Nella metà degli anni Novanta la fotografia, che si stava evolvendo verso la globalizzazione, testimoniava le inquietudini della generazione Sex & Drugs & Rock & Roll di Nan Goldin, o l’analitica asetticità degli spazi privi della presenza umana di Andreas Gursky, o i poetici e diafani bianchi e neri dei desolati e romantici mari del mondo ritratti da Hiroshi Sugimoto. I fenomeni del costume registravano un lifestyle minimalista, quasi un’omologazione globale attraverso un costume/uniforme che con rigore cancellava gli eccessi della decade precedente: esemplare, nella moda, il marchio Prada, che colonizza il mondo intellettuale o anche Helmut Lang che è tra i primi ad avvalersi di collaborazioni artistiche per promuovere il suo visionario mondo fatto di colori saturi e tagli netti. Nell’architettura, si impone il loft come soluzione abitativa innovativa e così cinematograficamente newyorkese. Ed è in quel preciso momento che Massimo Vitali realizza le sue prime fotografie. Scatti di bagnanti al mare ritratti in un momento di ritualità collettiva, una ritualità ereditata da quello stile di vita post-bellico dove il costume italiano si avvia a un’evoluzione “moderna”, che ci accomuna ad altre etnie, nel momento del bagno di sole e di mare. Una ritualità millenaria che unisce tutto il bacino mediterraneo nell’atto del contatto fisico tra l’uomo e il mare. L’effetto sorprendente e magnetico di questi scatti di un’estate — prima italiana (da Marina di Pietrasanta a Rimini, passando per Rosignano Solvay e Bari), poi, nell’evolversi della ricerca e della stagionalità, spostatasi verso altri luoghi di villeggiatura e divertimento (Miami, Knokke, Coney Island) — è indubbiamente la possibilità che Vitali ci offre nel potersi fermare e voyeuristicamente osservare la moltitudine di pubblico ritratta. Una massa brulicante che con indifferenza vive il rito della spiaggia come se l’osservatore non fosse presente, ma che invece ha ora la possibilità di osservare ogni movimento, atteggiamento e posa.
Michele Chiossi: Massimo, ho avuto l’occasione di assistere alla preparazione di un tuo stage, chiamiamolo site-specific, dove ho scoperto il tuo “punto di vista del principe”, quel privilegiato punto di osservazione caro a Sebastiano Serlio che hai felicemente intuito e che è divenuto un tuo trade-mark. Vogliamo parlare della struttura che hai ideato per raggiungere l’altezza aerea dove ti apposti e che rende le tue visioni così riconoscibili?
Massimo Vitali: Nel ’94, quando ho cominciato in maniera assolutamente fortuita la serie “spiagge”, ho costruito con l’amico (scultore e videoartista) David Smithson la versione 1.0. L’altezza era più o meno quella, la stabilità lasciava un po’ a desiderare ma l’impostazione era corretta e i profili di alluminio provenienti da tende per bar erano facilmente reperibili in Versilia. Era un cavallettone con una piccolissima piattaforma a cui appoggiavo una scala. Sfortunatamente in una delle famose sessioni a Rosignano un gruppo di ragazzacci se ne partiva con la scala lasciandomi appollaiato per parecchio tempo in cima. Per fortuna il mio fedele scudiero Giovanni Romboni si metteva a caccia e, con blandizie e minacce, riusciva a recuperarmi la via di discesa. Qualche anno dopo sono passato alla versione 2.0, con tubi in carbonio super rigidi, scala incorporata e non asportabile, tiranti a strozzo uso nautico. Naturalmente il problema era di dare uno statement e di conquistarsi una riconoscibilità che difficilmente avrei potuto avere con altri mezzi. Ora posso anche trovare altri punti di vista compatibili con il mio lavoro ma non assolutamente legati al mio cavalletto. Tra l’altro, essendo oggi più difficile fotografare (per via dei permessi) in generale, devo anche cominciare a progettare una piattaforma a norma, cosa che intendo fare per la prossima stagione. Normalmente questa è la lista che viene richiesta oltre a varie domande in bollo, mappa catastale del luogo con segnato precisamente il sito in cui intendo fotografare. Documenti comprovanti la costruzione a norma europea del cavalletto, segnaletica per allontanare i possibili bagnanti per circa dieci metri attorno al luogo. A volte le capitanerie aggiungono che la possibilità di fotografare non include l’approvazione da parte delle stesse di un atto che a loro parere va contro le regole della maledetta privacy… ma lasciamo perdere. Comunque in 15 anni di lavoro nessuno ha protestato, anche se ci sono stati alcuni che si sono riconosciuti nelle foto. Probabilmente il distacco, il non coinvolgimento e l’oggettività, che sono il fondamento del mio lavoro, mi hanno tenuto lontano dai guai.
