BARTOLOMEO PIETROMARCHI: Tra le foto che mi hai inviato da un tuo recente soggiorno in Sudan, per uno dei tuoi progetti con Emergency, ve n’è una di una bambina ritratta a metà volto che fissa dritto negli occhi. A guardar bene, riflesso nella sua pupilla, s’intravede un grande obiettivo dietro il quale è nascosto il fotografo, di cui non si individua l’identità, ma che si suppone sia tu. È un’immagine secca, riflettente, senza retorica né morale, che non prende posizione. Sembra che tu ci stia osservando da dietro l’obiettivo attraverso lo sguardo della bambina. Estrapolata dal contesto delle altre foto, potrebbe essere interpretata come uno statement di tutto il tuo lavoro: un’immagine spogliata di tutti i suoi attributi. Un gioco di rimandi e di riflessi che mette in discussione l’idea di autore, di spettatore e di funzione dell’immagine.
Massimo Grimaldi: Ho sempre immaginato l’opera d’arte come una massa neutra interposta tra il suo autore e il suo fruitore, la cui reciproca posizione compone un insieme retorico. Solitamente si pensa l’arte in termini di eccezionalità e valore, ma sono affascinato dal pensarla come il contrario. Non inseguo immagini eccezionalmente belle, ma la loro piacevolezza comune e mediocre, consumer. Cerco di non farle emergere, ma di farle affondare nel flusso delle immagini possibili, private della memoria del proprio stesso significato, nel panorama di valori arbitrari e indifferenziati che già adesso disegnano il nostro futuro.
BP: Ciò che colpisce nelle tue opere/immagini è il grado di “saturazione”: sembra che abbiano raggiunto un punto massimo, oltre il quale non è possibile andare. Una saturazione che deriva da una pratica di sottrazione che le spoglia dell’inessenziale, d’ogni attributo superfluo, quasi si volessero emancipare da qualsiasi riferimento al reale e sostituirsi a esso. È la teoria dei simulacri di Jean Baudrillard, in cui il segno diviene una replica senza originale e modello di se stesso. È per questo che di fronte alle tue immagini, sia quelle delle spiagge e dei tramonti sia quelle “astratte”, o anche quelle di reportage, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di estremamente familiare, senza però riuscire a riconoscerlo: un reportage che non è un reportage, una pubblicità senza prodotto, un testo che è solo immagine, una superficie senza oggetto. L’immagine schiva il suo referente reale e diviene autoreferenziale, nella forma così come nel contenuto. Diventa una replica che ha perso la memoria del suo modello.
MG: Desidero produrre delle superfici gradevoli, che attraggano in un primo momento, ma che subito dopo implodano in se stesse, lasciandoti sulla soglia del precipizio della perdita di ogni possibile significazione, di ogni possibile giustificazione. Superfici di cui si possa dubitare, senza essere sicuri se ci piacciano o meno. Credo di operare una idealizzazione estrema della realtà; forse è un modo per proteggermi dai suoi aspetti più dolorosi. Oggi ho assistito alla disperazione di una madre per la morte del figlio di otto anni, caduto da un albero di mango. Il suo dolore mi ha paralizzato. Ero incapace di consolarla, ma non riuscivo ad allontanarmene. Le gravitavo attorno, in un limbo privo di senso, che assomigliava molto al mio lavoro.
BP: Sì, mi sembra che da una parte vi sia questa “idealizzazione del reale” di cui parli, che altro non è che ciò di cui parlavamo prima rispetto all’immagine che crea il proprio modello di reale. Ma dall’altra, mi sembra che ci sia, nelle tue opere a favore di Emergency, un rincorrere un principio di realtà allo stato puro, dove l’opera si tramuta in altro senza quasi lasciare traccia di sé. Il fatto di destinare importanti somme dei premi che hai vinto o dei collezionisti che hai convinto ai progetti umanitari di Emergency pone questioni artistiche che vanno da una critica istituzionale al sistema dell’arte a una riflessione più profonda sul principio di realtà e di funzione dell’opera. In questa pratica di sottrazione, in questo limbo sospeso di segni e di significati, l’opera si tramuta in gesto concreto ed essenziale, con risvolti concettuali ed etici.
