Luca Panaro: A differenza di altri artisti che utilizzano la fotografia, le tue immagini sembrano ottenute in “assenza” dell’autore. I soggetti si muovono con estrema libertà davanti all’obiettivo, come se non percepissero la presenza giudicante del fotografo. Qual è il segreto di tale spontaneità?
Nan Goldin: La macchina fotografica non c’è, esiste piuttosto una relazione, perché accetto le cose così come sono. Per questo non proietto niente sui soggetti, anzi faccio in modo che non diventino altro rispetto a ciò che sono. Non ho alcun pregiudizio, nessuna aspettativa. Le persone non devono recitare una parte per me, non mi devono dare quello che voglio. Ciò che mi spinge a fotografarli sono i sentimenti che nutro per loro: rispetto, amore, e spesso attrazione fisica. Non voglio cambiare nulla, né farli essere ciò che non sono, né imprimere su di loro il mio segno. Di recente il mio lavoro investiga piuttosto gli stati mentali e questi probabilmente provengono direttamente da me. Se prima fotografavo gli stati delle persone, ora fotografo gli stati dell’esistenza.
LP: Quindi una ricerca più astratta?
NG: Astratta? Sì, molto più astratta. Continuo a fare ritratti di persone che amo ma, a eccezione dei ritratti di bambini, non è più uno dei miei interessi principali. Forse in parte ciò è dovuto al fatto che molti dei miei amici stanno invecchiando e non vogliono più essere fotografati. Ma è anche una conseguenza del semplice trascorre degli anni. Non sono più ossessionata dall’istinto di fotografare le persone che incontro e che mi piacciono, anche quando mi piacciono molto. Certo ci sono delle eccezioni ma, per esempio, sono anni che non fotografo David… Con il mio iPhone fotografo le persone che mi piacciono, così posso tenerle con me. La funzione che un tempo aveva il mio diario, ora è svolta dal mio iPhone. In questo modo posso mostrarle alle altre persone che amo.
LP: Non pensi che la persona fotografata si possa sentire “violentata” dal tuo gesto artistico?
NG: No. Se le persone sanno che la loro fotografia verrà usata in seguito e hanno una buona dose di controllo su di essa, come in effetti è stato in molte situazioni, allora riescono a essere più spontanee: se la foto non gli piacerà potranno impedire che venga usata. È una relazione di fiducia quella che si instaura. I miei soggetti non arrivano mai a sentirsi vittime della fotografia come succede con i modelli. Sono muse, amici, amanti, ma non penso mai a loro come modelli, penso a loro come “la mia gente”. Credo che emergano le mie emozioni e i miei sentimenti nei loro confronti, ma credo anche che siano loro stessi a emergere per quello che sono, perché non vengono mai soggiogati da me. Anche il fatto che siano coinvolti nel successivo editing e che, a un certo punto, abbiano il potere di dire “non usare questa foto” fa sì che non siano indotti a celare la propria personalità.
LP: Si tratta quindi di una collaborazione.
NG: Non devono mettersi in posa. Ho capito che le persone che si mettono in posa cercano di esercitare una forma di potere, di avere il controllo della situazione. Se invece hanno fiducia nel fotografo non devono posare. Quando le persone vengono fotografate molto e molto spesso, il processo perde la sua invasività e diventa normale…
LP: Qual è l’evento più triste che hai fotografato?
NG: Probabilmente guardare i miei amici morire. Forse per me la fotografia più importante, scattata nell’anno durante il quale mi sono avvicinata maggiormente a quello che ritengo sia lo scopo della fotografia, è la foto di Cookie e Sharon, quella in cui Cookie sta morendo e Sharon è seduta ai bordi del letto. Credo che quella sia stata la prima volta che ho davvero provato rabbia e impotenza nei confronti dell’AIDS. Gente che conoscevo aveva cominciato a morire di questa malattia dal 1981-82; i miei amici avevano cominciato ad ammalarsi nel 1983 e a morire dal 1985. È stato orribile essere presente quella volta e realizzare che non c’era nulla da fare, mentre dentro di me c’era questa bambina che ancora si ostinava a credere che i dottori avrebbero potuto fare qualcosa. Mi ricordo che urlavo al telefono “devono essere in grado di fare qualcosa!” e la persona con cui parlavo mi diceva che non c’era nulla da fare e che Cookie sarebbe morta. Quell’immagine rappresenta la ragione per la quale facevo fotografie: mostrare la condizione umana nel suo stato più vulnerabile, di massima esposizione. Ci sono così tanti elementi in quella foto. Sharon aveva lasciato Cookie e infatti dietro di loro è appesa una foto del matrimonio di Cookie con Vittorio, ma alla fine Sharon è tornata ed è stata lei a prendersi cura di Cookie gli ultimi mesi della sua vita, 24 ore su 24. La foto del matrimonio però è rimasta lì. Un’altra foto significativa è il mio autoritratto davanti all’ospedale realizzato subito dopo aver saputo che sarei stata operata: c’è tutta la paura di quel momento. Vito mi ha ricordato che era un lunedì ed io ero stata picchiata venerdì. Oppure la mia foto nell’albergo, quando sono tornata a casa, quella notte dopo l’ospedale. Il mio amico è uscito per andare in un discount, e sono rimasta da sola. Quel weekend è stato uno dei momenti più tristi della mia vita.
