Negli ultimi sei anni, un artista dal grande riconoscimento internazionale come Douglas Gordon ha avuto 22 mostre personali (dati artfacts.net). Jonathan Monk ne ha avute 25, Olafur Eliasson 32. Senza contare, naturalmente, le collettive: in dieci anni, Gordon ne ha fatte 200, Monk 160, Eliasson 184. E si tratta di stime per difetto. In un momento in cui le imprese modificano i propri modelli di organizzazione per portare negli ambienti di lavoro un clima più ludico e rilassato e per lasciare spazio all’espressività e alla creatività individuale, l’arte contemporanea, regno incontrastato del pensiero creativo e di tutte le sue complesse e sfuggenti modalità di manifestazione, sembra al contrario muoversi verso il modello tayloristico della catena di montaggio, in una lotta perpetua con le scadenze pressanti di una programmazione artistica sempre più fitta e geograficamente pervasiva. È vero che molti degli artisti di maggior successo — e soprattutto quelli il cui lavoro richiede processi produttivi che coinvolgono un alto numero di competenze interdisciplinari — dispongono ormai di squadre di collaboratori organizzate come piccole o persino medio-piccole imprese, ma bisogna comunque riconoscere che ritmi e modalità di lavoro come questi non possono non sollevare qualche interrogativo.
Che cosa spinge questi artisti a lavorare tanto, correndo il rischio di bruciare in questo attivismo frenetico la propria capacità e disponibilità a dedicare il tempo e le energie necessarie all’ideazione e allo sviluppo di nuovi progetti profondi e originali? La risposta è semplice: una quantità esorbitante di richieste provenienti da spazi di tutti i tipi: musei, gallerie, fondazioni, fiere, collezioni private, case editrici, ma anche — e sempre più — aziende, istituzioni pubbliche, ospedali, università, parchi scientifici. Non è più soltanto questione di mostre, per quanto il loro numero cresca senza limiti: ogni occasione è buona per chiamare in causa gli artisti. In poche parole: l’arte è ormai ovunque, e più si diffonde più genera nuovi appetiti e nuove richieste. Le riviste di moda e di costume costruiscono interi numeri attorno all’arte e agli artisti, quando non ne affidano direttamente a loro la direzione. I pianificatori urbani se li contendono. Le aziende chiedono loro di tenere workshop per i manager e i dipendenti, di progettare oggetti e processi comunicativi.
La visibilità sociale degli artisti comincia a fare concorrenza a quella delle rockstar. Ma la differenza sta, o meglio stava, nel fatto che mentre la musica rock è parte della cosiddetta industria culturale — vale a dire, un settore produttivo nel quale il prodotto in vendita è fatto per essere riprodotto in tirature illimitate, la cui effettiva entità dipende soltanto da quella della domanda — l’arte contemporanea è invece, o forse dovremmo cominciare a dire era — parte del core, cioè del nucleo della produzione culturale, che si organizza con modalità che non hanno a che fare con l’industria ma semmai con la piccola bottega artigiana. Evidentemente, però, non è più così: anche gli artisti, a loro modo, stanno cominciando a produrre in serie. Non tante copie dello stesso oggetto ma un grande numero di cose diverse: segni, gesti, associazioni di idee, suoni, testi, dispositivi, azioni. E anche qui si trova in fondo un’analogia con le rockstar che ormai scrivono libri, firmano profumi e vestiti, o aprono bar e ristoranti. Anche gli artisti, dopotutto (vedi Damien Hirst), aprono ristoranti.
A cosa si deve tutta questa fame di arte e di artisti? Al fatto che, proprio nei mercati di massa nei quali ormai i consumatori sono sazi di tutto e non si sorprendono più di niente, gli artisti riescono a offrire proprio quella merce che in un mondo di abbondanza resta scarsa: i significati. Gli artisti definiscono i propri sistemi di regole apparentemente inutili o folli, che però rivelano aspetti del mondo inaspettati, o mettono in crisi imprevedibilmente le convenzioni sociali apparentemente più solide. I consumatori sono stanchi delle modeste trovate dei pubblicitari, e della sempre più prevedibile ritualità dei prodotti, e quindi hanno sempre più fame di arte e di artisti. E se questo è vero per noi, a maggior ragione è vero per i nuovi consumatori dei paesi emergenti, come quelli arabi o dell’estremo oriente, dove i nuovi ricchi si accorgono ben presto che ciò di cui hanno veramente bisogno non sono beni da consumare — quelli si trovano comunque e dappertutto — ma di una identità che spieghi a loro stessi e agli altri chi sono. Ed è questo il mercato di massa nel quale l’arte cresce senza limiti: quello dell’identità. È per questo che tutti vogliono mettere ormai l’arte ovunque, nelle aziende come nei musei, nei negozi di moda come nei centri commerciali.
Nei mercati di massa, l’abbondanza, e anzi l’aggressività dei prodotti, che sono ovunque e reclamano la nostra attenzione, spinge i consumatori a forme di difesa sempre più sofisticate: si fatica a ricordare il nome dei prodotti, se ne confonde uno con l’altro, si consuma senza neanche farci più caso, magari pensando già a cosa si consumerà subito dopo. E qualcosa del genere, in effetti, si comincia a vedere anche nell’arte: ormai non si va più a vedere una mostra, piuttosto si fa il giro delle mostre, o degli stand nelle fiere, si vedono in un giorno centinaia di opere, spesso mentre si parla con qualcuno e si risponde al telefono a qualcun altro. E le opere d’arte si adeguano, adottano strategie di seduzione e di richiamo dell’attenzione fatte per sguardi e pensieri sempre più veloci e facili alla distrazione. E questo non vale nemmeno soltanto per le opere, ma anche per gli stessi concept delle mostre, che devono a loro volta imporre formati e modalità sufficientemente insoliti e originali da stuzzicare l’attenzione di un pubblico perennemente saturo di stimoli.
Ma tutto questo non implica che l’occhio o il pensiero veloce non possano essere profondi. Sarebbe troppo facile concludere che questa crescente massificazione dell’arte conduca, come troppo spesso e troppo affrettatamente si dice, alla sua sparizione. Mai come oggi diventa decisiva la capacità di scegliere, di cogliere in mezzo al diluvio di informazioni e di sollecitazioni il lampo che ci fa fermare e soffermare l’attenzione su un’opera che oggi altri nemmeno notano e che domani tutti vorranno avere. Così come gli enormi scaffali dei supermercati costringono i consumatori più attenti ed esperti ad aguzzare la vista e a orientarsi con disinvoltura in mezzo a tanti finti affari, così il diluvio di arte che ci circonda rende ancora più evidente e palese la capacità che alcuni hanno di saper vedere prima e meglio degli altri cosa scegliere e perché, al di là dei mille paradossi e delle mille contraddizioni che sono l’essenza stessa del fare degli artisti e della produzione e circolazione dell’arte. Per dirla con le parole di Marion Lambert: “Compra soltanto quando capisci il lavoro, e quando il suo significato e il suo messaggio migliorano la tua visione del mondo e arricchiscono la tua vita”. E se è a questo che serve il mercato di massa dell’arte, ben venga.