Meditazione al vertice (1972) è, a mio modo di vedere, un’opera paradigmatica per Michele Zaza (Molfetta, BA, 1948): è indicibile, indescrivibile, perché manifesta il senso, appunto, di una meditazione. Tuttavia è possibile parlare della relazione che impegnava Zaza in quella specifica occasione: Zaza rifletteva e lavorava sulla possibilità di esprimere attraverso l’immagine come la vita si afferma attraverso il corpo, come la presenza del corpo rende esistente il cosmo. Non a caso il corpo è l’unica figurazione concreta della coscienza e della conoscenza della storia del mondo. Il corpo è qualcosa che vive nel mondo senza essere del mondo; appartiene profondamente solo all’uomo. La presenza della madre, della madre dell’artista, esprime il primo corpo, il primo corpo che lui stesso ha veduto, l’origine del mondo forse, senza scomodare Courbet. Parlare dell’opera di Michele Zaza può voler dire seguire l’artista nel suo flusso di coscienza, ancorandosi a fondamenti filosofici. L’uomo appartiene al tempo eppure considera il tempo come il suo peggior nemico; ma se si considerasse il tempo come una questione circolare, anziché lineare (la linea è un’invenzione culturale, mentre il cosmo è di fatto circolare) il tempo ne resterebbe sconfitto. Appeso per i piedi dinnanzi al desco materno – a proposito del superamento del tempo e della morte – Zaza slitta tra cielo e terra. Aveva letto una favola tibetana per la quale i re di quel popolo trascorrevano il giorno in terra e la notte in cielo; non conoscevano la morte propriamente detta, semplicemente a un certo punto risalivano definitivamente in cielo attraverso una corda magica. La corda nel pensiero tibetano assume una funzione cosmologica, quella di collegare la terra con il cielo appunto, una sorta di axis mundi.
Zaza ha esplicitato il suo rifiuto rispetto all’opacità del quotidiano vivendo in modo ribaltato certe pro- spettive, tenuto su per i piedi con una corda. In altri lavori compare la scala, ma il senso è quello. Lui è uno di quegli uomini che si sono opposti all’egemonia della cultura scientifica, uno di quegli artisti che hanno cerca- to di individuare rispetto alla modernità un altro punto di vista, volgendosi in gioventù anche a riferimenti “al- tri”, ad esempio gli scritti dell’antropologo Ernesto de Martino, Sud e magia [Feltrinelli, Milano, 1959] tra gli altri. Quando Zaza esordisce, il dibattito artistico si con- centrava soprattutto sull’analisi del linguaggio – erano gli anni di Art & Language, della cosiddetta “Narrative Art”. Un’epoca quindi contraddistinta da un’estetica dei contenuti, non del profitto. Ma già allora questo giovane artista pugliese aveva ben chiaro che a inte- ressarlo era soprattutto un lavoro sulle “origini”, sulla “primordialità”, sull’“unicità”. Per questo, oggi più che mai, il suo lavoro risulta centrale nell’ambito dei temi affrontati dagli artisti più informati e più impegnati, in un contesto multietnico e di proficuo interscambio culturale, in cui a riemergere è una riflessione sul “senso dell’identità”. La sua è un’estrazione piuttosto povera, rurale, segnata da una condotta di vita essenziale che nel pane riconosce il suo simbolo primo.
Zaza si forma presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. Torna presso il luogo natale con una sequenza di tre fotografie in bianco e nero concernenti un’azione da lui innescata, Simulazione d’incendio (1970), l’atto dell’esplosione di un gruppo di fumogeni che improvvisamente porta nella quiete domenicale della sua città e nella condizione sociale pugliese di quegli anni, senza idealità, alcuni dei simboli significanti le istanze di cambiamento all’epoca in corso a Milano. Il ciclo Cristologia (1972), presentato successivamente alla Galleria Diagramma di Luciano Inga Pin, introduceva un altro tipo di raffigurazione estetica. Partiva da una tradizione di religione cristiana in quanto professione di fede legata al corpo, all’esistenza. L’arte rende visibile l’invisibile e l’invisibile trova la sua immagine nell’uo- mo, sembrava affermare Zaza. Questo ciclo è ricondu- cibile alla rappresentazione concreta del reale; e nella mostra si giocava con il rapporto tra reale e quotidiano, una sorta di materialismo dialettico per il quale si su- perava l’idealismo platonico insinuatosi nelle correnti concettuali. I titoli di Michele Zaza hanno spesso un significato soteriologico, indicano qualcosa che può alludere a una salvezza – per i cristiani la storia di Cristo è sinonimo di riscatto.
