Pubblicato originariamente in Flash Art n. 162 January/February 1992.
Quella che segue è la prima traduzione in italiano a distanza di quasi trent’anni dalla sua pubblicazione sull’edizione internazionale. La lungimiranza con cui Weil analizza la decade ’90 del Novecento, allora soltanto agli inizi, è indicativa della brutalità del cambiamento che il mondo dell’arte affrontava, nel nuovo modo di rapportarsi al tempo, ai mezzi di comunicazione e alla processualità creativa. Analizzando i retaggi e le modalità con cui gli anni Ottanta hanno reagito alla decade precedente, l’autore fa una ricognizione lucida e puntuale del sistema dell’arte all’epilogo della Guerra Fredda, proiettando le modalità delle produzioni artistiche a venire. Alcuni passaggi, così attinenti al presente, sono indice di un evidente ritorno di certi topos degli anni Novanta oggi. Come suggerisce Aria Dean in un recente dialogo con Hal Foster1, sembra che noi stiamo rivivendo i postumi della “svolta degli anni ‘90”, per cui se da un lato c’è stata un’evoluzione e una maggiore comprensione del “reale”, dall’altro stiamo ancora discutendo sugli stessi temi, come se fossimo letteralmente intrappolati nella decade che ha determinato, forse più fra tutte, la società delle immagini.
I primi anni Novanta vedono il ricorrere di installazioni come mezzo privilegiato di comunicazione tra una nuova generazione di artisti. Anche se la processualità ricorda gli anni Settanta, ci sono alcune differenze importanti che distinguono questi nuovi lavori da quelli dell’altro decennio.
Per avere un’idea più precisa di queste differenze, può essere interessante studiare il contesto in cui vengono realizzati questi lavori, in modo da comprendere le basi di tali mutamenti e illustrare i principali problemi affrontati, individuando in particolare una dimensione temporale specifica – il tempo libero – della fruizione dell’arte. Gli anni Ottanta hanno portato e/o confermato grossi cambiamenti nelle nazioni industrializzate: l’accelerazione dell’elaborazione e della trasmissione delle informazioni generata dai sistemi globali di comunicazione e trasporto; un modello economico basato su una intensa speculazione finanziaria e lo sviluppo di industrie dei servizi che hanno confermato la fine di un sistema basato sulla produzione; il rapido accesso all’informazione come principale strumento decisionale.
Questo, a sua volta, ha causato una riorganizzazione dei tempi della vita quotidiana e il modo di rapportarsi allo spazio geografico.
Un flusso costante di immagini emesse da ogni genere di media – pubblicità, notiziari o video musicali – ha generato un senso di saturazione. Il pubblico di massa ha risposto con un atteggiamento disinteressato e apatico, che a sua volta stimola i media a diventare più aggressivi: si ricorre a qualsiasi espediente pur di trattenere l’attenzione, in particolare all’idea di scioccare il pubblico in modo da generare una reazione, sia essa positiva o negativa.
Gli anni Novanta mettono in luce gli eccessi causati da un modello di questo tipo, e quindi i suoi limiti: gli anni Ottanta appaiono oggi più che altro una reazione agli importanti cambiamenti strutturali emersi verso la metà degli anni Settanta.
Come se non bastasse, le situazioni di disagio sociale nelle culture capitalistiche, una crescente consapevolezza dei problemi ambientali e una forte recessione economica mettono seriamente in questione lo stato di semi-coscienza e super-consumismo che ha caratterizzato il decennio passato.
In concomitanza, la caduta del Comunismo solleva la questione di un’alternativa all’ordine capitalistico e mette in discussione un mondo in cui due mega-potenze governano il pianeta. Lo sviluppo di un modello intermedio basato su un pragmatismo illuminato – come il modello socialdemocratico europeo – sancisce la fine di qualsiasi credenza in una struttura politica monolitica.
Le persone sembrano più preoccupate dai problemi che hanno un impatto più diretto sulla loro vita quotidiana, come l’ecologia, l’etica nei riguardi delle minoranze e/o i diritti umani in generale.
Alla fine del nostro Ventesimo secolo non resta dunque nessuna forma particolare di fede con cui generare un nuovo ordine sociale, solo una acuta consapevolezza degli evidenti problemi strutturali. Persino la scienza, che credevamo potesse migliorare le nostre condizioni di vita, è oggi destabilizzata da una forte smentita dei suoi schemi di pensiero. La credenza platonica in un ordine prestabilito creato da qualche potenza occulta ha condizionato la scienza a cercare le regole nascoste che governano la natura; la teoria del caos mette in questione il concetto di ordine e sfida l’idea di progresso scientifico. L’illusione di esercitare il controllo sulla natura attraverso una comprensione logica dei suoi meccanismi non può sopravvivere.
Questo approccio scientifico suggerisce anche la necessità di stabilire legami forti tra le varie forme di ricerca e le loro strutture linguistiche, evidenziando così un limite della specializzazione e portandoci a rivedere tutta la nostra concezione della conoscenza.
Tutti questi elementi destabilizzanti hanno contribuito alla crescente attenzione riservata all’arte come importante ambito spirituale e unico spazio di iconofilia nel nostro sistema sociale postindustriale. L’interesse recente e travolgente del grande pubblico per l’arte ha generato presenze record nei musei, modificando profondamente la struttura e le modalità operative di queste istituzioni. I musei, come nuovi luoghi di culto, sono diventati una destinazione tipica per l’uscita domenicale, generando eventi frequentatissimi come le mostre “blockbuster” sponsorizzate da aziende in cerca dell’espediente perfetto per le pubbliche relazioni. I musei vengono ridisegnati per rispondere alle esigenze di questa nuova funzione; gli sforzi nella presentazione, didattica e monumentalità sono tra i segnali di questa evoluzione.
L’arte è una manifestazione del sacro – il rispetto per il nostro passato come unica fonte affidabile di rassicurazione – o la forma definitiva di consumo. Le strutture artistiche crescono ovunque con scopi e atteggiamenti commerciali, come il franchising – il Whitney, il Guggenheim – e il merchandising (per esempio, gli shop dei musei che vendono il souvenir perfetto).
Negli anni Ottanta gli artisti hanno scelto di affrontare tutte queste questioni con un certo cinismo, producendo perfette icone consumistiche, e/o criticando esplicitamente la struttura dell’arte. La loro produzione trattava questioni come il feticismo, la smania collezionistica e la presentazione; radicare l’arte in un’attività economica li portava a indagare le strutture linguistiche di altri produttori dominanti di immagini, come la pubblicità. Risultato: un rapporto molto più stretto tra artista e cultura.
Negli anni Novanta gli artisti enfatizzano il cambiamento della modalità di interazione con il lavoro dello spettatore, presentando la loro ricerca come un’ennesima forma di comunicazione capace di coesistere con tutti gli altri media.
In rapporto a un altro tipo di realtà, definito dall’importanza crescente della tecnologia nel nostro ambiente familiare e dal modo in cui essa lo ridefinisce, le installazioni tendono a riaffermare l’idea della comprensione concreta e dell’importanza dell’esperienza corporea nell’appropriazione della conoscenza. Ciò rivela il desiderio di un rapporto più stretto con il pubblico.
Enfatizzare la cornice temporale specifica dell’esperienza di fruizione dell’arte rende l’artista un “selezionatore” di informazioni che mira a generare un nuovo approccio al nostro ambiente, permettendo così alle arti visive di assumere la posizione che le forme tradizionali di pensiero non riescono più a occupare.