Uno stretto legame tra tradizione, architettura e memoria collettiva costruisce la ricerca di Matilde Cassani (Domodossola, 1980; vive a Milano). Nella seguente intervista condotta da Claudio Piscopo è presentata la visione dell’artista sulla città contemporanea, uno spazio in cui si interfacciano diverse comunità. Come ad esempio in Tutto (2018), opera presentata a Manifesta 12 Palermo che è divenuta occasione per descrivere la natura stratificata del capoluogo siciliano, incoraggiando una lettura degli aspetti culturali.
Mi sembra evidente che la tua intera produzione artistica rifletta il rapporto tra uomo e architettura, analizzandone tanto le implicazioni spazio-culturali quanto la performatività che ne deriva. Mi piacerebbe iniziare la conversazione chiedendoti di introdurre brevemente questi concetti e come s’inseriscono all’interno delle tue opere.
Matilde Cassani: La costruzione della città ha delineato una serie di modelli spaziali definiti che la teoria dell’architettura nomina, descrive e critica, in tutte le configurazioni esistenti. Da un lato la risposta spaziale alle necessità produce una serie di soluzioni consolidate, che rispondono ad altrettanto consolidate aspettative sociali; dall’altro la società adatta continuamente gli spazi esistenti a nuovi bisogni con installazioni temporanee che modificano e alterano lo spazio vissuto. Il dialogo continuo tra due modi di descrivere l’ambiente costruito è alla base di una serie di mie ricerche sul rapporto tra lo spazio urbano, le necessità umane e la città esistente.
Ho studiato architettura e l’istinto di modificare lo spazio è sempre molto forte. Ho però tentato di ribaltare il mio ruolo, aspettando che fosse l’uomo a disegnarlo o almeno a completarlo, accorgendomi che spesso la performatività stessa crea lo spazio, anticipando l’architettura. Mi sono concentrata sull’osservazione di luoghi che cambiano in funzione nel tempo, che ospitano un evento, una celebrazione o processi più duraturi.
Il tuo primo lavoro Spiritual Devices (2010) individua una modalità alternativa per la fruizione dei luoghi di culto; il dispositivo spirituale che concepisci non è altro che una scatola trasportabile contenente oggetti utili alla preghiera. Possiamo pensarla come una forma di “dematerializzazione” culturale contemporanea?
Il lavoro è nato da una ricerca che avevo fatto sui luoghi di culto improvvisati in alcune città europee. Ho fotografato magazzini, negozi e palestre trasformati in luoghi di preghiera.
Ero interessata a capire il processo di sacralizzazione, di trasformazione di un luogo “profano” in uno sacro. Cercavo di delinearne la funzione attraverso gli spazi che guardavo. Mi sono accorta che questi luoghi erano principalmente caratterizzati dalla giustapposizione di una serie di oggetti nello spazio: oggetti di uso comune che diventavano strumenti di preghiera nel momento in cui venivano posizionati al loro interno. Gli “spiritual devices” sono quindi la rappresentazione di questo pensiero. Lo spazio sacro è dato dalla perfomatività dell’atto e non dalla monumentalità del luogo, mentre gli oggetti di uso comune sono resi sacri dall’occasione in cui sono inseriti.
Ritieni che l’architettura sia complementare alla funzione religiosa? Quanto l’emergere di nuove minoranze comunitarie ne codifica il ruolo sociale?
Questi luoghi hanno una funzione anche molto più ampia: sono luoghi d’incontro, negozi, centri conferenze, scuole di lingua, spesso tutto concentrato in una stanza sola. Sono quindi molto importanti per le comunità perché ne rappresentano l’identità. Molti di questi non sono semplicemente accomunati da una fede religiosa ma appartengono a un paese specifico (esistono moschee solo del Bangladesh o del Marocco) – come se fossero delle piccole ambasciate. Per questo motivo sono luoghi ancora più interessanti. Contengono tutto ciò che manca in un determinato contesto in maniera condensata. La mia ricerca si è poi allargata ad altri fenomeni urbani legati alla diversità culturale come le celebrazioni importate da altri paesi che, nel passaggio da uno stato a un altro, cambiano la forma e i contenuti del rituale.
Già dai tuoi primi lavori imposti una contaminazione tra arte e design.
