La mostra di Marisa Merz “Disegnare disegnare ridisegnare il pensiero immagine che cammina” alla Fondazione Merz di Torino (fino al 16 settembre), è il secondo momento di un progetto inaugurato l’estate scorsa alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia. Intitolata “Marisa Merz — non corrisponde — eppur fiorisce —” la prima tappa aveva luogo nelle sale storiche della Fondazione veneziana e impostava un dialogo discreto rispetto all’immensa seppur rarefatta operazione realizzata negli spazi di Torino. Tuttavia le due mostre non si escludono a vicenda, al contrario sottolineano la sintonia e condivisione di una processualità che non si esprime nella sola operazione espositiva. Marisa Merz già sapeva che la mostra non corrispondeva — ma fioriva.
Una sorta di antologica quella di Torino che, sfuggendo percorsi e perimetri cronologici, dà forma a un complesso e totale universo creativo e illustra le modalità lavorative dell’artista, il suo modo di creare connessioni e relazioni di senso nuove tra le opere. Più di cento lavori selezionati senza alcuna preordinazione dall’artista stessa; tra quelli storici riconosciamo subito Altalena per Bea e L’arpa; numerosi dipinti e sculture Senza titolo — come spesso usa chiamarli l’artista; e altre installazioni note e ignote, espressioni di un incessante lavorio di quel disegnare disegnare ridisegnare, che per Merz non si compie mai del tutto e diventa un modo incessante di porre domande e di far vagare il pensiero: poiché non è l’opera che è importante ma il farla. Il tempo a sua volta è sospeso, quasi sottratto, e soprattutto mai indicato dall’artista che ne fa a meno, lasciando le opere in un’incertezza temporale che restituisce l’idea di universalità, tema centrale per l’Arte Povera alla cui storia l’artista è legata in modo così autonomo e singolare. Ricordiamo che Merz esordiva nei primi anni Sessanta e che da allora si è distinta per l’uso di un linguaggio processuale poetico e profondamente personale, libero da rigorismi concettuali e minimalisti.
La mostra di Torino, tanto soave quanto intensa, è espressione coerente di un lavorare dell’artista che si confronta continuamente con l’idea di incompiuto, la cui unica “finitezza” — potremmo immaginare — è affidata al filo silenzioso e trasparente che tiene insieme le singole opere in un’unica grande storia.