“Penso che Alighiero Boetti sia il corrispettivo europeo di Bruce Nauman, innanzitutto per quanto concerne la non-linearità del metodo e delle modalità di pensiero. Egli fonda la legittimità del pensare e dell’operare nella ricerca incessante di nuovi territori”.
Con queste parole, a chiusura del saggio nel catalogo Dare tempo al tempo del 1996,1 Jean Christophe Ammann accennava alla possibilità di un parallelismo tra i due artisti evidentemente molto diversi, eppure incredibilmente vicini; una riflessione estemporanea che si mostra però aperta a innumerevoli strade interpretative.
Avvicinare Boetti a Nauman significa innanzitutto cercare di mettere a confronto l’Italia “poverista” con l’America “concettualista”, sebbene entrambi gli artisti siano l’esempio più evidente di un’identificazione impossibile e riduttiva. Allo stesso tempo, la vicinanza tra i due non è riconducibile solo a modalità di pensiero individuali, quanto piuttosto a scelte espressive che si fanno sintomo di una più vasta tendenza internazionale, raccolta sotto la definizione di Post-minimalismo.
È dunque fra il 1966 e il 19722 che il parallelo si fa più stimolante, aiutato dalle reali occasioni di confronto tra i due, offerte dagli eventi espositivi internazionali. Sebbene in un’intervista con Ian Wallace del 1979 Nauman dichiari: “In Europa non ho visto arte che mi interessa”,3 resta difficile da credere che la ricerca di Boetti non abbia quantomeno incuriosito il giovane coetaneo americano. A questo proposito, è importante notare come Nauman e Boetti conducano un percorso di vita quasi parallelo; nati nello stesso mese, ad un solo anno di distanza (Nauman 1941, Boetti 1940), entrambi raggiungeranno la propria affermazione in campo artistico tra il 1966 e il 1967: per Bruce Nauman significativa sarà la mostra personale alla galleria di Nicholas Wilder (1966), per Alighiero Boetti l’esposizione da Christian Stein a Torino (1967).
Entrambi sembrano partire da premesse minimal, poi rielaborate in modo ironico; per Nauman sono le sculture in vetroresina e i calchi, per Boetti le “Cataste” (1966-1967) e i “Metri cubi” (1967), lavori che insistono su un’idea di residualità‚ che supera la finezza e la monumentalità minimalista. Antiminimal è la demistificazione della “floorness” di Carl Andre; le lastre di Nauman del 1968 trovano corrispondenza nel Pavimento dell’artista italiano (1967), una porzione di suolo squadrata secondo profili non ortogonali ai lati delle tavelle che lo compongono, definita da Tommaso Trini “un metro di follia nei chilometri quadrati della realtà”.4
Quasi trentenni, nel 1969 Nauman e Boetti si incontrano alla Kunsthalle di Berna, per “When Attitudes Become Form”: Neon templates of the left half of my body taken at ten-inch intervals di Nauman (1966) e Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969 di Boetti (1969) si dividono la stessa stanza. È proprio questo confronto ravvicinato a suggerire una prima vicinanza tra i due artisti: il calco di Nauman rientra in quel gruppo di lavori accomunati dalla necessità di misurare il proprio corpo in relazione allo spazio, mentre l’opera di Boetti è composta da piccoli blocchi di cemento a presa rapida, segnati dall’impronta della mano dell’autore.
In entrambi i casi ci troviamo di fronte a una traccia lasciata dal corpo dell’artista: trasfigurata nel caso di Nauman, intimamente poetica nel caso di Boetti. Se l’opera dell’artista americano si ferma allo stato di frammento, Boetti utilizza le singole unità per ricomporre un tutto, che prende forma in una silhouette riconoscibile. Su tutto, la forza di aggettivo e pronome personali nei titoli indica un procedimento che vede al centro il soggetto; il “my” di Nauman trova perfetta corrispondenza nell’ “Io” boettiano. L’utilizzo del corpo da parte di Nauman è spesso identificato dall’artista come il modo migliore per studiare se stesso; “oggettivandosi” nei calchi e nelle impronte, Nauman intende sdoppiarsi‚ per poter misurare la propria esperienza nello spazio e in relazione agli elementi circostanti.
