Apprestandoci a parlare di un artista che ha spaziato per quarant’anni per mezza Europa e ha perseguito una linea di lavoro sul linguaggio i cui segmenti si sono disseminati a scala planetaria, da quale angolo visuale e da quale fronte aprire il discorso? Forse si potrebbe partire dal di fuori e dall’oggi: in effetti il nome di Maurizio Nannucci si rinfresca non di rado sulle labbra appena si soffermi l’attenzione su qualche particolare aspetto del contemporaneo che ci scorre davanti agli occhi. Nel clima di tolleranza citazionistica e anzi di appropriazionismo depenalizzato in cui si dibatte l’attuale “tradizione del nuovo”, i neon dell’artista toscano hanno fatto scuola e tendenza, sono diventati moneta corrente e patrimonio comune: guardando a certe scritte al neon realizzate da protagonisti dell’attuale scena artistica come Cerith Wyn Evans, Martin Creed o Pierre Huyghe, non cessiamo di meravigliarci di quanto i suoi lavori possano aver permeato l’immaginario delle ultime due generazioni di artisti.
Quando, nel 1967, Nannucci mise mano ai primi lavori con il neon, aveva dietro di sé, come esponente della poesia concreta, un’attività di indagine sugli elementi tautologici del linguaggio che lo teneva in linea con le più avanzate ricerche concettuali e linguistiche di quegli anni: in particolare con quelle portate avanti da artisti di cui condivideva strumenti teorici e innovazioni tecniche, in primis Bruce Nauman e Joseph Kosuth. Saranno anni ricchi di consonanze e telepatie, in una gara a giocare d’anticipo e di sponda, ma in cui, pur nell’entusiasmo per lo stesso medium, il neon, assurto quasi a quintessenza della comunicabilità visiva, ciascuno troverà i suoi propri stilemi.
Se vogliamo cercare un antecedente storico all’impostazione mentale di Nannucci bisogna risalire piuttosto al clima di quel futurismo “marconiano”, tutto pervaso da onde ed energie, lungo tutta la parabola che va dalla Propaganda Luminosa di Antonio Sant’Elia fino alle ultime scintille, quando ancora, in piena Seconda Guerra Mondiale, si ribadivano le possibilità illimitate di espansione e significazione della scrittura nello spazio, vaticinando, nell’ultimo manifesto, “urbanismi futuristici i cui avvisi luminosi marcianti in alto sospingono il lettore verso altre piazze-pagine”.
Appunto, piazze-pagine: teniamo a mente quest’espressione perché in essa è prefigurata la dialettica percettiva che contraddistingue tutta l’opera di Nannucci.
Attività editoriali, realizzazioni discografiche, iniziative mediatiche, attività espositiva non profit (prima con Zona e ora con Base), collaborazioni con i maggiori architetti contemporanei, installazioni in edifici-simbolo della vita politica e culturale d’Europa: la pratica artistica è per Nannucci una comunicazione senza frontiere, come una continua emissione di corrente, perché, come dice un suo lavoro del 1977, prima ancora dell’opera occorre “creare l’artista creativo”, e l’arte si confronta con la vita in un irrefrenabile gioco delle parti. Lo spazio si popola di archivi, scatole, raccoglitori, scaffali: più che oggetti d’arte, testimonianze di esistenze vissute a contatto con l’arte. E questo collezionare reperti legati all’attività artistica non fa già parte di un progetto in cui arte e vita scorrono e si mescolano in un rapporto indissolubile? Il collezionismo sembra anzi porsi come feedback di qualcos’altro, sembra implicare un’azione di ritorno, è il risvolto della dispersione e della dissipazione, è come il raccolto propiziato dal potlatch delle civiltà precolombiane. C’è una componente quasi sacrificale, in questo spedire migliaia di lettere, cartoline e piccoli oggetti, come messaggi in una bottiglia, parole perdute in un mare di accidenti, deriva di segni ma anche attrazione di altri segni… E in questo incessante accumulare e disperdere ecco materiali da archiviare, documentazioni sonore, registrazioni di voci, catalogazioni degli umori della gente, nastri incisi, borse di carta da affidare ad amici viaggiatori per essere usate come banners da irraggiare in rotte transcontinentali; insomma tracce ed energie disperse nello spazio quasi a segnare, da parte dell’artista, una sua personale e ramificata via dei canti, un tracciato magico di note e parole come quello che ci ha fatto conoscere Bruce Chatwin. Il messaggio destinato a una dispersione quasi istantanea si poteva già trovare del resto nei tentativi di Scrivere sull’acqua (1973), dove la scrittura vive, in quanto segnale, poche frazioni di secondo in più del tempo necessario a trasmettersi dalla mente alla mano. O come in Star, scrivendo camminando (sempre del 1973): intuendo che anche il camminare possa essere un atto linguistico, prima che Michel de Certeau avanzi ne L’invenzione del quotidiano l’idea del tragitto pedonale come enunciazione di una sorta di lingua cittadina, Nannucci compie il proprio percorso non per riappropriarsi dello spazio ma anzi per renderlo vacante, uniforme e muto come un’acqua increspata da una scia di passi.
