Paolo Vagheggi: Sei nato a poche ore dall’entrata in guerra dell’Italia e i tuoi primi anni di vita sono stati segnati dal fattore bellico. Ne hai inconsciamente risentito? Il tuo modo di fare arte ha colto questa tragedia, c’è stato un trauma?
Maurizio Mochetti: Non vorrei parlare di trauma. Non ci fu. Ho un ricordo della guerra molto strano, molto poco traumatico e drammatico, non perché stavo fuori Roma. Ho sentito il bombardamento di San Lorenzo, ero a due passi e non ho dimenticato le continue sortite di notte per andare nei rifugi, il rumore delle bombe, il periodo post bellico con gli ordigni che ogni tanto facevano strage di ragazzini… L’ho vissuta la guerra ma, ripeto, apparentemente non ho un ricordo traumatico. Sono nato dieci ore prima del discorso di Mussolini, esattamente dieci ore prima della dichiarazione di guerra: ho visto la luce tra il 9 giugno e il 10 giugno del 1940, il giorno in cui quel signore ha annunciato: “L’Italia è in guerra!”. Sono nato con la guerra dunque, e anche se non ho avuto traumi questo indubbiamente ha influenzato tutta la mia vita, ma ho cercato di dargli un senso diverso. Ecco il mio interesse per gli aerei che porto da un uso bellico a un uso, non dico ludico, ma quasi. Li smitizzo, levo loro il valore originale di distruzione facendoli diventare costruzione.
PV: È una questione che hai studiato a fondo anche da un punto di vista progettuale tanto che sei uno dei pochi a sapere cos’è e ad applicare il metodo gestaltico.
MM: I nazisti quando hanno costruito il Natter, o altri aerei militari, hanno adottato la pittura gestaltica. In realtà è un tipo di camouflage; ci sono camouflage di vario ordine, uno è naturalistico: si maschera l’oggetto basandosi su particolari del terreno, se è neve si usano macchie bianche, se è prato si utilizza il verde… Il gestaltico si basa su tutto un altro principio: quello di rompere la forma. L’aereo è una croce, se io dall’alto passo con un altro aereo e vedo un triangolo, ci passo sopra, escludo che possa trattarsi di un aereo. E se questo triangolo lo faccio rosso, visibile, creo cioè l’opposto dell’idea naturalistica, diventa invisibile… Rompere la forma, è praticamente quello che ha fatto il cubismo.
PV: Questa idea della rottura della forma l’hai maturata dopo gli studi, dopo l’Accademia…
MM: No, onestamente l’Accademia non mi è servita, era solo una disciplina pesante e ferrea su una strada che non mi interessava. Ho avuto come maestri Franco Gentilini e Luigi Montanarini. Ma non ho seguito la loro scuola. Ho avuto sempre interessi diversi, interessi del tipo di cui abbiamo parlato, prescindendo dagli studi, e forse a causa della guerra… i miei studi hanno influenzato pochissimo la mia vita artistica.
PV: Quand’è che hai sentito dentro di te l’artista? C’è stato un momento preciso?
MM: Anche in questo caso ho un ricordo precisissimo. Mio padre era un bravo disegnatore, forse avrebbe voluto fare il pittore, ma è diventato cassiere di banca, poi c’è stata la guerra. Ma ha sempre alimentato la mia parte artistica, probabilmente proiettando su di me le sue aspirazioni. Non pretendeva che diventassi un artista. Nessun genitore lo vuole. Magari sognava che diventassi architetto, o qualcosa del genere. Un giorno però mi ha detto: “ti porto a vedere una mostra”. Avevo 13 anni esatti, era il 1953. Cominciò a parlarmi di questa esposizione dedicata a Picasso che si teneva a Valle Giulia, presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Era una mostra fantastica, c’era veramente tutto Picasso, dalla scultura alla pittura.
Sono rimasto folgorato, eppure non ho ricevuto alcun influsso da Picasso. Al contempo però è stato come se mi avesse scavato dentro. Mi ha messo a nudo e da quel momento mi sono sentito artista. Sembra impossibile perché avevo 13 anni, ma grazie a Picasso avevo trovato dentro di me una strada ineluttabile… ormai non potevo più metterla in dubbio.
PV: A metà degli anni Sessanta c’è stata la tua prima mostra personale alla Galleria La Salita di Roma, dove esponevi i progetti delle tue opere…
MM: Ho esposto dieci progetti e due realizzazioni. Per me il progetto non era la gabbia grafica di un’idea ma un’opera autonoma. Presentarsi con dieci progetti e due realizzazioni fu, allora, una dichiarazione pesante. Oggi non so, ma a qual tempo non si dava così importanza al progetto.
