C’è un paesino dell’Alto Adige di meno di mille abitanti, Tubre, in una valle che dopo un chilometro è già Svizzera, dove si parla tedesco e la religione è cattolica. Ma nel paese successivo, sempre cattolico, si parla reto-romancio; nel terzo poi, si parla ancora reto-romancio, ma la religione è protestante. È strano pensare che in un luogo così, nel bel mezzo delle Alpi, dove la comunicazione nel corso dei secoli non dev’essere stata particolarmente vivace, sia cresciuto uno degli artisti più promettenti della nuovissima generazione: Michael Fliri.
Fabio Cavallucci: Michael, come hai deciso di fare l’artista?
Michael Fliri: Vengo da un piccolissimo paese di montagna, ricordo che da bambino potevo uscire di casa senza problemi e andare a giocare con gli amici nei campi e nei boschi, dove inventavamo sempre nuovi giochi e inseguivamo nuove idee. Non vorrei però che la storia sembri troppo romantica: guardavamo anche i cartoni animati e spesso ci immedesimavamo nei protagonisti. Nasceva così un mix tra l’avere in testa una storia o un personaggio immaginario e il viverli fisicamente nella natura. Questa passione nel misurare l’immaginazione con la vita quotidiana e le sue possibilità è ancora dentro di me. Anche se molti anni dopo ho studiato Economia a Londra, il desiderio era sempre quello di riscoprire questa passione, da cui mi ero lasciato distrarre. E l’arte mi sembrava una gran bella invenzione dell’umanità.
FC: In fondo, in qualche modo, sei rimasto un po’ il bambino di allora. La componente del gioco è fondamentale nei tuoi video. Però, talvolta, c’è anche un sapore un po’ amaro. La vita e le esperienze hanno fatto sì che il gioco sia diventato un po’ cattivo, che abbia assunto venature di tristezza?
MF: Cerco di dare ai miei lavori diversi livelli di lettura, di far convivere molteplici sensazioni. Quel poco che ho capito negli anni è che le cose sono più complesse di quanto mi sembrassero, e che anche la tristezza e la malinconia fanno parte della vita. Quest’anno compio trent’anni, per questo ho deciso di intitolare la mia personale attualmente in corso alla Galleria Raffaella Cortese di Milano “Getting Too Old To Die Young”. Sto per diventare troppo vecchio per morire giovane e diventare un mito di gioventù bruciata. Chi conosce il mio lavoro percepisce ovviamente anche l’aspetto ironico, ma permane comunque una venatura amara.
FC: In uno dei tuoi vecchi video, Come Out and Play with Me (2004), riprendi una performance in cui da pecora, con un goffo rovesciamento del costume, ti trasformi in maiale. In un altro, This Round Is On Me (2002), sei una gallina che costruisce il suo uovo. Ancora, sei un grosso scimmione che si aggira per New York scivolando su una buccia di banana (Nice and Nicely Done, 2005). Perché questa continua trasformazione in animali?
MF: Per un certo periodo gli animali si sono come imposti alla mia attenzione. Gli animali sono affascinanti e funzionano bene come metafore; inoltre hanno il vantaggio di produrre un effetto straniante perché il più delle volte non sono chiaramente definiti. Nel video This Round Is On Me indosso un costume bianco con la cresta rossa da punk. L’allusione non è diretta, ma mi piace se alla fine fa pensare a una gallina. Di una trasformazione mi interessano le varie fasi, l’energia impiegata e il risultato di ogni mutamento. È come se fosse una zona sfocata, dove tutto diventa complesso e dove è difficile capire e classificare. È un gioco istintivo, e comunque non credo si possa cambiare nulla. La gallina e l’uovo stanno insieme in un’armonia perfetta. Perché maiale e pecora? Chi lo sa, ma non mi sembrava ci fossero altre possibilità.
FC: Anche altri artisti hanno usato costumi di animali, spesso in modo goffo e ironico. Ti sei ispirato alle balorde maschere di Fischli & Weiss (il panda e l’orso che combattono in un acquitrino) o all’orso di Mark Wallinger (che vaga triste e solitario nella vuota Neue Nationalgalerie di Berlino), oppure sono solo coincidenze casuali?
MF: Stimo molto tutti gli artisti citati ma, a dire il vero, Come Out and Play with Me è precedente a Sleeper di Wallinger, anche se dirlo sembra un po’ arrogante… Ho voglia di farmi da solo e intendo il mio lavoro come una sorta di “homemade/do it yourself” dal gusto amatoriale un po’ grezzo; proprio in questo trovo una grande forza scultorea. Non mi interessa la perfezione “hollywoodiana” del video. Sono sempre stato dell’idea di poter competere usando unicamente la creatività, inventando soluzioni.