Anche i neon, che, come abbiamo già accennato, sono la cifra più nota e vulgata dell’artista toscano, devono essere considerati entro questa dimensione energetica e comunicativa in cui le parole si fondono con lo spazio, o si perdono e riemergono in quella che è stata definita “schiuma metropolitana”, nella ridondanza dei significati e nell’inflazione di messaggi. La forma tipografica dei caratteri obbedisce a una funzionalità spaziale, mentre le lettere si assestano, si orientano reciprocamente, si squadrano in un equilibrio di frazioni e di multipli, di assonometrie e concordanze. Si spazializzano, ma al contempo parlano. E insinuano dubbi.
La scrittura di Nannucci è sempre sull’orlo di cadere nel suo rovescio: il senso della frase può partire per la tangente, schivare sistematicamente l’univocità: “You Can Imagine the Opposite”, ci suggerisce Nannucci con una sua scritta (Lenbachhaus, Monaco, 1991), spingendo la nostra catena associativa in un vicolo cieco o in un gioco di specchi, ma anche oltre lo specchio, come ad esempio quando insinua: “Blending the Visible with the Invisible” (Frac Haute Normandie, Usine Fromage, Rouen, 1993), o “More than Meets the Eye”(Kunsthalle di Vienna, sempre del 1993). Non solo il mondo diventa libro, ma fa riferimento a un altrove oltre il limite dei nostri sguardi, a un vuoto che ci sta continuamente accanto e che non siamo in grado di riempire, o forse di vedere nella sua pienezza, perché, per chi creda di vedere quel che legge e di leggere quel che vede, la verità è che c’è sempre un’altra verità, magari sul filo di piccolissime differenze, l’oggetto della lettura sfugge all’infinito, e magari, come dice un lavoro realizzato nel 1969, “The Missing Poem Is the Poem”. Vuoto e pieno, presenza e assenza, dritto e rovescio si alternano in una continua vibrazione ossimorica, per lasciarci in una situazione di attesa e di sorpresa, di sospensione e di perplessità, come davanti alla grande installazione di quest’anno alla Triennale di Milano, And What About the Truth. E può anche accadere di incontrare la deriva babelica, l’intreccio caotico, il coacervo cromatico, come a Kassel in The Shadow of Light (1993): groviglio e ritorno all’informe, sovraccarico alfabetico che si traduce in uno smarrimento del senso, parole scivolate di riga, accatastate e accalcate, con i colori che rientrano gli uni negli altri quasi fosse possibile rifonderli nel bianco della luce naturale.
Ora c’è però da chiedersi, che cosa accade quando leggiamo quelle scritte, intendiamo quelle parole, ci perdiamo nelle associazioni mentali che esse ci suggeriscono? Come in quella Annunciazione di Beato Angelico dove le parole scambiate tra l’angelo e la Vergine e inscritte sulla superficie del dipinto mettono fuori-visione tutta la scena, la rendono pagina, spazio vacante, relegandola come in una parentesi imposta allo sguardo, così accade quando le linee luminose e colorate di Nannucci vengono percepite come lettere. Eppure, lavori come Red Line (1969), in cui la scrittura si autodesigna nella sua apparenza di fenomeno visivo, ci facevano già dubitare che essa non sia che un’avventura della linea, e che rimandi a una visione pre-alfabetica. Il neon è annuncio, constatazione, indicazione, ma anche segnale, apparizione, macchia luminosa nella notte, pura radianza colorata. Si riproduce cioè quella differenza tra spazio testuale e spazio figurale di cui parlava Jean-François Lyotard, dei quali solo il secondo implica una risonanza corporea.
Da una parte c’è una ricerca testuale e morfologica, un’indagine da enigmista, paradossi, frasi che attraccano l’una nell’altra, discorsi che rimorchiano se stessi, ma dall’altra le parole sembrano talvolta recalcitrare a un loro confinamento nel letterale: stirate fino a rallentare una compressione percettiva che possa cogliere i connotati di ciascuna lettera prima ancora del significato, come in Puro rosso puro blu puro giallo (1991), regredite a puri moduli geometrici, come il Sigillo di Salomone (1993), in cui c’è la ricerca di una simultaneità assiale del vocabolo schiacciato su se stesso, esse sembrano scivolare dallo spazio grafico allo spazio plastico, allo spazio fisico e corporeo del mondo.
Il mondo diventa libro, ma in modo divaricato: lo spazio si fa pagina e si opacizza nel momento in cui riflettiamo sul significato o calcoliamo la gittata semantica della scrittura, quando cioè leggiamo il discorso, ma si riattiva, si trasforma e rivive prismaticamente sull’onda degli sguardi quando ci riappropriamo delle insegne interpretandole come figura, come linea di luce serpeggiante. Ecco allora riaffacciarsi la doppia immagine che i futuristi, nel loro estremo messaggio, avevano profetizzato, la piazza-pagina. Sia che ci troviamo nella biblioteca del parlamento tedesco, o nell’auditorium di Renzo Piano, o ancora davanti al Museo Egizio di Berlino, luoghi teatro delle più recenti opere, siamo al contempo in piazza e in pagina. Proprio in questa oscillazione, in questo sentirci, noi figure dello spazio, noi attori del mondo, sia fuori che dentro questo mondo e questo spazio, in questa vibrazione del corpo che legge la sua assenza o contempla la sua presenza, consiste la presa e il fascino del discorso visivo e poetico di Maurizio Nannucci.