MC: L’effetto a volo d’uccello che le tue fotografie posseggono rende gli scatti analitici e quasi sociologici. Un osservatore silenzioso, quasi invisibile, che il pubblico sembra accettare e che ti permette di registrare indisturbato tranches de vie delle masse nei momenti di divertimento e svago. Come organizzi i tuoi scatti?
MV: L’organizzazione comincia con il luogo, che viene trovato attraverso amici, foto reperite su Internet, ricognizioni personali o via Google Maps. Normalmente quando si trovano alcune situazioni interessanti in una zona si organizza un viaggio e si cerca di approfondire la ricerca nel territorio circostante. Trovato il luogo si deve cercare il punto in cui posizionarsi per essere esattamente silenziosi e invisibili, poi bisogna aspettare. Ma quando dico aspettare non mi riferisco all’attesa dei fotografi del “momento decisivo”. Nella vita di tutti i giorni tutti i momenti sono decisivi e al momento stesso privi di spettacolarità. Aspettare significa riempire gli spazi, mettere in contatto gli occhi, creare dei cortocircuiti, ordinare i colori.
MC: Trovo interessante la qualità della luce nelle tue fotografie, ricorda la pittura fiamminga. Pittura che spesso rappresentava nature morte con valenze simboliche della società dell’epoca. Credi che il tuo lavoro abbia una valenza di memoria storica?
MV: E qui arriviamo al punto. Alcuni miei detrattori mi dicono: “Ma fai sempre le spiagge, non ti sembra ora di cambiare?”. Ma io sto cambiando, cambio sempre ogni foto, che è sottilmente diversa ma sottilmente uguale. Il flusso mi sta portando proprio alla pittura di paesaggio che si confronta con la nostra vita. Cosa rimane di una natura trasformata e immutabile in cui trovano il loro habitat naturale colonie di mammiferi abitanti delle coste. O forse anime che purgano nel mare i loro peccati.
MC: Daniel Soutif, nel catalogo monografico pubblicato per la tua mostra al Museo Pecci, cita Roland Barthes da La camera chiara, in cui si definisce la fotografia come qualcosa che “è stato”, come “una prova” del reale, formulando la tesi secondo la quale la foto ritoccata è invece la negazione stessa della sua natura spontanea. Lavori in post produzione per ottenere un risultato così ricco di dettagli cromatici, luminosi e spaziali?
MV: Purtroppo le mie foto sono fatte all’antica: negativo, sviluppo, provino, stampa a colori da ingranditore ottico. Un processo in via di estinzione di cui non sono per nulla fiero. Voglio dire, vorrei essere più “up to date”, ma vorrei ottenere gli stessi risultati, la stessa qualità a cui sono abituato e alla quale sono abituati i miei collezionisti. Con il sistema digitale la fotografia, come sostiene a ragione Soutif, è una forma d’arte acheropita, cioè non fatta dall’uomo. Per questo è così importante la capacità tecnica dell’uso della macchina e la macchina stessa e i suoi obiettivi.
MC: È indubbia la matrice italiana legata alla ricerca di un “paesaggio umano” che ricorda Luigi Ghirri, un aspetto documentaristico che possiede una romantica valenza della foto souvenir: dalle spiagge alle piste sciistiche, dalle località turistiche alle discoteche. Come scegli i tuoi luoghi d’elezione?
MV: La fotografia è sempre ispirata a un’ altra fotografia e sono felice che tu accosti il mio stile a Ghirri, così come potresti accostarla alla scuola di Düsseldorf. A mio parere la parte più personale del mio stile è derivata dalla scelta delle spiagge come zona di lavoro. Quando cominciai, mi ricordo che solo Weegee e Joel Meyerowitz avevano veramente lavorato sulle coste. Gli altri lasciavano le spiagge ai fotografi da spiaggia appunto, e alle cartoline (altra mia fonte di ispirazione).
MC: Pierre Bourdieu in Un art moyen. Essai sur les usages sociaux de la photographie parla di “luoghi medi” che potrebbero riferirsi alle location da te utilizzate, in rapporto a quell’“art moyen” che però tu riesci a superare grazie al particolare punto di vista che ti distacca dal semplice scatto amatoriale: una grande spontaneità ottenuta tenacemente con una forte metodologia organizzata. Vuoi parlarmi della grande architettura “vitaliana” per creare il tuo “luogo medio”?
MS: Il mio luogo medio è ottenuto a costo di innumerevoli sacrifici. Col sacrificio della geograficità dei luoghi, con lo sfuggire assolutamente a gruppi di beachgoers strani o devianti o troppo nudi o troppo folklorici. Ma quando la prima domanda che ti fanno è “ma dove è?”, forse capisci che il multi-layer di informazione delle mie foto spesso si arresta all’inizio.