FC: L’idea del fallimento, o almeno dell’incompiutezza di un’azione, che potrebbe anche durare per sempre ma si tronca per un fatto imprevisto, è molto presente nei tuoi lavori. C’è molta amara ironia in tutto questo, un po’ come nelle vecchie comiche o in certi cartoni animati di Hanna e Barbera. Insomma, stai un po’ tra Buster Keaton e Willy Coyote. Sei d’accordo?
MF: L’idea del fallimento è spesso presente ma non in maniera negativa. I miei personaggi non perdono, anzi, ancora meglio, non possono neanche sbagliare. Non sono degli eroi come quelli che si incontrano nei blockbuster di Hollywood e nei romanzi, ma non sono neppure degli antieroi. Si muovono su un livello dove le cose sono in armonia, perché hanno stabilito insieme le regole. La stessa cosa vale per le troncature, le interruzioni di un percorso: sono limiti naturali che vanno accettati, e una volta compresi è forse possibile vivere meglio. Trovo tutto il periodo dei film muti molto interessante, per il fatto che gli attori si esprimevano unicamente attraverso il corpo e le sue potenzialità comunicative. Tutto ciò, a mio avviso, ha delle affinità con la performance nel mondo dell’arte. Gestivano le situazioni con decisioni fantastiche, spesso molto anarchiche. Di questo genere di comicità mi affascina il modo in cui la linea tra l’essere salvato e l’essere distrutto tende a confondersi e sparire. Hanno un forte impatto su di me le ripetizioni delle scene di Willy Coyote con minime variazioni. La riproposizione della medesima situazione potrebbe risultare noiosa, ma non lo è affatto.
FC: Ti piace che la fatica nel compimento dell’impresa sia visibile nei tuoi video, come in Let Love Be Eternal, While It Lasts (2005), in cui scali con dei trampoli una montagna innevata finché l’altezza della neve, più alta delle protesi, ti impedisce di proseguire. Ti interessa fare emergere lo sforzo?
MF: Lo sforzo mi interessa in parte, a rimanere centrale è l’idea/opera. Se questa comporta una fatica io non mi tiro certo indietro, ma tutto questo non ha nulla a che fare con la Body Art o col cercare di portare il mio corpo verso i limiti estremi. Mi interessa la reazione del corpo. E poi dobbiamo stare attenti, perché si parla sempre di video. Un mezzo che offre uno strumento di grande potere, il montaggio: fra un taglio è l’altro si può cambiare il mondo. Per questo ho anche girato video con un unico piano sequenza.
FC: Nei tuoi lavori riecheggia spesso anche l’ambito dello sport: alcuni sono girati in una palestra, utilizzando anche strumenti ginnici, oppure tu stesso ti presenti in costumi che ricordano quelli sportivi: lo sciatore in Tomba Bomba Ghiaccio (2002) o il sommozzatore in Early One Morning with Time To Waste (2007). Alludi allo sport perché suggerisce comunque due degli elementi ricorrenti nella tua poetica: la fatica e la continua tensione verso un fine?
MF: Quand’ero più giovane facevo gare di sci e il mio idolo era Alberto Tomba. Nel caso di Tomba Bomba Ghiaccio indossavo la mia tuta professionale originale. Lo sport, visto come un gioco inventato, astratto e senza una finalità vera e propria, mi diverte molto. La tensione verso un fine la implica innanzitutto il mezzo stesso, il video, fatto di spazio e tempo; inoltre, mi considero anche un piccolo narratore.
FC: Insomma, che sia da animale, da atleta, da personaggio del cinema o dei cartoon, in ogni caso il mascheramento è una parte importantissima della tua poetica. Un vecchio adagio umanista diceva “la maschera svela e nasconde”. Da una parte nasconde, perché trasforma in qualcos’altro, ma dall’altra rivela anche alcuni aspetti del carattere e della personalità. Cosa ne pensi?
MF: Innanzitutto non considero molto importante la mia presenza come Michael Fliri. Questi travestimenti/maschere rappresentano più l’esperienza di entrare in un altro personaggio/esistenza. Non intendo camuffarmi per nascondere, quello che mi interessa è il lato positivo, costruttivo, aprire possibilità non chiuderle. Preferisco piuttosto presentare questi nuovi personaggi poco definiti e poco strutturati, perché mi aiutano a mantenere uno sguardo ingenuo sulla realtà.