Giancarlo Politi: Pensi che l’arte sia immobile? Intendo dire, che differenza c’è tra il lavoro delle tue prime opere specchianti e quello attuale? Che tipo di sviluppo e di movimento c’è stato?
Michelangelo Pistoletto: Per me l’arte è stata il vagito dell’intelligenza. L’uomo è antropologicamente creativo. Con la creatività ha fatto la sua storia. Ma dalla fine dell’Ottocento l’arte si è distinta da ogni altra attività umana e ha acquisito una propria autonomia espressiva, sottraendosi a quel servizio che prima la legava alla committenza, principalmente religiosa e aristocratica. Fino ad allora gli artisti, pur se apprezzati per il loro talento, erano rimasti circoscritti nella considerazione della maestria artigianale. Solo dall’Impressionismo in poi è avvenuta una evoluzione, attraverso la quale l’artista ha acquisito uno status di autonomia intellettuale. Tale indipendenza si è resa possibile grazie al progresso scientifi co e tecnologico, che ha aperto nuovi orizzonti mediatici, come la fotografi a e il cinema, esonerando l’arte dal compito di produrre immagini. Il XX secolo ci mostra in che misura l’artista ha saputo rendersi libero. I musei d’arte moderna e contemporanea sono i custodi dell’autonomia, dell’unicità e della libertà dell’arte. È impossibile non accorgersi di quanto la profondità dell’essenza artistica sia sempre più riconosciuta come valore primario nella vita comune. Lo dimostra il moltiplicarsi delle collezioni, delle biennali, delle fi ere e delle pubblicazioni d’arte. Creare è umano! L’arte, dunque, ha le sue radici nei primordi della Storia, ma prima del secolo scorso non ha mai raggiunto la piena conoscenza di sé.
GP: E nel tuo caso specifico? Quali sono le differenze?
MP: La mia ricerca è iniziata a metà degli anni Cinquanta. In quel momento due vie dividevano l’avanguardia artistica: quella astratta e quella figurativa. Mi guardavo attorno. Cosa cercavo? Un’identità attraverso l’arte. Non mi riconoscevo nell’astrazione, poiché nella tradizione italiana non esiste un’arte astratta: dall’età classica al Barocco, l’arte è sempre stata figurativa. Lavorando con mio padre nel restauro di quadri antichi, ho concentrato la mia attenzione sull’icona dal fondo oro. Infatti, il rapporto tra immagine e sfondo è diventato un fattore basilare nel prosieguo della mia ricerca. Non mi sono cimentato nella sperimentazione formale del segno, sebbene interessato alle opere astratte di artisti come Giuseppe Capogrossi o Franz Klein, ho invece cercato l’essenziale attraverso l’immagine di me stesso, orientandomi verso l’autoritratto. Da subito ho dovuto affrontare due questioni: da un lato vi era lo specchio in cui mi guardavo, luogo della realtà, e dall’altro la tela, luogo del concetto, su cui dovevo trasferire la realtà. Per un certo periodo ho lavorato sulla materia, vista la possibilità che mi veniva offerta da artisti come, per esempio, Jan Fautrier o Alberto Burri. Ma, anziché ricorrere a materiali spessi e grezzi, ho proceduto raffi nando la sostanza materica fino a renderla specchiante. Le superfici nere, rese lucidissime, sono diventate riflettenti, quasi una materia “antimaterica”. Nel ’61, per la prima volta, ho potuto dipingere il mio autoritratto specchiandomi direttamente nel quadro stesso. Concetto e realtà si sono congiunti e nella tela specchiante, con me, è entrato il mondo intero. La mia immagine si è mescolata con quella delle altre persone. Gli avvenimenti della vita si sono trasferiti nell’opera in una sequenza di immagini senza fine. In seguito, ho riversato il contenuto dello specchio nella realtà viva e vera, trovandomi così ad agire direttamente nel corpo della società. Uscendo dallo specchio, ho portato con me il mondo che in esso avevo scoperto. Per tappe conseguenti sono giunto, negli anni Novanta, alla fondazione di Cittadellarte e all’ideazione del progetto “Terzo Paradiso”, attività che, attraverso l’arte, attivano processi di trasformazione “responsabile” nei diversi settori del tessuto sociale.
