Jeff Rian: Qual era l’atmosfera del mondo dell’arte quando hai iniziato a esporre?
Vito Acconci: Avevamo un’idea comune: il sistema delle gallerie sarebbe collassato a causa di ciò che producevamo. Comunque, non penso che si possa definire un traguardo, era più un atteggiamento rispetto alla naturale evoluzione delle cose, era il modo in cui dovevano essere. Non riuscivamo a vendere nulla anche se la galleria non avrebbe dovuto essere un negozio. Il nostro lavoro non rientrava nel concetto degli oggetti ma del sistema di distribuzione. Non c’era più bisogno di un centro così che il mondo newyorkese dell’arte sarebbe potuto collassare.
JR: Aspetta, non andare troppo avanti; torniamo alla fine degli anni Sessanta: pensi che allora l’atmosfera del mondo dell’arte rifletteva quella politica?
VA: Non la rifletteva, ne era parte. Era il periodo delle dimostrazioni contro la guerra del Vietnam, dei primi scritti femministi, era anche il periodo in cui bisognava uccidere il padre in ogni sua forma. Il centro era sinonimo di potere e il potere doveva essere schiacciato; questo centro doveva essere disperso.
JR: Di solito la violenza si produce a causa del cambiamento nella struttura sociale. Qual era il livello di violenza?
VA: C’era la loro violenza e la nostra violenza. La loro era unidirezionale, era diretta contro i giovani. Nel 1968 la violenza era rappresentata dalla polizia di Chicago, ma è stato l’ultimo sussulto di un vecchio potere che si riconfermava, rifiutando di essere ormai vetusto. La nostra violenza era invece diretta su più fronti: era Artaud; sembrava di essere su un palcoscenico. Erano tempi in cui potevi vedere uomini seduti prendere fuoco. Ma ora certamente non più: sto parlando di fatti realmente accaduti per strada o di un film di Godard? E penso che non ne sarei stato sicuro nemmeno allora. La vita era come un film: le notizie erano le pubblicità e il trailer del film che veniva proiettato nelle strade. Così violento da essere la loro violenza. La nostra era troppo disperata per essere tale.
JR: Allora pensi che oggi l’atmosfera sia diversa?
VA: Oggi mi sembra che le persone si arrabbino se vengono lasciate fuori dai luoghi: vogliono l’accesso. Nel 1968 la gente non voleva avere niente a che fare con questi luoghi: voleva stare in un posto che non si poteva trovare sulla mappa. Erano tempi in cui per l’ultima volta si sarebbe creduto nell’utopia. Era l’epoca di Easy Rider e di 2001: Odissea nello spazio, la fine dei film di fantascienza con un futuro tutto bianco, prima del postmodernismo, dell’accontentarsi.
JR: Gli anni Sessanta e Settanta hanno creato gli anni Ottanta?
VA: Pensavamo che stessimo distruggendo il sistema galleria, o al limite che stessimo interferendo con esso, invece non abbiamo fatto altro che renderlo più forte. Il nostro lavoro non si vendeva, ma assicurava l’allestimento della vetrina, cosa che si sposava perfettamente con gli interessi delle gallerie. In questo modo attiravano l’attenzione della gente così che sul retro si potevano vendere le opere di altri artisti. Non è un caso infatti che il primo anno di apertura di 420 West Broadway, Sonnabend aveva organizzato la mia mostra “Seedbed”, quella di Dennis Oppenheim e “Singing Sculpture” di Gilbert & George. Nessuna risultò proficua, ma tutte crearono notevole attenzione. Erano molto più consci di ciò che facevamo e abbiamo messo le gallerie nella posizione di dirci: “Possiamo mettere in mostra lavori come questi e possiamo persino trovare il modo di venderli” (secondo la formula della documentazione). Erano più potenti che mai. Abbiamo permesso che le gallerie ottenessero successo dal nulla.
JR: Quando hai esposto per la prima volta in Europa?
VA: Nel 1971, un anno dopo la mia prima volta a New York. Ai tempi, a causa del successo della Pop Art, l’arte americana era diventata il modello da seguire: ogni galleria o museo doveva avere un americano.
JR: All’epoca creavi arte politica?
VA: I miei primi lavori avevano a che fare con il corpo, con il sé, erano incentrati sulle relazioni della persona, non sarebbero esistiti se fosse stato per gli scritti femministi come Dialectis of Sex (1970) di Shulamith Firestone. L’opera era basata sulla “ricerca del sé” ma, allo stesso tempo, una volta individuato, lo distinguevano. Si riferivano al sé maschile come a un cartone animato.
JR: Ma era un modo di lavorare sull’identità personale, per esempio la tua, o sull’identità in generale?
VA: No, non su un’identità in generale ma su una più indeterminata. Ciò che mi interessava del mio corpo era il modo in cui in tutti i film veniva presentata una figura — la mia — contro uno sfondo in bianco e nero, come se fosse in mezzo al nulla, oppure in un luogo qualsiasi, come se questa figura fosse un tutt’uno con uno spazio universale. Questi film mi facevano apparire come se stessi cercando di eliminare il contesto, e non capivo il perché, o meglio non potevo affrontare le cause culturali e politiche — non mi sarebbe stato possibile finché non fossi arrivato in Europa, dove fui catapultato in un contesto diverso, su un piano instabile.
JR: Hai affermato di aver provato a scardinare il mondo della galleria. Oggigiorno gli artisti sono concentrati sulla dissoluzione, ma non hanno un atteggiamento paranoico nei confronti della politica, sono arrabbiati contro l’abuso della politica.