LP: Immagino che il lavoro Sisters, Saints and Sibyls sia stato un modo per superare quel momento…
NG: Sì. Dopo cercai di riprendermi viaggiando ovunque, dalla Svezia a Santa Barbara, California, per cercare tutti quelli che conoscevano Barbara e parlare di lei. Alla fine ho avuto un crollo. Non ho mai finito quella pellicola. Che altro… il periodo che ho trascorso in clinica, quando per disintossicarmi mi hanno tolto le droghe. Non c’è modo di descrivere l’orrore di quella esperienza. Fare fotografie era anche un modo per aiutarmi a superare quel momento.
LP: A proposito di Barbara. Spesso si dice che Sisters, Saints and Sibyls sia stato ispirato da lei. È possibile considerare quel tuo lavoro come estratti del tuo album di famiglia?
NG: Direi piuttosto estratti dei miei diari. In realtà, per molto tempo la mia famiglia non ha significato molto, e dopo la morte di mia sorella me ne sono andata di casa. Più tardi, però, è diventata molto importante. Prima mio nipote, poi i miei genitori. Ho fatto molte foto a entrambi. Tuttavia, sin da quando ero giovane, la mia vera famiglia erano i miei amici della comunità. In questo senso è corretto parlare di istantanee da album di famiglia. Quello che mi piace delle istantanee è che sono un atto d’amore, provengono dal desiderio di ricordare qualcosa e condividerlo con qualcuno. Non devono essere intese come “fotografie”. Ero fiera di essere stata in grado di trasformare l’estetica minoritaria delle istantanee in una forma d’arte legittima, di aver fatto accettare come forma d’arte i momenti più intimi della mia vita che dicevano semplicemente “questa sono io e questa è la mia vita”. Ogni giorno mi trovo ad affrontare il dilemma della condizione umana, chi è l’altro rispetto a me, chi sono io e perché c’è tanto dolore nella vita. Cerco sempre di infrangere quella finestra che ci separa dagli altri. Ho sempre voluto sapere cosa si provava a essere nel corpo di un altro, ma è impossibile, almeno per me. Ci ho provato comunque, con la macchina fotografica. Una delle stranezze degli esseri umani è che non possono vedere la propria faccia, forse per questo il riflesso di noi stessi nelle altre persone è fondamentale. Quando avevo quattordici anni e vivevo in una comune, una terapista mi disse che avevo la capacità di trasformarmi ogni volta nella persona che gli altri credevano io fossi.
LP: Mi piace credere che le tue opere abbiano in un certo senso anticipato il fenomeno dei reality show, anche se poi questo format televisivo si è trasformato in qualcosa di molto distante dalla tua poetica. Cosa ne pensi?
NG: Non ne ho mai visto uno. Non so neanche cosa siano e non voglio saperlo. Quando The Oprah Winfrey Show — che è quanto di più vicino a un reality io conosca — è cominciato, mi sono chiesta se in qualche modo le persone rappresentate nelle mie foto, chiaramente al di fuori dei modelli sociali dominanti, potessero essere considerati degli “emarginati”. Io non li consideravo tali, ero una di loro. Ci interessava quello che pensavamo l’uno dell’altro ma non ci interessava quello che gli altri pensavano di noi. Noi li emarginavamo nello stesso modo in cui loro emarginavano noi. Tossici, puttane, transessuali, drag queen, tutte le persone che venivano considerate negative, erano la nostra vita. Non ci siamo mai ritenuti degli emarginati. Ci sentivamo sicuramente “altri”, avevamo la nostra cultura e il nostro mondo: come avrebbero potuto emarginarci se non ce ne fregava niente della gente “comune”? Tornando alla questione del reality, quando sono cominciati questi programmi televisivi, io ero lì che rendevo omaggio alle mie “celebrità”, trasformando in divi persone che risultavano alla gente normale a dir poco “strane”. Mi terrorizza davvero l’idea di essere in qualche modo collegata a questi programmi. Li trovo agghiaccianti. Il fenomeno Oprah Winfrey consiste nel cercare persone di cui prendersi gioco esibendo e sfruttando la loro diversità. Si tratta di un meccanismo che sensazionalizza la diversità, che trasforma una crisi personale in una forma di intrattenimento. Esattamente l’opposto di quello che faccio io. Tuttavia, la domanda è pertinente. Credo sia legittimo interrogarsi su come il mio lavoro sia collegato a questi fenomeni.
