Una campitura di luci posizionata in alto sul cantiere del MAXXI, visibile al quartiere, aperta alla città. Un quadro luminoso, come una pittura impalpabile e aerea in un esterno urbano. Un museo che nasce in una città che è un grande museo a cielo aperto, ma questa volta è una Roma a noi contemporanea che svela il suo volto. Improvvisamente un’inondazione di luci, una pioggia di stelle come in un’artificiale notte di San Lorenzo. Dall’alto gli astri cadono e si infrangono. In mezzo a questo fragore, come voce silenziosa, si configura una scritta. Le luci superstiti alla rovinosa caduta formano lettere, parole, una frase: “Anche oggi niente”. “Il 25 aprile 1936 Cesare Pavese scrive nel suo diario ‘Quest’oggi, niente’ (Il mestiere di vivere)”, racconta Massimo Bartolini, “per anni ho pensato che questa frase fosse invece ‘anche oggi niente’. Pur avendo il libro, misteriosamente ho sempre rifiutato di consultarlo e ho preferito il dubbio alla certezza, fino ad oggi. ‘Quest’oggi, niente’ sembra la constatazione di una giornata che abbraccia presente e futuro: rileggendola un giorno, un mese, un anno dopo, sarà sempre ‘oggi’…”, prosegue l’artista, “il mio ricordo che l’ha trasformata in ‘Anche oggi niente’ aggiunge al presente-futuro anche il passato: anche ieri era niente, il niente è, è stato e sarà”. La splendente superficie tessuta di luce precipita in catastrofe, ma dalla rovina una nuova epifania si manifesta e trova permanenza e durata nel linguaggio. Questa breve sentenza, senza soggetto né verbo, si sospende luminosa aggrappata a un ponteggio che è icona della costruzione, ma anche parte del paesaggio determinato dal cantiere dove nasce il nuovo complesso progettato da Zaha Hadid. Nello spazio tra la frase di Pavese e il lapsus di Bartolini, uno stretto interstizio che interpreta l’universalità della proposizione — legata alla biografia del diario, ma strutturata come un verso poetico —, si situa l’opera dell’artista, 25 aprile 1936 (2008). Oggi, ancora e sempre, è il 25 aprile.
A Bench (2006) è l’opera realizzata per “Art Unlimited” all’esterno della fiera di Basilea. Utilizza un elemento preesistente, la A della scritta di Heimo Zobernig, la solleva da terra in un piano di ghiaia, come per il giardino-panchina del Forte Belvedere, e la circonda di un recinto che la trasforma nella A di anarchia. Il primo congresso anarchico si era tenuto in Svizzera e il quarto, che sancì la cacciata di Michail Aleksandrovič Bakunin, proprio a Basilea. Il lavoro presuppone due sistemi di visione alternativi: dall’alto e dall’interno — anche le prime “Aiuole” di Bartolini possedevano questa doppia lettura. Il punto di vista interno è quello di uno spettatore — che nel caso di Bartolini sarebbe meglio definire “abitatore”— che vive il giardino, aperto di giorno, con alberi, lampioni e sedute, un giardinetto che “è come un giorno di festa”, per usare le parole di Jorge Luis Borges. Mario Merz definiva i suoi tavoli “un pezzo di terra sollevato”, così è anche per questo giardino in forma di lettera. Ma dall’alto, lo sguardo dal di fuori racconta un’altra storia: l’opera perde l’abitabilità, ma il riferimento politico all’anarchia diventa leggibile, dal piano intimo del quotidiano si passa a quello collettivo della storia. Il recinto dell’hortus conclusus diventa figura geometrica e il giardino si trasforma in segno. Per incanto il gioco delle ombre si configura come un disegno di Bartolini, uno di quei suoi delicati disegni in cui gli alberelli dal fusto esile e dall’intricata grafia della chioma si situano all’incrocio di sentieri generati dalle piegature del foglio.
Impressions (2008) per il MAMbo di Bologna è un tavolo disposto a trasformarsi in palcoscenico. Ha un fondale fotografico, un monte di pietre destinato a fare da fondo stradale. È l’idea di costruire un teatro come paesaggio infinito. Chiuso, il tavolo ostenta una struttura geometrica in cui la dimensione delle gambe e la loro distanza corrispondono al tempo e al valore delle note della partitura del brano musicale che dà il titolo all’opera: un pezzo di John Coltrane, un musicista di cui all’artista interessa l’aspetto processuale e sperimentale. È un bassorilievo, uno “stiacciato” come si direbbe per il toscano Donatello, ma è anche un tavolo musicale dove si tengono concerti. Il palco sostiene l’evento musicale, come il pavimento è l’analogia architettonica della terra, supporto originario dell’uomo, come il pavimento viene calpestato. Il percorso di Bartolini, che riflette sugli elementi strutturali dell’abitare, è scandito da una serie di pavimenti rialzati, oscillanti, ruotanti, vibranti, sempre modificati e modificanti. Il palco è un elemento muto, opaco che fa brillare e risuonare quel che vi si posa.
