“Se tutti gli enigmi sono risolti, le stelle si spengono”, scriveva Jean Baudrillard; “se tutto il segreto è restituito al visibile, e più che al visibile, all’evidenza oscena, se ogni illusione è restituita alla trasparenza, allora il cielo diventa indifferente alla terra” [Le strategie fatali, Feltrinelli, Milano, 1984, p.27]. Perché l’oggetto assoluto è quello il cui valore è nullo e la sua specificità risiede nell’indifferenza alla mera realtà della materia. Questa è la lezione da imparare – e disimparare – ogni volta che ci si addentra nel lavoro di Monica Bonvicini (Venezia, 1965).
Fra i vuoti puri del BALTIC Centre for Contemporary Art – siderale deposito di grano in disuso, sul lungofiume di Gateshead – si sta per concludere [il 26 febbraio] una fra le più estese antologiche mai dedicate all’artista italiana; un percorso dal titolo “Her Hand Around the Room”. Luci spasmodiche e vuoti intensi de-umanizzano la percezione dei lavori. Qui essere e apparire coincidono; mentre il discorso su controllo, potere e trascendenza del piacere non verte sulla trasmissione di una conoscenza acquisita, ma insiste, piuttosto, su ciò che già c’è, come atto di creazione, di rivelazione di nuovi ambiti dell’architettura che instaura relazioni trasversali, mai dirette, con lo spazio espositivo. In questa dialettica sono compresi: Light Me Black (2009), la corazza frontale di 144 tubi al neon uniti tra loro, racchiusi e sospesi; Chain Leather Swing (2009), un’amaca intrecciata da catene e nappe di pelle; i Leather Tools (2009), strumenti e utensili di uso comune rivestiti in pelle nera; così come i disegni oscuri, a tempera e vernice spray, della serie “Hurricanes and Other Catastrophes” (2008). Sono questi lavori a capovolgere l’enigma del corpo. Una volta era la Sfinge che poneva all’uomo la domanda dell’uomo, che Edipo ha creduto di risolvere, che tutti noi abbiamo creduto di risolvere. Oggi è l’artista, la donna che pone alla Sfinge, all’inumano, la domanda dell’inumano, del fatale, della disinvoltura del mondo verso le nostre azioni, della disinvoltura del mondo verso le leggi oggettive.
In Bonvicini l’opera si assottiglia, aderisce fino a scomparire, come suggerisce Scale of Things (to come) (2010), una scala di catene e di tubi innocenti che rifiniscono la soglia tra il bello e il sinistro, senza più rispondere ai limiti imposti dalla fisica funzionale. Eppure – avvisa il piano anodizzato e le cavità di Satisfy Me Flat (2009) – disobbedendo alle leggi, eludendo il desiderio, il corpo risponde in segreto, inconsciamente a qualche suggerimento sfuggito alla volontà. Quel che pesa sull’indifferenza del potere è, infatti, la metodologia di scarnificazione delle sue gabbie; è il risalire al processo di produzione di “controarchitetture” come il respingente Stonewall III (2002), installazione composta da un muro di sbarre in acciaio galvanizzato, diciotto catene da tre metri, dodici catene da due metri e un inserto di vetro di sicurezza rotto; oppure il lontano Plastered (1998), pavimento in cartongesso che si distrugge progressivamente con il passare del pubblico, in una rilettura critica dell’identità delle gallerie d’arte. Nella pratica compositiva di Bonvicini, a stabilire il mistero dell’uomo è dunque il modo di sparizione della sagoma, dell’odore umano stesso, disperso negli ambienti ultra-sollecitati, faticosamente avvincenti, impattanti. In generale, nella sua pratica, le cose visibili non trovano fine nell’oscurità e nel silenzio, ma svaniscono in un sistema mnemonico ricorsivo più visibile del visibile – omaggio strutturale all’oscenità repressa e, assieme, liberata.