La mia ricerca parte sempre dagli stessi presupposti, che si tratti di una mostra, un progetto che esaudisca una funzione precisa o che mi sia stato commissionato. Credo che il legame stia nella dimensione del mio intervento, che da una riflessione molto ampia sulla città si riduce a un risultato di piccole dimensioni: un’installazione, un oggetto, a volte anche soltanto una fotografia.
Per esempio, in occasione della mostra “FOOD” per il MAXXI di Roma nel 2013 hai ridisegnato la scenografia per il rituale giapponese del tè: una scatola che all’occorrenza si apre e diventa una quinta teatrale. Dal punto di vista formale possiamo considerarlo l’evoluzione di Spiritual Devices, ma ciò che emerge di nuovo è la trasformazione di un rituale solitamente è intimo e privato in qualcosa di performativo e pubblico.
La richiesta del curatore Pippo Ciorra era quella di ricreare una stanza per la cerimonia del tè giapponese. Dopo un’iniziale ricerca e alcuni colloqui con Michiko, maestra di cerimonia del tè, ho capito che per ricreare la stanza avrei avuto bisogno anche di un contesto naturale: il paesaggio che normalmente si scorge dalle finestre della sala. Per riproporla in un museo ho quindi deciso di disegnare solo uno sfondo. La scatola di legno e plexiglas si apre completamente diventando una quinta; il rituale stesso, insieme al riflesso delle persone sullo schermo e al paesaggio sfocato della mostra alle spalle, rimanda ai luoghi originari.
Nel 2012 hai partecipato alla 13a Biennale di Architettura con Background Bahrain. L’installazione evoca un immaginario collettivo di paesaggi solitari e ha una duplice chiave di lettura. Da un lato sottolinea una forte componente temporale, dall’altro invita a riflettere sul modo in cui i media configurano un immaginario collettivo.
Il lavoro del Bahrein, fatto con Francesco Librizzi e Stefano Tropea e curato da Noura Al-Sayeh è proprio un lavoro sul tempo e sull’impatto che i media hanno nella nostra quotidianità. Il padiglione era vuoto e quattro grandi pannelli a forma di arco coprivano la dimensione esatta delle finestre veneziane, sovrapponendo un nuovo orizzonte, quello di Manama, capitale del Bahrain. Sui pannelli apparivano delle immagini che in realtà evocavano uno scenario collettivo di luoghi remoti costruiti attraverso le rappresentazioni mediatiche della città. Il titolo “Background” si riferiva al fatto che una persona, non avendo mai visitato un luogo, è in grado di ricreare un’immagine statica costruita unendo i fotogrammi generalmente proiettati durante il telegiornale, alle spalle del giornalista. Il consumo di immagini mediatiche diventa in questo modo un’esperienza collettiva condivisa nello spazio dell’Arsenale. Le proiezioni in tempo reale mettevano in mostra il passare del tempo, simultaneamente a Venezia e a Manama; le immagini consistevano in un’inquadratura fissa che mostrava solo l’alzarsi e l’abbassarsi della marea, il vento, i passanti occasionali.
Estremamente significativo è Countryside Worship (2013) ideato per Monditalia alla 14a Biennale di Architettura. L’opera rivela come la comunità indiana Sikh sia sempre più diffusa nella zona della Pianura Padana e come sia di grande impatto per la produzione agricola italiana. Oltre all’importante contributo nel descrivere l’iter burocratico dietro la costruzione dei luoghi di culto in Italia, l’installazione mette in luce la presenza di culture diverse e allo stesso tempo ne evoca la loro assenza. Quanto è stato utile il dialogo con la comunità locale e in che modo si è tradotto il materiale raccolto nella fase progettuale?
Questo lavoro è per me molto importante perché parla di un’Italia in cambiamento non all’interno delle città ma nelle campagne.
L’installazione ha diversi livelli di lettura ed è suddivisa in tre parti: una grande stampa lenticolare, un libro che contiene le foto del Vaisakhi (una delle feste più significative per la comunità Sikh), una mensola che raccoglie materiali inerenti alla costruzione di luoghi di culto per le minoranze in Italia.
La stampa lenticolare mostra, attraverso la sovrapposizione di due immagini, il cambiamento radicale (non visibile nella quotidianità dello spazio urbano) prima e durante la celebrazione. Le due fotografie sono state scattate a venti minuti di distanza, prima e dopo la festa. I Sikh appaiono e scompaiono per sottolineare come il passaggio della processione nella piazza principale sveli in pochi minuti il cambiamento radicale avvenuto in tutta la Pianura Padana.