L’installazione realizzata alla Frith Street Gallery di Londra (In the Back of My Mind, 2008) presenta un lavoro apparentemente diverso da tutti gli altri dell’artista che raramente ha fatto uso del video, qui protagonista. Si tratta di una sorta di archivio della memoria in cui le immagini galleggiano: materiali girati dall’artista stesso, in modo amatoriale, nell’arco di quindici anni. Sono appunti che spesso riguardano fatti di lieve entità — una ragazza innaffia, un’altra sistema bicchieri in un bar —, ma sono come la pagina di un libro che si può leggere. Leggerezza e dinamismo sono caratteri di questa installazione complessa, che fa ruotare e contiene al suo interno immagini di oggetti ruotanti: il perno della ruota tibetana che gira, la betoniera che rimugina il cemento. Le immagini si sovrappongono, appaiono e scompaiono secondo dissolvenze, mentre i proiettori stessi entrano a far parte dell’opera emanando luce come stelle. Tra le proiezioni si colloca un oggetto, una lampada notturna attorno alla quale ruotano falene. In fondo, questo lavoro non è così lontano dalle stanze “ad atmosfera modificata” con gli angoli smussati e dal giardino-gazebo: tutti questi ambienti portavano il titolo Head, e anche qui il senso è quello di trovarsi all’interno di una testa, nel luogo della mente. Qui assistiamo alla visualizzazione del pensiero e alla messa a nudo dei suoi meccanismi.
Infine, il ponteggio viene trasportato in un interno: nella galleria Massimo De Carlo diviene uno strumento musicale (inizialmente prefigurato per il MAXXI). I tubi del ponteggio funzionano da canne di organo; una ruota dentata aziona le leve che aprono o chiudono le canne. “Il ponteggio è architettura prima dell’architettura, sostiene protegge e imprigiona la nuova costruzione, l’organo sostiene, protegge e imprigiona l’animo dell’arrampicatore dell’anima. Solo alla fine, quando vengono rimossi, costruzione e uomo sono finalmente completati” (Bartolini). Il ponteggio dà forma al desiderio antico del volo. A Casa Masaccio nel 1998, per accompagnare lo spettatore nell’ascesa, Bartolini aveva predisposto un corrimano che era anche conduttore di suono e si apriva all’estremità superiore come uno strumento a fiato: l’orecchio dell’architettura. Musica e architettura appaiono, a dispetto delle apparenze — massima rarefazione contro massima concretezza —, come arti sorelle, cosmiche evocazioni della totalità. Come ci ricorda Paul Valéry nel suo dialogo sull’architettura, solo due arti, la pietra e l’aria, ci permettono “d’essere in un’opera dell’uomo come pesci nell’onda”.
Al Museo Serralves di Porto nel 2007 l’artista ci fa spiare un’eclissi: dentro un container un globo luminoso appare e scompare, cullato da un’onda. Come la carta si piega nei disegni, così l’acqua si piega nell’onda: nella piscina realizzata a Villa Medici nel 2000, l’acqua andava ad alimentare una piccola risaia. Qui descrive il passare dal giorno alla notte, come alla galleria Artra il passo dello spettatore comandava attraverso la luce il ritmo delle albe e dei tramonti. A Serralves è l’acqua a far scendere le tenebre quando il sole entra nel mare che inghiotte l’astro e il suo doppio riflesso.
Alla 53ma Biennale di Venezia Bartolini realizza una sala multimediale con funzione didattica: l’opera avrà durata permanente, secondo il progetto del direttore Birnbaum di conversione dello storico Padiglione Italia ai Giardini in Palazzo delle Esposizioni della Biennale. D’altra parte, il tema della Biennale di Birnbaum, “Fare mondi”, si attaglia perfettamente a Bartolini che è veramente un “costruttore”, homo faber che lavora la terra dei suoi giardini, distilla i profumi, fabbrica insieme agli altri stanze e pavimenti. L’aspetto mentale e progettuale è molto forte, il fare conferisce intensità all’opera dell’artista, disposto a “farsi a piedi tutta la strada che porta all’immaginazione”. La sala ha un precedente nel lavoro realizzato dall’artista per la Cappella Anselmetti a Torino nel 2007, dove le librerie restano vuote, ma sottolineano membrature e pieghe dell’architettura; pieno è invece il pavimento delle stanze adiacenti che raccoglie, come un archivio, la memoria del quartiere operaio di Mirafiori. La Sala F, titolo dell’opera, tratto dai disegni tecnici dell’ex Padiglione Italia, può essere meeting room, cinema e auditorium: un precedente progetto di auditorium non realizzato era rarefatto e basato su impalpabili suoni, temperature, odori, mentre questa è una vera e propria macchina architettonica. L’intera sala, non in uso, è come lo screensaver di un computer, una camera delle possibilità che ha una sua figura in stato di quiete. In uso diventa un luogo di condivisione: il suo pavimento è come il pianale di un camion aperto, i grandi tavoli si trasformano due in platea e uno in palco. Quando non è usata per spettacoli o riunioni, sulle pareti della stanza vengono proiettati disegni geometrici dal montaggio cinematografico e da Investigaçoes Geometricas di Gonçalo M. Tavares, un libro di riflessioni sul sé attraverso la geometria e alcune frasi che Bartolini definisce “semplici e soavi”: “La realtà danza”. Questa architettura animata, come tutte quelle di Bartolini, ha caratteristiche umane. Per cercare concentrazione, definire un campo virtuale dalle infinite possibilità, l’artista costruisce due porte che emettono luce: isolano la stanza, ma la scritta “Sala F” intagliata suggerisce una permeabilità con l’esterno. Così il Disegno di pioggia (2005)inciso sulle vetrate della GAM di Torino permetteva la percezione di sensazioni quali caldo, freddo, umido. Lo spazio è modellato come un paesaggio astratto, una narrazione ineffabile, una geometria romanzata per condurre lo spettatore a percepire il pensiero: “Sto cercando di rendere praticabile l’immaginazione. Per praticabile intendo poterci portare anche il corpo, nel piano dell’immaginazione intendo”.