Questa intervista è l’estratto di una lunga conversazione, nata nella polverosa estate 2009 nello studio di Simone Berti. Gli artisti sono entrati talmente nel ruolo di “lanciatori” che hanno deciso di realizzare le opere a supporto del testo proprio così, lanciandosi e rilanciandosi alcuni loro lavori.
Samuele Menin: Quando partecipate a mostre collettive il tema scelto vi condiziona in modo particolare oppure no?
Simone Berti: Il lavoro di un artista non viene defi nito dal tema. Un artista riesce sempre a trovare una direzione in cui esprimere il suo pensiero, qualunque sia il tema. Anzi, se ci sono dei limiti, è ancora meglio: a volte maggiori sono i vincoli, meno scontata sarà la soluzione. Inoltre, penso che l’operato di un artista assomigli a quello di un pubblicitario che accetta qualsiasi commissione gli venga offerta e deve trovare la soluzione adatta per ogni richiesta. Ciò che cambia è lo scopo: quello del pubblicitario è vendere un prodotto, quello dell’artista è diverso, anche se certe opere sembrano fatte apposta per rispondere al mercato, ma questa è un’altra storia.
SM: Vi è mai capitato di ritrovarvi in una mostra e pensare: “Perché mi hanno invitato? Non so cosa tirarne fuori”?
Diego Perrone: Bisogna pensare anche al ritmo, ovvero pensare che quello che stai facendo è in qualche modo in relazione con il resto della mostra. Sei parte di un ritmo che, se vuoi, puoi decidere di spezzare, oppure assecondare, scomparendo nella sua continuità. Una biennale o una grande mostra collettiva rappresentano anche una competizione visiva tra le opere e questo può generare un equilibrio, sia estetico sia di fruizione dell’insieme.
SM: Mettersi in gioco anche per vincere sugli altri…
DP: Credo che con queste premesse si possa generare un livello per lo meno generoso e comunicativo. Per quanto mi riguarda, preferisco calibrare il mio lavoro sul senso d’insieme, piuttosto che ragionare ossessivamente sulla nuova scultura che ho in mente e che potrei realizzare ovunque.
SB: Per me il lavoro di un artista, se è forte e “bello”, dovrebbe essere autonomo in qualsiasi situazione. La validità di un’opera d’arte dipende anche dalla capacità di reggere in un contesto contemporaneo, al di là di specifi che tematiche e della selezione di opere che ha intorno.
DP: Non possiamo essere solo dei produttori di oggetti forti che possono essere dislocati in vari contesti.
SB: Sono d’accordo sul fatto di tenere in considerazione il contesto quando si progetta un lavoro destinato a una determinata mostra. Tuttavia un’opera deve avere anche una sua autonomia, a meno che non sia un lavoro site specific.
SM: C’è una cosa che mi sono sempre chiesto di te, Diego… Come mai ti interessa così tanto l’orecchio?
DP: È semplicemente una scelta formale. È così bello e così “scientifi camente” interessante: se pensi alla forma del padiglione auricolare esterno…
SM: Ma nel video Angela e Alfonso (2002), l’uomo tagliava l’orecchio della donna…
DP: Nel video sì…
SM: Era una sorta di castrazione?
DP: No, era l’ironia drammatica di un gesto estremo. L’arte si può occupare anche di qualcosa di estremamente doloroso, che fa male.
SM: Fa male a chi? A te stesso, in qualche maniera? A voi artisti?
DP: Secondo me, se sei abbastanza bravo, tagliente e ti tieni sull’equilibrio giusto, puoi far male agli esseri umani… Quanto puoi pungere qualcosa di vivo. Quello che mi interessa è la lacerazione. È più interessante il danno che produce un oggetto, piuttosto che l’oggetto stesso, no?
SB: Mi fai pensare a un’opera che ti viene fi sicamente catapultata addosso. Qui non abbiamo più a che fare con nessun tipo di moralità o amoralità. L’opera è morale?
DP: Non è questione di moralità. È qualcosa che ti travolge, ti capita, ti succede. Come in un lancio. Ha a che fare con reazioni di causa-effetto. È un intento che produce una reazione: sia chi lancia, sia chi riceve ha una responsabilità.
SM: Quando dici che ti fa male, è perché innesca delle reazioni, delle rifl essioni (come le opere sul sociale, i video sui bambini che muoiono di fame, sulla guerra), o qualcos’altro?
SB: Questo è un falso problema che riguarda l’arte. Si continua a parlare di politica, di questioni sociali, ecc. L’arte è sempre politica, ma non ce ne possiamo occupare in modo documentaristico o banale. Si può utilizzare tutto ciò che è contingente per parlare di altro, per presentare una soluzione formale e quindi un certo modo di vedere la realtà. Questo avrà delle ripercussioni, all’apparenza minime, su chi fruisce. Le opere d’arte sono un po’ degli accumulatori di energia che viene lentamente rilasciata, producendo delle lievi alterazioni.
SM: Penso che anche in certi tuoi lavori, per esempio le donne gravide di Die Bauche (la performance che hai presentato alla Rotonda della Besana nel 2008), torni il discorso dell’energia, più precisamente dell’energia potenziale, che potrebbe essere rilanciata.
SB: Sì, mi ha sempre stuzzicato molto l’idea dell’energia potenziale che, idealmente, è una forma di energia cinetica bloccata, trattenuta. Più la trattieni, più si ingrandisce. Pensa alle dighe. Si tratta di dare libero sfogo a questa energia cinetica che si è accumulata. Come una molla, che per più tempo è tirata, e più, psicologicamente, ti aspetti una reazione violenta se liberata.
