Diego Marcon: Sono sul treno per Milano. Sono appena stato a trovarti, per la prima volta, a Codroipo, dove vivi e lavori. Ho qui accanto il pacchettino di laccetti per sacchetti che ho comperato all’alimentari in cui mi hai portato. Sono di quelli blu petrolio, come li ricordo da bambino. Non ho avuto tempo di guardarmi attorno con calma, ma mi piace immaginare — e forse ne sono convinto — che ci fossero i Fonzies, i succhi dai tappi con le bandiere degli stati e i Crodini. Delle volte la mia insistenza e fascinazione per queste cose risulta pop o un po’ troppo malinconica. È difficile spiegare che credo si tratti di vuoto, tracce, residui di assenze, forse nemmeno mai state. Mi viene in mente Wave, che hai presentato di recente alla Galleria Fabio Paris a Brescia: la Saltafossi come quella che aveva mio cugino Roger che si agita contro il muro e sembra un esserino che fa “arfh arfh”, o “irfh irfh”. È un immaginario sospeso, che vibra, che proprio in questa timida presenza si fa sentire come scalpitio di un toro.
Michele Bazzana: Quell’alimentari non è proprio a Codroipo, ma in una delle sue frazioni che, a differenza dei grossi paesotti, subisce il presente in modo più fluido, mischiandosi progressivamente a quello che c’era prima: uno stratificarsi di prodotti, di più epoche che chiaramente perdono o acquistano riconoscibilità in base all’età dell’acquirente. Credo tu abbia già capito dove voglio andare a parare. Mi interessa molto l’oggetto, meglio se è vecchio, e se non lo conosco meglio ancora. Mi interessa un sacco vedere come si rapporta la gente con qualcosa o con qualcuno, con dei laccetti blu petrolio o con i Beatles.
È anche vero che preferisco i paesini ai grossi centri, che trovo molto falso l’approccio al contemporaneo, che mi piacciono le persone che hanno qualcosa da raccontare o da fare.Tuo cugino Roger come sta?
DM: Roger sta bene. Assieme al suo gruppo ha appena pubblicato un demo autoprodotto. Ne è così orgoglioso che non me lo ha nemmeno masterizzato… dice che lo potrò comprare quando lo distribuiranno. Lui canta in growl. È molto bravo. Mi piace il fatto che fin da quando era bambino ha sempre ascoltato metal: non ha mai cambiato gusti, nemmeno dopo i tre mesi di coma. È un po’ come mia zia con i Beatles, anche se non è innamorato di nessuno dei Kiss, o dei Dream Theater. La passione dei metallari sembra proprio essere un feticismo per la tecnica. Gli assoli di chitarra, le urla senza fiato, i ritmi della batteria. E poi i gesti, il dito medio, la linguaccia, i capelli lunghi, la birra e satana. Alcuni generi musicali vivono di proiezioni di immagini desiderate: mio cugino ubriaco di birra, con quattro puttanelle che gli leccano il corpo cosparso di sangue e alcol in una stanza devastata di un hotel di lusso.
MB: Credo di avere la stessa età di tuo cugino o comunque di appartenere allo stesso periodo storico… almeno per quanto riguarda la formazione musicale, che strada facendo ha maturato in grunge e crossover, eliminando satana e troppi fronzoli. Poi a Codroipo, a parte la birra, non sono nemmeno arrivate le groupies, in compenso suoneranno gli Iron Maiden dove una volta c’era il centro d’arte contemporanea, nel giardino di Villa Manin. Gli assoli di chitarra sono un po’ eccessivi, i virtuosismi sono eccessivi. Tanto vale costruire un’automobile, se non si sa dove andare. Karl Benz costruì una delle prime macchine della storia, ma escludendo un piccolo giro nella via principale del suo paese non andò da nessuna parte. Ne parlarono quando la moglie, dopo aver litigato con lui, prese la sua invenzione e i loro bambini e se ne andò da sua madre a 106 km di distanza, facendo il primo viaggio in auto della storia. Probabilmente non aveva l’autoradio, ma il rumore che generava questo mezzo non deve essere stato male. La cosa forse più utile e indubbiamente la più innovativa del XX secolo, l’automobile, ha rischiato di passare inosservata se non fosse stato per una scenata casalinga. La tecnica senza la poetica sarebbe inutile.