LP: Certo, la televisione dei reality ha preso una piega differente, incentivando l’ossessione della gente per la celebrità.
NG: Sì, ma mostrare la storia di una nana hawaiana transgender violentata dal padre è una forma di sfruttamento, vuol dire trattare le persone come dei fenomeni da baraccone, non credi?
LP: Francamente non ho mai visto il The Oprah Winfrey Show, ma credo che Oprah non consideri i suoi programmi dei reality, ma piuttosto dei talk show. Ho letto che si definisce una giornalista…
NG: Una giornalista?!? Non è possibile! Ma è stata fra le prime a praticare forme di reality…
LP: Pensa piuttosto a programmi come il Grande Fratello, in cui le persone vengono rinchiuse in una casa e riprese 24 ore su 24 finché qualcuno non perde il controllo e combina qualche guaio.
NG: A volte si pensa che il mio lavoro violi la privacy e io rispondo che le persone considerano private le cose sbagliate. Cosa c’è di vergognoso nella nudità, nel sesso? Non ho mai capito perché questi aspetti della condizione umana vengono tenuti segreti come se fossero pericolosi, mentre altre cose ben più orribili vengono considerate pubbliche. Sono cresciuta in una famiglia problematica in cui si litigava molto e si alzava spesso la voce. La nostra maggiore preoccupazione era fare in modo che i vicini non se ne accorgessero, ma naturalmente lo sapevano, e allo stesso modo io volevo sapere quello che succedeva nelle loro case. Rispetto a quelli che facevano finta di non sapere quello che succedeva in casa nostra, apprezzavo di più quei vicini che venivano a parlare con mio padre o con qualcuno di noi per raccontarci i loro problemi. Era un modo per farci sentire meglio, una sorta di manifestazione di solidarietà nei nostri confronti. Penso che il dolore e i traumi siano parte integrante della vita, una delle parti migliori. Non riesco a capire perché le donne si vergognino delle mestruazioni, di allattare in pubblico. È come se venissero ignorate le informazioni fondamentali. Da dove pensano di venire gli uomini? Veniamo tutti da lì! È una cosa che mi sconvolge.
LP: Se potessi inventare una nuova tecnologia applicata alla fotografia, quali caratteristiche avrebbe?
NG: Non ci dovrebbe essere alcuna tecnologia, dovrebbe essere possibile fare delle foto semplicemente con i propri occhi. Meno tecnologia c’è, meglio è.
LP: Prima parlavi di un cambiamento avvenuto nella produzione degli ultimi anni…
NG: Non voglio più parlare di me. Non voglio più urlarmi al mondo. Ho condiviso abbastanza, forse troppo. Tutti sanno quanti anni ho (ride), ho smesso di contare. Non mi dispiace invecchiare, ma non sento la mia età, continuo a sentirmi come se avessi dieci anni in meno. Non desidero più parlare di me, del mio lavoro. Mi interessa pensare in termini più mitologici. Mi interessano la paura, la cecità, il paesaggio. Sto lavorando a una serie di immagini multiple sui processi di trasformazione, di mutamento della forma. Come quando una volta si credeva nella metamorfosi e le persone potevano diventare animali e poi ritornare a essere persone. Non ci ho mai pensato prima, ma forse il mio interesse per le trasformazioni deriva dall’esperienza che ti raccontavo prima, quando da giovane le persone dicevano che io diventavo l’immagine che gli altri avevano di me, perché avvertivo in maniera viscerale il modo in cui gli altri mi vedevano e allora diventavo in quel modo. Che non vuol dire essere un camaleonte, perché il mio desiderio non era propriamente quello di nascondermi. Quindi la metamorfosi appartiene da sempre al mio mondo, alla mia psicologia. Solo che ora non è più questione personale. Mi interessa di più il modo in cui il mondo si trasforma, mi interessa la condizione dell’umanità in generale, piuttosto che quella di una ristretta cerchia di amici. Mi interessano gli stati di paura, di cecità, come il vedere sia indipendente dal funzionamento degli occhi. Inoltre sto facendo molte foto di bambini. Sono attratta dalla loro libertà di gridare e urlare, la vorrei anch’io. È qualcosa di magico. So che può sembrare banale, ma per me il fatto che i bambini siano più vicini al grembo materno significa che probabilmente loro sanno qualcosa che noi abbiamo dimenticato. Il fatto che siano in grado di vivere le loro emozioni appieno seguendo i propri istinti, senza conformarsi alle aspettative altrui, mi affascina enormemente. Il motivo per cui continuo a fare slideshow è che non voglio smettere di fare film e gli slideshow sono i miei film, con il vantaggio che possono essere continuamente modificati, mentre con un film non è così facile.