Proprio lo sdoppiamento (o meglio, il raddoppiamento) diviene uno dei leit-motiv della poetica di Alighiero, che arriverà a scomporre il suo nome per dar vita a due personalità distinte. Come nota Alberto Boatto, “raddoppiarsi e sdoppiarsi è sempre anche specchiarsi”;5 la scissione in due identità speculari (soggetto del fotomontaggio Gemelli, 1968) si ripropone nello sdoppiamento mano destra/mano sinistra, idea/esecuzione, proprio/altrui. La specularità si afferma nell’opera Oggi è venerdì ventisette marzo millenovecentosettanta (1970), con le mani che scrivono partendo dallo stesso centro per poi proseguire in direzioni opposte (la scissione tra i due emisferi cerebrali, uno razionale l’altro istintivo, porterà l’artista ad affermare che “scrivere con la sinistra è disegnare”6). L’incontro tra le due mani in uno specchio è anche oggetto della fotografia di Nauman Finger Touch n. 1 (1966-67), parte del gruppo delle “Eleven Photographs”; l’artista si ricongiunge con la propria immagine mentre allo spettatore sembra di vedere due entità distinte.
È forse però la dialettica tra i due opposti ordine/disordine a suggerire una corrispondenza ancor più interessante. L’antitesi tra i due termini, che domina in larga parte la produzione di Boetti, viene in realtà affrontata in quanto sintesi dall’artista: “Di fronte a queste coppie di concetti apparentemente antitetici io penso che ogni cosa contenga il suo contrario”.7 Una delle prime opere a far riferimento a tale principio è Ordine e disordine (1971-72), nel quale l’artista sperimenta per la prima volta il concetto della “quadratura”. Il problema di far quadrare il cerchio, o meglio, “di mettere ordine in certi disordini” per dirla alla Boetti, compare anche tra le affermazioni di Nauman e nei suoi lavori, dove pure si riscontra l’oscillazione tra i due opposti, tra la volontà di mantenere costantemente il controllo e l’ambiguità formale.
La combinazione di necessità e caos attraversa tutte le opere di Boetti in cui l’artista fa sfoggio della propria ars combinatoria, talvolta in forma di enigma o di rebus. È il caso di Manifesto (1967-1970) e di Mettere al mondo il mondo (1972-73). La stessa associazione di forma tabulare e criterio strutturale si riscontra in First Poem Piece di Nauman (1968), nel quale l’artista passa da una frase all’altra cambiando solo una lettera, il che comporta lo slittamento del senso complessivo. Procedimenti dunque diversi, che però condividono l’attenzione per le combinazioni variabili del dato linguistico. Proprio l’uso del linguaggio — identificato da Henry Flynt già nel 1961 come materia prima della Concept Art — può servire da ulteriore termine di paragone tra i due artisti, e non solo per quanto riguarda l’uso della parola in forma visiva. Difatti, è possibile notare come Boetti sia sensibile ai “rovesciamenti di senso” che costituiscono il punto di partenza dei lavori al neon di Nauman, incentrati sulla messa in discussione del valore assoluto e universale del contenuto in relazione al contesto. Un’opera di Boetti particolarmente in linea con tali riflessioni sullo slittamento dei significati è Vedenti (1967). A incantare l’artista è il ribaltamento del punto di vista, la creazione di un significato che affonda le radici nel concetto di alterità: l’accezione di vedente, così forte proprio per chi non vede, porta l’artista a riflettere sul senso delle parole in rapporto al contesto. È la stessa ricerca che Nauman conduce sotto forma di giochi linguistici, a proposito della quale è necessario citare la fonte wittgensteiniana.