Zaza non si definisce un fotografo, bensì un pensa- tore di immagini. È comunque grato alla fotografia in quanto tale tecnica detiene un valore temporale diverso. Per esempio in una sequenza fotografica si ha una visio- ne unitaria e totalitaria del racconto in cui ogni minimo movimento, ogni minima particolarità, viene colta in uno sguardo unificante come sempre presente – ciò non può avvenire in un filmato ad esempio, perché il suono, l’immagine in movimento, la vitalità del flusso dà alla percezione una successione di immagini che ci induce a memorizzare le sequenze precedenti. L’eterno presente è per Zaza percepibile solo attraverso la fotografia. Nel ciclo Universo estraneo (1976), presentato alla Galleria Lu- cio Amelio, a Napoli, l’artista ha portato il cielo in terra e la terra in cielo, ritraendo una moltitudine di molli- che di pane disposte come in una costellazione, quindi stelle non più in un mondo astratto ma in un mondo concreto. La trasfigurazione di uno spazio domestico in uno spazio “altro” si manifesta in molti altri scatti dell’artista. La sua idea di filosofia è senz’altro quella delle origini, una filosofia portatrice di un concetto di unità. La separazione dell’uomo dalla natura, operata da Cartesio, è definitivamente superata – o almeno così sembrerebbe. Il cosmo è percepito come un ente indi- visibile; tutte le cose sono interconnesse tra di loro. Lo spazio è un corpo unico. Anamnesi (1975-76), un ciclo presentato nella mostra presso la Galleria Ugo Ferranti a Roma, può essere certamente descritto, ma per farlo occorrerebbe tradire la fiducia del lettore di questo testo che è stato abituato a ritrovare le parole nelle immagini d’accompagnamento e che in questo caso non potrebbe riferirsi a un chiaro passaggio verbale. Facendo quindi un’eccezione possiamo dire che questa mostra di Zaza si presentava inizialmente agli occhi dello spettatore come uno spazio vuoto. Proseguendo all’interno della galleria si percepivano delle presenze fotografiche di piccole dimensioni, collocate negli angoli delle sale, tali da indurre il visitatore a esperire un rapporto intimo e meditativo con l’opera. Se si può usare il verbo “immortalare” per questo tipo di produzione artistica, diciamo che in questi lavori è immortalato un processo di smaterializzazione delle pareti domestiche, operaziozione che senza nessun tipo di post-produzione ricorre in diversi cicli di Zaza. Nel caso di Anamnesi i soggetti delle fotografie vivono una sorta di “animalizzazione”; poiché alla base di certi atteggiamenti animaleschi si trova un’idea di “primordializzazione”. Ad essere coinvolto è il desiderio di trovarsi in un altro mondo, in un’altra condizione, proprio per sperimentarla.