DP: In un certo senso sei uno scienziato che si occupa d’arte. Stai cercando dei possibili impieghi dell’energia senza pensare ai possibili danni.
SB: In una donna gravida c’è moltissima energia. È come una bomba atomica, come se si fosse innescata una reazione a catena. C’è qualcosa che cresce in lei.
DP: Anche a me interessa l’energia potenziale, soprattutto mi interessa quando viene dispersa. Anche per questo abbiamo deciso di parlare del lancio di un’opera, cioè di qualcosa che viaggia, che non rimane immobile.
SM: La Storia sociale dell’arte di Arnold Hauser analizza come le opere abbiano infl uenzato e cambiato la società attraversandola. Il discorso che fai tu è basato però sul modo in cui una stessa opera possa cambiare ed essere interpretata a seconda delle società che incontra nel corso della storia.
SB: Sì, a seconda di chi ha di fronte si crea un percorso aperto.
SM: Potremmo pensare a come una tua opera avrebbe potuto essere interpretata nella preistoria, oppure tra mille anni. Potremmo seguirla nel suo lancio attraverso la storia, per esempio durante la Rivoluzione francese.
DP: Tutto ciò è legato anche alla perdita di autorialità e di paternità. Se guardi un’opera mentre viene lanciata, nella sua parabola cambierà forma e signifi cato in continuazione.
SM: Questo perché cambia anche in base al contesto in cui la si lancia, cambia il suo significato.
SB: Però per noi è impossibile percepire un’opera nel suo cambiamento completo.
DP: Forse perché chi la realizza e la lancia, un po’ la perde per sempre. Non è più tua perché è il processo che hai innescato nel lanciarla che comanda.
SB: Magari quel gesto gratuito è lo specchio della situazione politica del paese in cui l’artista che compie il gesto vive.
DP: La scena sociale italiana di questo periodo dovrebbe metterci in una condizione di emergenza.
SB: Gli artisti dovrebbero reagire, ma in modo nuovo. Chi è al potere usa dei mezzi di controllo camuffati da intrattenimento televisivo. È una forma di convincimento fortemente violenta, va a modifi care la coscienza delle persone. Forse, gli artisti dovrebbero usare un metodo simile, anche se naturalmente andrebbe contestualizzato. Per esempio, se un artista si mettesse legato fuori da un museo ad abbaiare, non avrebbe lo stesso senso che ha avuto nell’ex-Unione Sovietica di Oleg Kulik.
DP: Proprio a proposito di questa vecchia performance di Oleg Kulik, mi ricordo che anni fa dicevamo di come l’allora società dello spettacolo e dell’immagine avesse smorzato la capacità di reazione dell’individuo, un po’ come se la provocazione fosse legittima e la si potesse assecondare con una scrollata di spalle.
SB: L’ipotetico artista italiano potrebbe intervenire diversamente in maniera politica, anche in modo subdolo, visto che la politica italiana di oggi è subdola. Un’opera potrebbe anche sembrare non politica ma riuscire, a distanza di tempo, a innescare qualcosa. C’è anche da dire che l’arte ha un ruolo molto limitato e di nicchia. Poi però ci sono pubblicitari, cineasti, giornalisti, illustratori, persone che non ignorano del tutto l’arte contemporanea e che hanno un pubblico più ampio rispetto al nostro. C’è una maggioranza di gente che non va nei musei, ma guarda la pubblicità. Il tuo ruolo sembra non politico, ma in realtà può intaccare il modo di pensare del pubblicitario e, in seconda battuta, arrivare a un pubblico più ampio.
DP: Ma non sarà che noi abbiamo paura di fare opere troppo semplicistiche? Forse il punto è che abbiamo paura di arrivare in maniera diretta al rapporto di causa ed effetto. Abbiamo forse bisogno di mascherare con vari fi ltri, o di lavorare di più sulle metafore.
SM: Forse è dovuto anche a un retaggio della storia dell’arte italiana? È talmente complessa che ancora ci muoviamo in un ambito tendenzialmente intellettuale.
DP: Sì, può essere una lettura, forse sopravvalutiamo il nostro ruolo. Essere artisti è un valore troppo alto per noi e questo ci fa sentire in una condizione di inferiorità e inadeguatezza rispetto a quello che siamo chiamati a rappresentare, visto che abbiamo alle spalle l’Umanesimo, il Rinascimento, ecc. Probabilmente viviamo quasi un senso di inferiorità rispetto ai padri, intesi come la storia alle nostre spalle. Da qui, la paura di essere troppo diretti, la paura di produrre o di essere riduttivi e semplicistici, invece che semplicemente espliciti.
SB: Secondo me invece non è così. Molte delle nostre opere sono esplicite e dirette, un concetto messo lì e fi ne. Il problema semmai è che il lavoro non sia didascalico e privo di complessità.
DP: Ma siamo sempre spaventati dal fatto che venga detto tutto. Abbiamo sempre bisogno del lirismo o di celare.
SM: È un po’ il meccanismo delle soap opera. Per invogliarti a vedere, lasciano in sospeso, provocano nello spettatore desiderio e frustrazione.
SB: In altre parole, un artista non dovrebbe parlare esplicitamente di politica perché rischia di essere didascalico. Ma deve darti le coordinate, delle indicazioni affi nché tu possa cambiare il tuo modo di vedere la politica. E può farlo anche dipingendo una natura morta.
SM: Come se ti desse delle chiavi di lettura.
SB: Sì, dobbiamo però evitare il pericolo che un’opera diventi moralistica. Tornando al nostro lancio, si potrebbe pensare a come cambia un’opera lanciata nella storia. Anche se poi tutte le opere in realtà sono lanciate nella storia.