GP: Quindi la tua concezione del mondo si può identificare con Cittadellarte?
MP: A Cittadellarte si lavora per una “civiltà dell’arte”, si pensa all’arte come motore di un cambiamento globale. È un laboratorio che, come uno specchio, riflette la società. Questo specchio ideale è composto da tanti frammenti, che nella realtà si traducono in segmenti operativi (chiamati Uffizi), ciascuno dei quali è dedicato a un settore della compagine sociale. Attraverso componenti estetiche si promuovono contenuti etici che concorrono allo sviluppo di ogni ambito della vita sociale.
GP: È una tua grande opera con un messaggio sociale quindi?
MP: Un mio lavoro degli anni Settanta è Divisione e moltiplicazione dello specchio. L’azione primaria consiste nel dividere una lastra specchiante. Le due parti rifl ettenti che ne derivano si riproducono specchiandosi tra loro. Anche le cellule biologiche si moltiplicano dividendosi. Normalmente i sistemi socio-politici ed economici fanno della moltiplicazione il loro principio, questo aspetto produce accumulo ed esclusione. Se questi sistemi si basassero invece sul principio della divisione (origine del conteggio speculare), praticherebbero il metodo della condivisione che moltiplica proporzionalmente la ricchezza rispetto al numero degli individui. Questo è uno dei principi su cui Cittadellarte sviluppa l’attività rivolta al sociale.
GP: La tua esperienza negli anni Sessanta è antesignana di questo grande laboratorio?
MP: Certo. Mentre si affermava l’Arte Povera ho aperto, con un manifesto, il mio studio ai giovani che desideravano presentare il loro lavoro e scambiare idee. Vennero poeti, attori, cineasti, musicisti e insieme uscimmo dal guscio dello studio per scendere in strada e creare. Si usciva non solo dallo studio ma anche dalle istituzioni deputate all’arte per entrare nel cuore della società. Oggi, invece, con Cittadellarte, ho creato un’istituzione attraverso cui l’arte può agire concretamente nella società.
Helena Kontova: Qual è la differenza tra la Factory di Andy Warhol e la tua Cittadellarte?
MP: Non sono stato alla Factory di Warhol quindi non so cosa accadesse lì. Posso dirti però che a Cittadellarte vi è un’interazione tra la creazione artistica e i diversi ambiti della struttura sociale. Si tratta di una trasformazione che tocca non solo l’arte, ma anche la responsabilità etica estesa alla comunità umana.
HK: E il laboratorio? Possiamo definirlo un raffinatissimo branding? La creazione di un marchio?
MP: Ogni artista crea il suo marchio. Ma stiamo parlando di unicità del prodotto, mentre l’industria produce grandi quantità di pezzi. Ecco perchè l’arte, che si basa sull’unicità del prodotto, vale così tanto. L’esempio di Damien Hirst ci fa capire quanto potere abbia il branding dell’arte e di come sia in grado di eguagliare i sistemi economici. Io, dal canto mio, non voglio fare un’arte che si adegui all’esistente, bensì che produca cambiamenti. Vedo i problemi ma non li enfatizzo, cerco invece soluzioni alternative.
GP: Qual è la differenza tra te e Berlusconi o Prodi? Sono anche loro dei creativi?
MP: Certamente, anche loro lo sono, come tutti, ma la questione è morale. Sovente la morale di chi dirige è opposta rispetto a quella del popolo. Spesso, chi ha raggiunto i livelli del potere non serve la società ma se ne serve, producendo in essa condizioni schizofreniche. Penso che per la buona salute di tutti si debba sviluppare una comune prospettiva morale.
GP: Oggi, secondo te, Leonardo chi sarebbe? Bill Gates, Damien Hirst o te, per esempio?