Michele Zaza parla di “stile”, categoria che faceva inorridire gli artisti della sua generazione. Certo, Zaza ha una personale interpretazione del concetto: parla di “stile della dissoluzione”, nonostante questo lo abbia portato a una condizione di frizione rispetto agli artisti suoi coetanei. Zaza approfondisce questa sua posizione parlando di “avanguardia impossibile” nella misura in cui tutto ciò che si pone come avanguardia facilmente si cristallizza. La ricerca del mito diventa commercializza-zione dello stesso, mentre il suo “stile” resta personale, scevro da questioni di “tendenza”. Zaza opera una se- lezione estrema di oggetti che diventano il suo lessico: pane, pietra, scala, corda, ovatta ma non solo. A un certo punto del suo percorso di ricerca, i volti cominciano a colorarsi, si tingono di celeste, per esempio, come nel tentativo di raggiungere un empireo. Ricorre infatti un’idea platonica di un mondo perfetto. I volti però diventano anche bianchi, tendendo alla luce, e spesso si immergono nell’ovatta, che più che strumento di cura è simbolo di levitazione. I volti sono trasfigurati e si sottraggono dalla loro condizione materiale quotidiana per diventare altro, una sorta di arte dell’esistenza che, partendo dal vissuto, aspira ad assurgere a un altro status. Il colore si fa fondamento di una configurazione, o meglio riconfigurazione ideale del mondo.
Anche se il lavoro di Zaza è in continua evoluzione, questi restano i punti fermi del suo speculare per immagini. Attività che lo ha portato a lavorare con quelle gallerie che hanno animato il dibattito occidentale per diverse decadi, la Galleria Leo Castelli in primis, per approdare a nuove rivoluzioni con la Galleria Giorgio Persano di Torino, che è stata complice nell’apertura del lavoro di Zaza verso l’oggetto e più decisamente verso l’installazione e anche la videoinstallazione. A questo proposito, è necessario ricordare anche il dialogo con la critica d’arte Elena Re che ha curato l’opera di Zaza con estrema dedizione in molte fondamentali occasioni: “il silenzio che anima le composizioni oniriche presenti all’interno di queste fotografie è lo stesso che talvolta ha permesso loro di staccarsi, di ‘prendere corpo’ in uno spazio tridimensionale, dando origine a quelle sculture che talvolta affiancano le fotografie stesse, come nell’installazione Paesaggio magico [2008]”. [Elena Re, Michele Zaza. Paesaggio magico, Gli Ori, Pistoia, 2009, p. 14] Sempre a questo proposito, ma riferendosi all’evoluzione videoinstallativa di questo ragionamento, Re scrive:
Se il corpo può essere intenzionalità, trascenden- za, immediato sbocco sulle cose, apertura originaria, continuo progetto e perciò proiezione futura, l’idea del movimento è chiaramente implicita in questo suo manifestarsi e rappresenta un nuovo punto di appro- fondimento nel discorso sul paesaggio di Michele Zaza. Parlando dunque di movimento e analizzando l’opera di Zaza, non si può far riferimento a una performance nel senso più classico del termine. Ma di fatto il lavoro sulla teatralità del gesto, sulla dinamica dei corpi, sulla tensione delle forme, riveste in ogni caso un ruolo a dir poco essenziale. Sicché, utilizzando la fotografia, vengono fissati alcuni momenti in cui i volti e le mani compiono un’azione, mimano una forma, e su questo si basa l’impianto complessivo del paesaggio configurato dall’artista. E mentre in taluni casi alle fotografie dei corpi si alternano le fotografie di sculture che possono variare nel loro corrispondere ai gesti, in altri casi sono invece vere e proprie sculture che vengono a creare una dinamica con le fotografie dei volti e delle mani. Per arri- vare in altri casi ancora alla realizzazione di installazioni ambiente, dove sono le videoproiezioni il fulcro del paesaggio. [Elena Re, Paesaggio Magico, Maretti Editore, Falciano, RSM, 2011, p. 8].
In conclusione, un riferimento alla storia dell’arte è d’obbligo: La cacciata dei progenitori dall’Eden (1424-25) di Masaccio; un affresco per il quale, possiamo dire, per la prima volta nasce l’uomo nuovo che coprendosi il vol- to con le mani e uscendo dall’Eden prende coscienza del suo corpo. La teologia diventa antropologia, perché la coscienza dell’uomo diventa l’elemento fondante della configurazione del mondo. Secondo Michele Zaza si può dire che prendere corpo vuol dire prendere vita.