DM: Pensa a come si devono essere divertiti i figli. O magari no, spaventati dentro quelle lamine nuove, a voltarsi indietro, guardare la casa allontanarsi. A volte ho delle fitte di sentimento anche solo a stare in certi posti, guardare in silenzio un corpo muoversi, e poi spostare lo sguardo dietro una spalla, trovare gli oggetti sparsi sopra una libreria — riviste, cornici, un cd, fazzoletti di carta. Mi attrae questo immobilismo, mi affascinano questi corpi presenti, carichi di tempo e storia. Mi sembra tutto così fermo, ma nello stesso tempo fervente d’amore. Per questo quasi sempre scelgo di tenere la camera ferma. Quel quadro mi sembra tremare — se l’occhio si fa orecchio può sentire nell’immagine dei colpi di tosse, qualche sospiro e le balze delle vesti, magari anche una canzone, una che fa: “Portami a ballare oppure altrove ma portami via da qui / per le strade che sai / verso la notte / non mi abbandonare al mio silenzio / e portami via da qui” —, che mi sembra così simile al rombo di quel motore di cui mi racconti. Magari proprio queste parole di Giuni Russo canticchiava una delle figlie dei Benz, forse la più grande: negli occhi ancora i genitori litigare, e adesso via verso la nonna, proprio ora che si era baciata con il suo compagno di scuola un pomeriggio di pallido sole, con i primi carretti gelato.
MB: Mi piace molto la tua capacità di immaginare, di costruire storie attorno ai personaggi, di amplificare un ricordo attraverso l’immaginario collettivo, spesso quello dell’adolescenza, de I Ragazzi della 3a C o di Sposerò Simon Le Bon. Tutto sommato piace anche a me. Magari non tanto l’aspetto sdolcinato di quegli anni, ma quello diretto e pratico, tipo A-Team o Riptide. Credo di immaginare di più le storie legate agli oggetti o agli attrezzi (potessero parlare i miei) che alle persone. A parte rari casi di gelosia, che mi portano a fabbricare storie sugli “amici”, le altre vicende su cui fantastico sono legate alle cose. Per esempio, quando guardo i binari del treno mi viene da pensare a che diavolo è stato fuso per farli, quante automobili, quanti fucili, quante Saltafossi! E di conseguenza a quante vicende contengono. Non è un caso che parli di oggetti e di anni Ottanta e Novanta. Forse quelli sono stati i decenni più materiali e consumistici, o probabilmente per il semplice fatto che sono gli anni della nostra infanzia e adolescenza, del metal e di Madonna, delle bici e dei motorini, e sicuramente perché ogni tanto mi fermo a guardare la mia storia smettendo di idealizzare quella degli altri. Con una punta di invidia per il primo uomo sulla Luna.
DM: Come mai ti fa invidia il primo uomo sulla Luna? Io avrei voluto essere semmai uno di quelli davanti al televisore a vederlo, magari a Falls City, in Nebraska, o a Xenia, in Ohio, oppure a Forks, nello Stato di Washington. Non ho mai amato quelle serie fatte di muscoli e spari. Forse perché sono cresciuto nella provincia di Varese, più in cameretta che in garage. Gli americani sono bravissimi a raccontare la provincia. Chissà quante pizze d’asporto, quante birre, quante sigarette, quanti pop-corn, quante Coca-Cola, quanti sms, quanti citofoni, quante mani accarezzate, quanti baci, quanti sorrisi e quante lacrime ci sono voluti e si sono fusi per fare il cinema!