Proprio alle riflessioni di Ludwig Wittgenstein sembrano legate le considerazioni di Boetti a proposito della “magia delle parole”: l’artista è attratto da quelle particelle che si mettono davanti ai verbi e ne mutano completamente il senso. Segue una lista di tutti i significati possibili ricavabili dai diversi prefissi associati al verbo correre. Continua Boetti: “Ci troviamo di fronte, come nel caso del dis di ordine e disordine, di turbi e disturbi, di segno e disegno, a una serie di piccoli suoni che trasformano, a volte completamente, l’immagine e il significato del verbo iniziale”.8
È evidente a questo punto la vicinanza alle riflessioni linguistiche di Nauman, che giocano sulla mutabilità dei segni per dimostrare quanto la parola “nell’accezione saussuriana” sia effimera. Alighiero Boetti utilizza inoltre enunciati non-sense per le sue cartoline, quali “non marsalarti” e “de-cantiamoci su” che, insieme ai veri e propri giochi di parole (Shaman/Showman e casuale/caos-ale), ricordano da vicino le assonanze linguistiche protagoniste dei lavori al neon di Nauman (tra questi, None Sing/Neon Sign del 1970, Run from Fear, Fun from Rear del 1972, Sugar Ragus del 1973). Ancora, la parola diviene strumento per presentare il proprio nome in forma diversa; come Nauman aveva esagerato il cognome e allungato il nome di battesimo, Boetti scompone e ricompone il proprio nominativo, mettendo poi in ordine alfabetico le lettere ottenute (“Abeeghiiiloortt”).
Altro spunto interessante nel confronto tra i due autori va ricercato nella dialettica soggettivo/oggettivo, che però rivela una presa di posizione diversa. Faccio qui riferimento all’uso del calco in Nauman e all’uso del ricalco in Boetti, tecnica che l’artista italiano adotta a partire dal 1969 (Cimento dell’armonia e dell’invenzione). Nauman parte dalla soggettività corporale per poi oggettivare se stesso; si trasforma in “scultura”‚ tanto nei calchi, quanto nelle performance. Boetti invece parte da un presupposto oggettivo (il foglio quadrettato da ricalcare) per poi ottenere un risultato “soggettivo”. La mano che ricalca si trasforma in sismografo, esaltando e al tempo stesso rinnegando la pura meccanicità dell’azione.
Boetti sembra voler evitare tale apporto soggettivo quando comincia a delegare a terzi la realizzazione dell’opera, scindendo dunque idea ed esecuzione. Nauman al contrario, ammette di non avere fiducia nell’affidare la propria idea ad altri: “A me andrebbe bene anche se il lavoro lo facesse un altro. Il problema è che non si trova nessuno che lo riesca a portare a termine in maniera corretta”.9 Sotto questo aspetto i due artisti mostrano dunque un modus operandi diverso; Boetti sembra rispettare alla lettera le direttive di Sol LeWitt — “l’esecuzione che diventa una faccenda meccanica”10 — più del collega americano.
In conclusione, è significativo citare due opere che sembrano dialogare l’una con l’altra; Autoritratto di Boetti (1969) e Making Faces di Nauman (1968). Nel primo lavoro, Boetti offre il suo volto al lampo della fotocopiatrice, facendo con la mano i gesti che compongono la parola autoritratto. La comunicazione non-verbale si traduce in numerose smorfie del viso, che riportano alle manipolazioni che Nauman fa dei propri lineamenti. Entrambi utilizzano una tecnica inconsueta (la fotocopia, l’ologramma) per mostrarsi allo spettatore. Entrambi fanno del proprio corpo uno strumento di comunicazione.
Al di là della corrispondenza tra alcune opere degli stessi anni, la vicinanza tra Nauman e Boetti va letta anche e soprattutto alla luce di un interesse comune per il ripensamento critico del ruolo dell’artista; il mistico del primo potrebbe essere lo Shaman/Showman del secondo. È anche per questo motivo che i parallelismi qui in oggetto sono emblematici riguardo alla medesima difficoltà di classificare e circoscrivere il lavoro di questi due artisti, accomunati come sostiene Ammann “da una non-linearità di metodo‚ che li porta alla messa in opera di riflessioni straordinarie con risultati inediti”. L’opera con cui vorrei chiudere esula dall’arco temporale finora delineato, ma ben si presta a riassumere il senso di questo confronto: Autoritratto di Alighiero Boetti (1993), una fusione in bronzo della figura dell’artista che si innaffia con una pompa per rinfrescarsi le idee‚ e che si mostra in realtà come una vera e propria scultura da giardino. Inevitabile l’associazione con Selfportrait as a Fountain (1966-67) di Nauman, dove l’artista è intento a spruzzare acqua dalla bocca, dimostra quanto entrambi siano permeati dalla medesima ironia e dalla stessa volontà di mettere in gioco la propria persona, quanto il proprio ruolo all’interno del sistema dell’arte.