figurativa e il procedimento di W0934. A e B, l’artista aveva realizzato due pattern: una coppia di gambe in retiré e una in cui le gambe sono unite e fiancheggiate da un braccio della stessa lunghezza, per i quattordici fasci di jacquard con cui aveva foderato l’arco a tutto sesto in metallo che determina il volume della galleria. Le sagome navy su fondo argenteo diventano progressivamente illeggibili verso la chiave dell’arco, non solo perché i pattern si ripetono in un movimento avvitatorio frenetico, ma anche perché i tessuti sono stati drappeggiati con dei magneti. Attraverso il pattern delle figure e quello delle increspature create dalla forza di gravità, Raso verifica qui per la prima volta le qualità materiche interne dei tessuti, cioè le loro cause, manifestarsi contemporaneamente agli effetti che avevano sulla superficie esterna di un’installazione. Piercing non solo ribadisce il rapporto di costituzione reciproca tra termini apparentemente opposti come astratto-figurativo, immagine-oggetto, trama-ordito o scultura-installazione, ma induce anche a una riflessione sulla simultaneità dei processi. Questo aspetto affiora soprattutto con le traslazioni delle immagini in ceramica, ghisa e bronzo dove Raso utilizza un vocabolario di gesti diverso rispetto a quelle in tessuto, non sintetico ma letterale. For those sleeping with the sound of the ocean ne sono l’esempio più prossimo. L’artista ha creato dei bacili di argilla che potessero stare nel palmo della mano o che potessero occupare, sospesi, lo spazio tra il fianco e il braccio teso a sostenerli. Ha appoggiato il pattern astratto nero e blu elettrico di Untitled sulla loro superficie concava o su quella convessa e, prima della loro cottura, ha strappato il tessuto. Ciò che questi oggetti fragilissimi e leggeri rendono noto è il gesto che ne ha creato la pelle, il contatto o contagio che c’è stato tra le due superfici, il tessuto jacquard e l’argilla, che lo strappo rivela.
La ghisa Untitled (2015), realizzata in una fonderia di Upstate New York, è stata invece la prima traduzione in metallo. Dopo aver creato una dima convessa, più grande e ancora senza riferimenti alla scala corporea così come in Brillamento (2018), Raso vi ha deposto una parte del suo primo jacquard (Untitled, 2014). Irrigidito il tessuto, lo ha coperto di sabbia e resina per creare un lato dello stampo. Ha capovolto lo stesso, strappato il tessuto e creato uno spessore dove poi, a stampo sigillato, è stata colata la ghisa. Lo spazio-tempo dello strappo, in cui materiali diversi si toccano, partecipa all’indagine di Raso sulle tecniche e tecnologie che, come il telaio jacquard, sono in grado di creare rilievi senza aggiungere o togliere materia, facendole invece perdere o acquisire qualità. Il pattern miele su fondo bianco, che appartiene alla serie di già citate composizioni astratte, è stato il primo corpo che ha subito una doppia traduzione, perdendo in prima istanza la propria pelle digitale per acquisirne una di jacquard (Untitled, 2016) ed esistendo ora, in una sorta di marchiatura a fuoco, solamente nelle grinze della sua pelle di bronzo. Sottile 5 mm e pesante 100 Kg, Bianco Miele (2016) è stata fusa alla Fonderia Battaglia, Milano, e presentata nella collettiva “That’s IT!” al Museo MAMbo di Bologna. Raso ha dapprima costruito una dima e vi ha appoggiato sopra il tessuto, che ha coperto con uno strato di mattoni tritati, gesso e acqua, poi utilizzato come stampo. In seguito ha strappato il fronte del tessuto, e dove è rimasto impresso il pattern vi ha incollato il retro dello stesso, continuando poi con il procedimento della tecnica a cera persa. Il risultato spettrale, che ricorda il pettorale o lo schienale di una corazza in torsione, corrisponde al bronzo venuto in contatto con la cavità lasciata dalla perdita per bruciatura della cera e del tessuto durante la cottura. Sensibili al tocco, le superfici che ne rimangono impresse incorporano non solo i rilievi attuali ma anche il loro aspetto precedente all’evento, descrivendone l’esperienza, molecola per molecola. È questa la compenetrazione che sta al cuore del lavoro di Margherita Raso: l’incompatibile manifestazione del processo materiale nell’immagine finale.