MP: Mi sento molto vicino all’epoca rinascimentale. Allora gli sviluppi del progresso erano ancora imprevedibili. Il Rinascimento ha avviato il percorso che ha portato alla scienza moderna, e l’ha fatto cercando l’equilibrio e le proporzioni ideali. Con il progresso, però, si è oltrepassato il livello delle proporzioni equilibrate fino a raggiungere le attuali condizioni di insostenibilità. Bill Gates è simbolo di un’evoluzione tecnologica di grande utilità per la civiltà umana, bisogna tuttavia verifi carne le conseguenze sul piano dei complessivi equilibri nella società globale. Nel Quattrocento le ricerche dell’artista, dello scienziato, dell’architetto e dell’economista convergevano. Ritengo che oggi si debba riaprire un simile laboratorio. Personalmente ho ideato un nuovo segno dell’infinito, composto da tre cerchi anziché due. Questo è l’emblema del Terzo Paradiso, che indica il passaggio a una nuova era, in cui il Primo Paradiso, quello naturale, e il Secondo Paradiso, quello artificiale, si congiungono. Il cerchio centrale rappresenta il bacino in cui confluiscono e si fondono natura e artificio (rappresentati dai due cerchi esterni). Il simbolo del Terzo Paradiso si propone come una bussola che indica una nuova meta. Un profondo cambiamento è ormai indispensabile e urgente. Siamo giunti a una saturazione nella crescita del processo artifi ciale e le ricadute sono disastrose. Terzo Paradiso significa convivenza di intelligenza umana e intelligenza della natura.
GP: Esiste una firma, una riconoscibilità nel tuo lavoro?
MP: Sì, ci sono dei lavori che sono particolarmente riconoscibili. Ma la riconoscibilità non deve bloccare o vincolare. Per sentirmi libero ho bisogno di un ventaglio di possibilità. L’arte è una forbice; vi sono due paradigmi: da un lato l’ortodossia, dall’altro l’eterodossia. La prima è l’arte per l’arte. La seconda è un’arte che non teme di aprirsi e interagire con il mondo. Mi muovo su questi due paradigmi in quanto li ritengo complementari.
HK: Consideri la schizofrenia una forza che produce e rinnova la creatività?
MP: Può essere, però non tutti gli schizofrenici riescono a curarsi da soli. Il mondo è pieno di contraddizioni e incongruenze, da queste nasce la malattia, che non è una qualità ma un problema. A questa si può trovare una soluzione bilanciando civilmente gli opposti, come avviene nella connessione tra il polo negativo e il polo positivo, che dà origine alla corrente elettrica.
GP: Come reagisci di fronte alle opere dei giovani artisti? Hai un senso di disorientamento?
MP: Per me rimane fondamentale la questione della qualità e del talento. Sento e vedo dove c’è talento, invenzione, energia e qualità. L’artista però, oltre al talento personale, deve offrire anche un messaggio importante e utile al mondo. A Cittadellarte arrivano giovani interessati a comunicare questo tipo di messaggio.
GP: Chi ha più occhio, il mercato o il curatore?
MP: Secondo me entrambi. Fortunatamente fin dagli anni Cinquanta i galleristi hanno rischiato insieme agli artisti. Grazie a loro abbiamo avuto la possibilità di realizzare tanti progetti. Ho stima anche per i critici. Mi vengono in mente soprattutto Germano Celant e Achille Bonito Oliva che, pur seguendo indirizzi diversi, hanno avuto un ruolo primario nell’affermazione dell’arte italiana del dopoguerra. I critici, i galleristi e i direttori di museo, se impegnati, rendono un grande servizio all’arte.
HK: Qual è il tuo ruolo? Performer, artista o demiurgo?
MP: Tutto tranne demiurgo. Questo termine dà l’idea di una posizione gerarchica. L’attività di Cittadellarte si è estesa nel tempo, ma non si può in ogni caso parlare di struttura piramidale.
GP: Lavori ancora con molto entusiasmo?
MP: Certamente. Ne ho sempre di più. Ora il mondo mi si è allargato davanti agli occhi e mi accorgo di quanto lavoro ci voglia ancora per cambiarlo.