VA: Provare a scardinare il mondo della galleria era una parte del tutto, ovvero il potere della cultura americana. Sono nato nel 1940, in un periodo in cui credi in questo potere e ne sei contento — lo esalti. Negli anni Sessanta, la gente odiava gli americani, e noi abbiamo cominciato a odiarci. Abbiamo dato il benvenuto alla fine dell’illusione dell’identità, perché significava la fine dell’illusione dell’unità e del potere — sicuramente, da uomini bianchi ci potevamo permettere il lusso di abbandonare un’identità di cui eravamo certi.
JR: Negli anni Ottanta le gallerie e l’arte sono diventate incredibilmente adatte a vendere. Oggi, con la crisi delle vendite, si assiste a una reazione contro il mercato; le emozioni, a ogni modo, sono più libere. C’è più rabbia che celebrazione.
VA: Non sono certo che si tratti di una reazione contro il mercato. Mi sembra che si tratti invece di un modello viziato: ci si sofferma più sull’artista che sul significato del soggetto. Non è un’analisi di ciò che è negativo — a questo proposito è possibile fare scelte libere. Quindi, si adatta bene al mercato dell’arte che dopo tutto valuta la mano dell’artista. La mano, in questo caso, appartiene a un uomo arrabbiato; è uno scarabocchio, ma lo scarabocchio è arrabbiato soltanto nell’atto di realizzarlo. Dopo può essere unicamente apprezzato come sintomo d’invenzione, di intelligenza, di arte. Comunque, esiste un’arte che reagisce al mercato, quella per esempio delle Biennali del Whitney, di cui si parla tanto nelle riviste di settore. Forse non dovrebbe esserlo, perché si tiene alla larga dal regno dell’arte e non ha senso per un pubblico che si presenta come quello dell’arte. È arte pubblica. Oggi, probabilmente, l’arte pubblica più interessante è quella degli architetti. Si crea una partecipazione attiva in coloro che attraversano uno spazio pubblico.
JR: Il tuo approccio all’arte è quello che hanno oggigiorno molti artisti. Le tue radici affondano nella scrittura, non nell’arte. Non hai bisogno di rifarti alla tradizione, puoi semplicemente guardare avanti, come facevi, usando qualsiasi medium che preferisci.
VA: All’inizio degli anni Sessanta non era necessario rifarsi alla tradizione. Io provenivo da un altro contesto: non conoscevo le regole dell’arte. La storia dell’arte non è più importante della storia della cultura in generale; ma non sapevo cosa volesse dire “conoscere”. Si poteva visitare, non si doveva rimanere. Se è vero quello che dici, e cioè che oggi gli artisti vogliono far parte di un mondo in cui possono esprimere qualcosa, la differenza con la mia generazione consiste nel fatto che non volevamo esser parte del mondo dell’arte, volevamo incontrarlo mentre andavamo avanti, usarlo e manipolarlo come un giocattolo in tutto il mondo. Non volevamo esprimere qualcosa, volevamo darle forma — contesto, soggetto, mente.
JR: Pensi che negli anni Settanta ci fosse un obiettivo politico mentre ora c’è un target politico?
VA: Negli anni Settanta, poiché l’arte era trattata come un sistema di distribuzione, c’era un range politico, e forse la dissipazione del concetto stesso di politica. Probabilmente, oggi, a causa del numero crescente di gallerie (una situazione che ogni artista vede nel proprio paese), c’è una concentrazione politica che dipende dai muri chiusi della galleria, all’interno dei quali ogni artista occupa un posto — chi ha a che fare con i fenomeni ecologici, chi con quello dei generi sessuali, ecc. Il potere dipende da quanto è chiuso questo sistema.
JR: Eri un autore che anelava in qualche modo al di fuori, a “esternalizzare” la voce interiore dei confini della pagina. Usavi la scrittura come un trampolino di lancio per lo spazio acustico — architettura, performance, luoghi dove potevano stare i corpi. Fare arte è stato “effimeralizzato” in modo esponenziale in altri media. Secondo me, la rabbia che oggi si osserva riflette in parte l’alienazione dalla tradizione, probabilmente in modo inconscio. Gli artisti cercano di fare da cassa di risonanza all’atmosfera dei mezzi di diffusione di massa — pubblicità, riviste e televisione — ma forse ne sono ancora schiavi.
VA: Gli artisti non devono fare da cassa di risonanza all’atmosfera dei media; l’arte non riflette un periodo. Puoi ispirarti a ciò che vedi là fuori, esserne influenzato, farne una versione o una revisione, e quindi rispedirla indietro lì fuori. Non lasciarla nel mondo dell’arte, spediscila in tutto il mondo, dove ha senso che esista nei termini di questo mondo. Se non hai i soldi della televisione e della pubblicità, prendi spunto dal punk rock: fallo nel garage; rifatti al rap: ruba e prova. Il problema non è la perdita della forma, è la corruzione di un sistema dell’arte. Non è necessario inventare nuove forme d’arte, ma una nuova struttura, un nuovo sistema (o, più precisamente, il ri-uso di un sistema da parte di persone che un tempo si sono definite artisti). Finché il lavoro rimane in un sistema dell’arte, sopravvive sottostando a quel sistema. Glorifica l’oggetto — l’arte per l’arte. O glorifica il sistema — merce. O glorifica l’artista — l’artista come colui che vede, che critica, l’artista che si comporta in maniera violenta. O glorifica il pubblico — il pubblico soddisfatto di recepire un messaggio pre-digerito. Prima mi hai chiesto se il mio lavoro fosse politico. Non ho mai voluto che lo fosse, volevo che parlasse di politica. Volevo che avesse una funzione politica. Politico, per continuare a essere politico, deve mantenere una sola posizione. Arte come politica, può esserlo allo stesso tempo da tutte e due le parti. Non è una predica, è una discussione.