MB: Mio papà dice sempre che lui l’allunaggio l’ha visto nella televisione del paese, al bar, dove ora c’è quell’alimentari in cui hai preso i laccetti color petrolio. Provincia: da dove siamo partiti e dove ritorniamo con luna e telefilm. Come dire: “tutto il mondo è paese”. Probabilmente è il motivo per cui mi piacciono quelle serie televisive. Correre attorno a un albero come nella sigla di Hazzard, un cane che si morde la coda senza pensare a cosa accadeva in quel periodo, ma che forse accade anche oggi: guerre di sottobanco, spauracchi atomici montati su improbabili mezzi, terroristi di un colore, ma foraggiati da un altro cromatismo. Sì, forse accade tuttora.
Un buon mezzo, la televisione, per distrarre la massa, per creare un immaginario collettivo, per identificare i buoni e i cattivi, le bionde e le more. Poi cresci e ti ritrovi con i capelli crespi e la barba fitta e sembri proprio uno di quei cattivoni e devi decidere se depilarti o ricrederti. Nel formato HD manca quella polvere analogica che amalgamava il tutto, ma che non riesco a levarmi dalla testa, come la barba d’altronde.
DM: Ho sempre un problema a relazionarmi con queste grandi questioni “politiche”, o meglio, sono in imbarazzo. Forse invece semplicemente non mi interessa, anche se questo termine può risultare equivoco. Mi piace chinarmi tra le briciole, i residui dei dispositivi e decido con insistenza di concentrarmi su questi, cerco di infilarmeli in bocca. Per questo la pasta di cui parli, dell’analogico, mi ricorda Paperissima, i bambini che rincorrendo il cane si infilano nella siepe, la coppia di sposi che baciandosi cade dall’altare… Non mi piace il Super 8. Ha quella polvere di poesia, nostalgia, il bel tempo lontano, le belle immagini della borghesia educata e colta, ma che bugie! L’analogico ha reso possibile la realizzazione di film familiari a un vastissimo numero di persone delle più diverse classi sociali. Una videocamera costa poco, non va per forza spenta e tenuta da parte per i sorrisi o le feste migliori. Mentre lavoravo all’archivio video di Roger ero scioccato da come la camera veniva trattata da lui e dai suoi amici: sempre accesa, passata di mano in mano, lanciata, appoggiata e strattonata, filmava mentre loro si picchiavano, simulavano coiti, bruciavano un verme con un accendino. Quelle linee che scorrono sullo schermo, puntini verdi che si rincorrono per tutto il frame, quella sciatteria trova per me una prima lettura sintomatologica di un disagio talvolta inconscio o sfuocato che invece l’immagine riesce a portare in superficie, sul nastro, tra i solchi delle testine, l’interlinea dell’interlacciato, quasi fossero macchie che prudono sulla pelle di un corpo depresso. L’immagine è un corpo, e un corpo non è solo ciò che ingombra dello spazio. E il ronzio del motore della camera che registra ce lo ricorda, senza sorridere.
MB: La mia relazione con le grandi questioni politiche è relativa, cioè guardavo la televisione aspettando che qualcuno arrivasse sulla Luna o altro, ma niente. Anzi, scopro che molto è finto e che tra Paperissima e Real TV, entrambi trasmissioni di filmati amatoriali, cambia solo la colonna sonora. La telecamera diventa un filtro, uno strumento che può essere usato nella maniera più disinibita, come dici, si riprende tutto senza sapere bene cosa accadrà o creando delle situazioni solo perché c’è la possibilità di registrarle. Ecco, questo mi interessa molto, quell’attimo dove l’imprevisto prende il sopravvento, dove lo sbaglio è l’attore non protagonista che poi diventa la star del filmino. Mi piace riportare questa situazione nel reale, costruire, anzi fare delle strutture improbabili al limite della resistenza fisica, trascurando i pareri di chi dice che non può funzionare, che non può stare in piedi, mi piace mandare “fuori giri” cose e persone fino a farle implodere, vedere qual è il loro limite. Possono rompersi, ma hanno fatto il loro dovere dal momento che si sono attivate, non capirlo sarebbe come rimproverare un pilota che batte il record del chilometro lanciato ma fonde la motocicletta, d’altronde se corresse sempre alla massima velocità non ci sarebbe nessuna aspettativa per il punto massimo. Il rumore di sottofondo ha una sua percorrenza e va colto in punti precisi dello spazio.