Ma al BALTIC, le cose come componenti di supporto del reale, realmente finiscono. Qui non c’è più territorio, ma prende più propriamente luogo uno spazio prodigioso, il reale e l’immaginario si esauriscono offrendo ogni terreno alla simulazione. Nell’iper-verità di “Her Hand Around the Room” la forma estatica di un universo non più frenato dall’illusione di un’architettura, slegata da continue citazioni, esclude vicendevolmente l’inerzia, l’escrescenza, l’ipertelia e l’effetto speciale: materiali freddi, svincolati dalla loro essenza, proliferano all’infinito, si potenziano, assumono una curvatura malefica che mette fine all’orizzonte del linguaggio. Il potere è agito, infatti, solo dove parole e supporti si sostengono a vicenda – là dove quelle stesse parole non sono vuote e i gesti compositivi brutali; le citazioni non sono usate per nascondere intenzionalità ma per rivelare misure; e gli atti non sono impressi per violare e distruggere, ma per offrire una gerarchia alle relazioni, creando realtà demarcate.
La mostra si articola in compartimentazioni definite da una temperatura visiva rigidamente glaciale, coercitiva e talvolta escludente; sindromi possibili di come si sia modificata nel tempo la percezione del corpo dell’altro, attraverso un invito alla contingenza sempre diverso. Una chiamata a venir spostati, interiormente, che ha cominciato a farsi sempre più puntuale a ogni passaggio. “Negli anni, a mio modo di vedere, la percezione fisica dello spettatore, attraverso le mie opere non è cambiata”, afferma Bonvicini [intervista con l’autrice, gennaio 2017]. “Ritengo, piuttosto, che la percezione del corpo dell’altro si sia modificata, all’interno di una mostra rispetto a un’altra; ed è una lettura legata strettamente a chi ha partecipato alla mostra: dal curatore all’edificio stesso che ha ospitato i miei lavori. A seconda della tipologia di elementi che venivano combinati, venivano prodotti dei pensieri o delle percezioni differenti, di volta in volta. Ma in tanti anni di lavoro non c’è stata una vera evoluzione percettiva da me oggi rintracciabile, che non sia identificabile in me stessa” [ibid].
Al BALTIC, ad esempio, ogni lavoro è in grado di emettere un suono di per sé, anche se a bassissima frequenza, richiedendo al pubblico un nuovo livello di attenzione. Dal brusio dei neon, al tintinnio delle catene, al rumore metallico di un piccolo scontro, è possibile avvertire una sorta di canto sottile della materia, in netta contrapposizione con piani sonori volutamente respingenti. “In questa mostra tutti i suoni sono stati assolutamente orchestrati e progettati consapevolmente da me, per essere inseriti assieme, in uno stesso luogo, in quel luogo specifico. Su questo piano, a questo livello percettivo, è stato inserito, e studiato come su un pentagramma, tanto il suono delle porte che sbattevano in un video, ad esempio, quanto il rumore di un trapano che si accendeva ogni tre minuti. Ovviamente sapevo che dalle opere stesse avrebbero potuto prodursi o scaturire altri suoni, come quelli delle catene, delle amache, dei neon, ma non avrei potuto prevederli e non ho curato quell’aspetto eventuale, invisibile dei materiali” [ibid].
Alla sua imminente prima personale alla Galleria Raffaella Cortese, a Milano, il lavoro di Bonvicini crescerà anche dalle ceneri metalliche di “Her Hand Around the Room”, ma si rafforzerà, condensato, sublimato dagli interventi precedenti e dalle soluzioni allestitive di stampo museale. Disegni calligrafici, fotografie e sculture minime si svilupperanno seguendo l’ordine sovvertito di paesaggi catastrofici, nuove scie di un mondo in cui l’umanità presta lo sguardo come un sosia di se stessa, come una grande assente. L’artista espone a Milano, quindi, altamente consapevole di quanto gli oggetti tecnici, e più in generale gli oggetti d’uso prodotti industrialmente per sostenere l’architettura, evolvano secondo un processo di selezione interno ed esterno. Interno in quanto legato fondamentalmente ai mutamenti delle condizioni tecnologiche e organizzative della loro produzione; esterno poiché dovuto alla loro accettazione da parte del mercato e al loro grado di adattamento e di adattabilità ai cambiamenti che avvengono nel contesto socio-culturale in cui svolgono le loro funzioni.
