La bidimensione è uno dei limiti con i quali la pittura ha dovuto fare i conti, ma l’alfabeto di immagini e narrazioni che si è espresso per secoli entro quelle due coordinate ha superato di gran lunga le estensioni utilizzate dalla scultura.
Nelle arti visive a volte la matematica si rovescia e la terza dimensione sembra aver imposto limiti più angusti, così la scultura si è storicamente concentrata sul tema del corpo e della materia, mentre la pittura si è profusa su infiniti soggetti. Salvo rare eccezioni, si può dire non esista una scultura di paesaggio e di concetti come quello atmosferico, frequentati dalla pittura veneziana sin dall’inizio del XVI secolo, e restano sconosciuti al mondo delle arti plastiche almeno fino a Medardo Rosso.
L’istante degli affetti e una forma sfuggente, quasi macerata, si uniscono nella scultura del grande torinese, che solo uno schema riduttivo giunge a definire “impressionista”.
Oltre a un genio che si pose questioni di liquidità della materia, in qualche modo si dovette attendere la fotografia e lo sguardo che questa prestò alla stessa scultura. Le foto che Medardo Rosso realizzò nel proprio atelier sono una commovente testimonianza delle riflessioni in cui fu immerso per decenni. La sfocatura della visione fotografica applicata alle statue di cera permise al sentimentale artista di elevare alla potenza le morbidezze percettive della scultura.
Pur giungendo immediata e altissima l’empatia di quello stile plastico, la sua produzione fotografica rivela un pensiero forse ancora più innovativo e singolare, restituendoci l’intero processo di ruminazione del pensiero creativo.
Dunque un’altra arte a due dimensioni contribuì a superare i limiti della profondità e dei piani spaziali. La visione tattile delle sculture di Medardo Rosso è resa attraverso il languore della luce e grazie a una materia opalescente che nel mondo dei volumi corrisponde a quello che Eugène Carrière stava producendo in pittura.
Anche l’artista francese, amico sodale di Rodin, dovette giungere ai medesimi risultati estetici tramite le protesi sensoriali offerte dalla neonata tecnica fotografica, che poneva un filtro velato al visibile.
Molte foto, scattate alle sculture e stampate dallo stesso Medardo Rosso, hanno lo spirito di disegni preparatori, moderni strumenti di lavoro con riquadri vergati a matita e fissaggi imprecisi da sembrare acquerelli. Opere sopra le opere, che rivelano uno sguardo quanto mai intimo e attuale. Tra le stampe ce n’è una che ritrae l’autore intorno al 1906 in maniche di camicia, vicino a una catasta di legna, mentre guarda l’obiettivo. Tutto è a fuoco tranne il suo volto, mosso da un fremito che ne annebbia i lineamenti. Nell’immagine bidimensionale è lui stesso quella “forma instabile” che nel 2008 Paola Mola volle a titolo di una bellissima mostra allestita alla Collezione Guggenheim di Venezia.
Ma c’è anche qualcosa di simbolico che lega Medardo Rosso alla fotografia: accidentalmente feritosi con gli spigoli taglienti di un negativo vitreo, finì i suoi giorni per l’infezione trascurata, evoluta in setticemia.