Il lavoro con le comunità è stato importante soprattutto per scoprire che in realtà Novellara è solo uno degli innumerevoli casi in cui comunità straniere appartengono al territorio agricolo italiano.
Mi è stata d’aiuto anche la municipalità che mi ha suggerito di partecipare alla festa del Vaisakhi.
Prima di parlare di Manifesta 12 mi piacerebbe spiegassi l’idea che è alla base della tua recente mostra “It’s not just a cricket”, progetto di fine residenza per l’ar/ge kunst di Bolzano e il Künstlerhaus Büchsenhausen di Innsbruck.
Due anni fa Emanuele Guidi mi ha invitato per una residenza ad ar/ge kunst chiedendomi di lavorare sul territorio che lega Bolzano ad Innsbruck, sede dell’altra istituzione partner, il Künstlerhaus Büchsenhausen diretto da Andrei Siclodi.
L’idea iniziale era quella di attraversare il confine e dunque ho iniziato da Brennero, paese fantasma per anni. Dopo Schenghen infatti l’economia legata agli scambi di frontiera è entrata in crisi e il paese si è svuotato lasciando numerose case vuote. Solo recentemente è stato ripopolato da stranieri, tra cui Saad Kahn, pakistano che vive a Brennero da diversi anni. Dopo un invito a vedere la partita di cricket in cui giocava il fratello, ho immediatamente capito che per raccontare questo territorio così complesso poteva essere utile approfondire un’unica tematica: il cricket, appunto.
“It’s not just a crcket” espone solo materiale sportivo trovato o prodotto in queste zone ed è sostanzialmente divisa in due parti, molto diverse tra loro. La prima stanza ospita una partita interrotta dove tutti gli strumenti del gioco sono legati a delle corde in grado di registrare i movimenti fatti dagli oggetti durante il loro ultimo utilizzo (le mazze concorrenti sono state rispettivamente prodotte da falegnami del Nord e del Sud Tirolo con essenze locali). La seconda stanza è concepita come un ipotetico cricket club e contiene la collezione privata di mazze e palline di un giocatore di Laives. Tutti questi oggetti parlano della storia del cricket, che nasce in Inghilterra, si diffonde nelle colonie e torna in Europa con una veste nuova e nuove regole.
Nel tuo ultimo lavoro, ideato e realizzato per Manifesta 12 Palermo, riveli la complessità e l’unicità di un luogo come la Sicilia fortemente connotato da una compresenza di influenze culturali. In che modo Tutto interpreta questa sintesi?
Tutto rielabora le tradizioni del barocco siciliano per rivelare la complessità delle influenze culturali che convivono nel capoluogo siciliano. Uno spettacolo pirotecnico diurno, specificatamente pensato per i Quattro Canti di Palermo, fa esplodere in aria una serie di foglietti di carta colorata.
Dopo lo scoppio i pezzetti di carta si depositano lentamente sulle teste degli spettatori, le facciate
degli edifici della piazza, concludendo la loro caduta per terra. I drappi sono ricamati con figure di
santi, all’apparenza cristiani, che portano simboli nuovi non più riconducibili a una sola tradizione religiosa. Il lavoro prende spunto da un fenomeno sincretico unicamente palermitano: la partecipazione della comunità induista Tamil ai rituali legati a Santa Rosalia, patrona della città. Il progetto prende spunto da tradizionali eventi legati alla cultura del barocco siciliano e coinvolge i cittadini suggerendo l’introduzione di un nuovo giorno di festa. Tutto sottolinea come l’idea della celebrazione diventi strumento per descrivere un complesso sistema di realtà politiche, sociali e culturali in divenire.
Perché Tutto?
Tutto perché mescola la tradizione popolare, il nuovo e il vecchio. Parla di un caso specifico per mettere in luce il resto.
Lavorando sulla costruzione di un momento relazionale, quanto è importante in questo periodo storico la creazione di una memoria collettiva? Cosa resta oggi di quel momento performativo?
La memoria collettiva, come insegna Maurice Halbwachs, si rinnova continuamente. Ecco, la mia attenzione si concentra sull’attualizzazione continua di usi e costumi, di tradizioni tradotte.
Una fotografia dell’evento è esposta a Palazzo Costantino, a testimonianza della celebrazione avvenuta, tentando di rendere Tutto il simbolo di una memoria collettiva. I drappi appesi il giorno dell’evento rimangono sulle facciate dei palazzi fino alla fine di Manifesta 12, a invecchiare al sole.