“Ho sempre cercato di mantenere un approccio concettuale nei confronti dell’opera d’arte, promuovendo visioni critiche e analisi di genere, utilizzando diversi aspetti dell’architettura. Attraverso questa disciplina è poi risultato spontaneo e necessario utilizzare materiali da costruzione. L’architettura, come un’intuizione, ha a che vedere con la corruzione, così come con i sogni, le ambizioni, l’abuso, la classe, il potere, i soldi e ovviamente la rappresentazione dell’autorità. Tutti i dittatori e i magnanimi presidenti di tutti gli stati del mondo utilizzano l’architettura come un modo, oppure come una scusa, per connettere la politica con la cultura e dunque per costruire la storia allo stesso modo. L’architettura è uno delle migliori rappresentazioni delle ideologie del potere” [ibid].
Ma nella galleria milanese, come varierà la tensione estenuante dei lavori di Bonvicini, proporzionalmente alla scala delle metrature più ridotte? Come si modulerà la prossemica, il rapporto intimo che stabilirà con il visitatore? “Penso e vivo questa mostra come una sorta di passeggiata urbana”, afferma Bonvicini. “Mi piace sapere che i tre spazi della galleria posseggano diverse temperature visive e che quindi possono instaurare una differente intimità con il visitatore. Questo perché suggeriscono atmosfere disparate pur rappresentando, nell’insieme, una sorta di piccolo borgo, in una via stranamente isolata, molto tranquilla nel centro di Milano. Sono molto attratta da questa piccola realtà tripartita, all’interno della quale voglio far leggere un livello di concentrazione diverso dei miei lavori. Gli spazi, di per sé, hanno infatti una storia diversa. Mentre i civici su strada erano una libreria e una galleria, sono rimasta colpita dal fatto che la sede principale fosse una palestra riabilitativa, con un passato non legato alla conoscenza e alla cultura”.
Bonvicini darà luogo ad una configurazione semanticamente depotenziata della fine della storia come tempo umano, tra riscaldamento globale, terremoti e distruzioni. Una nuova era che esclude itinerari lineari, o riflessioni analitiche predisposte per arrivare alla fine della storia, della negatività oggettuale, della catastrofe naturale, della virtualità semantica e dunque di ogni calamità simbolica. Ma la catastrofe è già avvenuta, come ricordano le colature fra le rovine di Mississippi 2014 (2016). Siamo oltre. E a questo riconoscimento deve seguire, per l’artista, il tentativo di pensare a una nuova condizione del potere, schiacciato dall’imperturbabilità, dall’indifferenza della messa in scena, dall’individualità che rincorre il destino di categorie superate.
“Sono cresciuta al limite della periferia di Brescia”, sottolinea Bonvicini, a proposito di una serie di fotografie che sta preparando, in un luogo chiamato Villagio Sereno. “Oggi mi ricorda da vicino le gated community americane, con quelle cancellate alte che isolavano la città da aree cresciute nel nulla, appositamente per la media e la piccola borghesia. Erano casette come le disegnano i bambini, casette molto stereotipate, per gli anni Settanta, e prendevano forma dall’idea social-democratica. Ma oggi si stanno differenziando, stanno diventando sempre più incongruenti fra di loro. Per me è importante rivelare, attraverso la documentazione dei molteplici cambiamenti che esse stanno subendo, una diversa politica dell’abitare; segnalando come siano cambiate le esigenze del vivere, del risiedere nel corso del tempo e in rapporto alle persone” [ibid].
Perché la scena della storia, dello scambio, del fantasma, delle politiche della distanza, del corpo come feticcio sono finite; con la loro scomparsa ogni radicalità critica, oggi, è diventata inutile. All’interno di questa visione cataclismatica, fabbricare oggetti, costruire case solide anche se comporta la violenza necessaria a strappare alla natura i materiali, aggiunge al reale le cose e la loro durata, creando una regione intermedia, solida e umanamente abitabile, una dimora, che separa gli uomini dalla natura. Gli oggetti artificiali provengono dalla natura, ma non ne sono prigionieri, sia perché l’opera di fabbricazione ha un inizio e una fine ben definiti, e non è quindi un ciclo, sia perché le cose durano senza essere immediatamente consumate. Nell’illusione dell’indifferenza.