PV: Come si inseriscono in questi progetti le tecnologie, spesso molto avanzate?
MM: Sono contrario alla distinzione fra arte e tecnologia, arte tecnologica e arte pittorica. L’arte è una sola. Lo strumento, compresa la tecnologia, non è un fine ma un mezzo. L’arte è stata sempre tecnologica: il martello e lo scalpello che usava Michelangelo erano il massimo della tecnologia del tempo. Ma era già accaduto con gli Egizi, gli Assiri… la tecnologia è stata sempre uno strumento per realizzare forme e idee nuove. Lo scollamento tra arte e tecnologia non l’ho mai vissuto. È inevitabile usare la tecnologia odierna, altrimenti sarei un nostalgico.
PV: E insieme a questo l’idea della velocità, e quindi l’aereo, la Ferrari… Che cos’è per te la velocità?
MM: Prima di tutto sono contrario alla competizione. L’accetto soltanto quando si tratta di competere con se stessi, ovvero tirare fuori il massimo. Misurarsi e vedere il proprio limite, si chiama record. Ecco ciò che mi interessa: il record. La velocità era ed è nel record, non nella competizione. Una corsa di Formula 1 non mostra realmente quello che può fare una Ferrari, ma metti quest’ultima su un rettilineo e vediamo qual è il massimo. Si tratta, ripeto, di una gara con te stesso o con le tue capacità meccaniche intrinseche. Per cui la velocità per me diventa, in quel caso, una stasi. Uso cose veloci per farle apparire ferme, sovrappongo stasi e velocità nello stesso momento. È come la corsa della tartaruga o la freccia. Per me la freccia è il prolungamento di se stessi, è come avere un dito talmente lungo da toccare l’obiettivo; è uno strumento per annullare lo spazio fra se stessi e l’oggetto.
PV: Altro elemento presente nei tuoi lavori: il foro. Cosa rappresenta?
MM: Il foro è il passaggio da una dimensione a un’altra… è Fontana: si va da una dimensione conosciuta a una sconosciuta, quella che sta dietro. Ed è questo il senso di Fontana Fontana (1987) quale omaggio a un artista che reputo un mio maestro. Ho proseguito sulla sua strada: lui ha preso un’istituzione, il quadro, e l’ha rotta, ha realizzato il taglio, mentre io sono andato a vedere cosa c’era dietro, dall’altra parte. Fontana ha aperto una porta e io ci sono entrato.
PV: Hai varcato questa soglia da molti anni ormai…
MM: Porto avanti le mie storie, le mie ossessioni: l’aereo, lo spazio, il tempo, le relazioni… le porto avanti parallelamente. Un periodo mi dedico a una e poi curo l’altra. In maniera ineluttabile, perché secondo me siamo mossi solo dalle ossessioni. Se osservi l’intero corpus delle mie opere riesci a capire che non c’è incoerenza, sono i miei temi. Al contempo devo dire che mi sento un artista provinciale. Perché? Ormai viviamo in uno spazio che non è più solo quello terrestre. Certo, continuiamo a cercare i prodotti di un certo tipo, andiamo a caccia del pomodorino vero. Ma non c’è più e non ci sarà più. Il futuro già è segnato, il presente è segnato: questa terra madre non è più la nostra madre. Noi l’abbiamo combattuta e l’abbiamo dovuta distruggere per sopravvivere. Abbiamo allargato il nostro orizzonte: ora arriviamo su Plutone, su Urano… È questo il nostro spazio e mi sento quindi, in questo senso, un artista provinciale: rispondo a delle leggi terrestri che sono la gravità, la matematica, l’aritmetica, la geometria euclidea, Pitagora… rispondo a delle leggi che in realtà non mi appartengono più perché sono in una dimensione spaziale più relativistica. Già, la relatività, una teoria che è nata un secolo fa. Ma ti ha mai dato qualcosa nella tua vita la relatività? No, non ha cambiato nulla. E questo è sconcertante, perché avremmo dovuto farla diventare una questione pratica nella nostra vita, nel nostro modo di amare, di relazionarci. In questo senso siamo indietro da impazzire, come uomini contemporanei…
PV: Insomma la teoria ha superato la realtà. Non viaggia parallela…
MM: Mentre è sempre stata parallela. Il divisionismo, per dirne una, o il puntinismo, ha avuto origine per via della rappresentazione grafica degli atomi. Tutta la psicanalisi mitteleuropea, a cominciare da Freud, ha modificato la pittura, il Surrealismo. Teoria e realtà hanno sempre viaggiato contemporaneamente. Oggi non sembra così…
Tendo la mia ricerca verso l’uomo contemporaneo: io non sono altro che un uomo contemporaneo.