MG: Il mio lavoro può essere riassunto tutto nello stridore della dicotomia “molto astratto/molto reale”, che corrisponde al disagio con cui ho sempre vissuto la mia indole iperformalista, temendola sterile, e al mio bisogno di volerla trasformare in qualcosa che potessi considerare finalmente utile. Nei miei progetti con Emergency cerco probabilmente di pensare l’etica come una nuova frontiera dell’estetica. E ogni volta che mi trovo davanti a grosse somme di denaro pongo la stessa domanda ai giurati che devono decidere a chi attribuirle. Un qualche catafalco artistico o utilizziamo il denaro per salvare delle vite umane? Ma in fondo i miei benigni ricatti morali sono equiparabili a una qualsiasi tecnica pittorica. Si prefiggono una certa immagine plastica, ma sono più efficaci del colore rosso o del collage. Gli ospedali sono per me quello che i neon erano per Dan Flavin. Sono anche un modo di interrogarsi sulle ragioni che giustificano la presenza di un’opera, e soprattutto testimoniano che l’arte può realizzare le sue utopie.
BP: Di fronte alle tue opere si prova spesso un senso di malinconia derivato dalla percezione di una perdita; frammenti di memoria che riaffiorano inaspettati da un passato comune nel tentativo di trovare un altro significato: documentari di Discovery Channel o programmi televisivi come Il tenente Colombo, personaggi improbabili come strip-teaser, bodybuilder o amici di scuola, un film degli anni Settanta, brani e videoclip musicali. Anche la memoria dell’immagine è affetta da una sorta di amnesia, che ricorda a tratti eventi o personaggi allo stesso modo importanti o senza un’apparente importanza. Quando riaffiorano, se ne cerca il motivo senza trovarlo, cercando a tentoni un appiglio, un indizio di senso. Un tempo orizzontale che s’impone in un’epoca dove il “tempo tecnologico” schiaccia la nostra esperienza sul tempo reale, senza passato. In questa paura della perdita, l’essere si appiglia al presente nel tentativo di restarci dentro il più a lungo possibile, per non essere divorato dall’obsolescenza, da un tempo che potrebbe non ritornare più o perdere la memoria della sua ragione di esistere. Ma è una rincorsa senza speranza, un tentativo malinconico perché, di per sé, fallimentare. Nelle tue opere di reportage questo è molto evidente.
MG: I miei reportage fotografici sulle strutture sanitarie di Emergency descrivono il modo in cui mi affeziono a esse. Non sono rapace, non fotografo la sofferenza o la povertà. Cerco di fotografare invece la speranza e l’innocenza, che sono appunto due qualità della malinconia. Le mie foto migliori sono quelle che non ho mai scattato, per rispetto, per pudore, o per pigrizia. Perché trovo che nelle occasioni mancate, nei treni persi, negli attimi non colti, ci sia una bellezza inespressa, inerte e potenziale. Lascio ad altri la presunzione di credere il proprio lavoro destinato all’eternità. Io ho voluto implementare nel mio dei meccanismi che lo rendessero subito vecchio. I miei slideshow fotografici sono di volta in volta mostrati sui computer Apple di ultima generazione. Li adoro, ma li guardo diventare obsoleti come il mio desiderio di essi. Lascio che il loro tempo si porti via il mio tempo. Permetto a dinamiche industriali di condizionare l’aspetto del mio lavoro, come se fossi io stesso un prodotto, e il mio lavoro il prodotto di un prodotto.
BP: Nel tuo ultimo progetto di questo genere, con cui hai vinto il concorso “Maxxi 2×100” (indetto per il MAXXI di Roma), l’opera consiste nel devolvere il montepremi in denaro per la costruzione di un ospedale pediatrico di Emergency in Sudan. I reportage della sua costruzione prima e del suo funzionamento poi saranno proiettati su uno dei muri esterni dell’edificio. Una nuova architettura (il museo) genera un’altra architettura (l’ospedale) attraverso un processo artistico che ne mette in discussione la funzione e i valori sui quali si basa. Un cortocircuito virtuoso ed esplosivo. Potrei citare una frase da uno dei tuoi testi adesivi del 2003, You: “Il successo di un lavoro diventa il fallimento storico di ciò a cui si è creduto”.
MG: Ho appena trascorso un mese in Sierra Leone, nel centro chirurgico di Emergency a Goderich, un villaggio di pescatori non molto distante da Freetown. A volte c’era un vuoto innaturale laddove avrebbe dovuto esserci una mano o un piede. Talvolta i bambini bevevano la soda caustica e occorreva una dilatazione endoscopica dell’esofago ustionato. Poi ne occorreva un’altra. Poi ancora un’altra. Dopo un mese un’altra. E anche il mese dopo. E quello successivo. Spesso intendo l’arte come un modo per parlare della “non-arte”, dimenticandomi quali siano i suoi confini; ricercando quella legittimazione che il mio ruolo di artista temo non abbia.