Viviana Bucarelli: Il sole del tuo The Weather Project (2003) ha illuminato per mesi il cielo grigio di Londra, o almeno quello riflesso all’interno della Tate Modern. Ora ti proponi al grande pubblico americano con una importante mostra itinerante — la tua prima personale organizzata da un museo negli Stati Uniti — attualmente in corso al San Francisco Museum of Modern Art e che, a partire da aprile 2008, sarà ospitata al MoMA di New York. Quali sono le tue sensazioni su questa “esperienza americana”?
Olafur Eliasson: Il mio rapporto con l’America è ormai di lunga data e molto produttivo: risale al 1996, quando ho cominciato a lavorare con la Tanya Bonakdar Gallery di New York. Ho partecipato, in questi anni, a diverse collettive, sia nella East che nella West Coast, ho collaborato spesso con diverse istituzioni e università americane e sono stato invitato in più di un’occasione a tenere delle conferenze. Ma effettivamente questo è il primo appuntamento presso istituzioni museali autorevoli. Ed è un fatto importante perché l’ambiente, l’allestimento, l’impostazione curatoriale hanno un impatto significativo sul mio lavoro. Le mie opere sono influenzate, e quindi dipendono, dal contesto nel quale vengono esposte. Questo è un aspetto fondamentale, anche se allo stesso tempo rende le mie opere più fragili e richiede da parte mia un grande impegno affinché, al termine dell’allestimento, il risultato sia dei migliori.
VB: Quali sono le difficoltà e le peculiarità che presenta l’installazione delle tue opere in un grande museo rispetto a uno spazio di dimensioni minori?
OE: Innanzitutto la portata del pubblico. Un museo con un’affluenza di 10.000 visitatori al giorno ti pone davanti a problemi diversi rispetto a uno spazio che ne accoglie qualche decina. Problemi che vanno risolti, per riuscire a creare comunque un ambiente intimo, particolarmente sensibile come io credo debba essere quello per la fruizione delle mie opere.
E poi i musei, in quanto grandi istituzioni, hanno esigenze particolari. Hanno un’ideologia, una “politica” da portare avanti. Per esempio, i dipartimenti educativi sono spesso troppo orientati verso le esigenze economiche del museo. La maggior parte, specie negli Stati Uniti, ha le audioguide. Ma io non ne ho ancora trovata una appropriata per la comprensione del mio lavoro. In generale sono ovviamente un sostenitore dell’educazione all’arte, ma penso che debba avvenire in altri ambiti, vicini ma non interni al museo. L’audioguida interrompe l’intimità tra il fruitore e l’opera. È educazione, non arte. E io non faccio educazione, faccio arte.
VB: Che differenza c’è tra un museo americano e un museo europeo?
OE: Hanno una tradizione diversa, ma la questione è molto più complessa. I musei americani possono essere molto più attenti alle necessità di profitto dell’istituzione e, in un certo senso, i musei europei possono essere meno condizionati. Ma è anche vero che negli Stati Uniti ho trovato, sorprendentemente, una grande profondità riguardo all’aspetto teorico legato alla ricerca, molta disponibilità a venire incontro alle mie idee e grande collaborazione. Se manifesto una necessità, se esprimo una mia idea, vengo ascoltato e viene fatto di tutto per aiutarmi a realizzarla. L’Europa invece, spesso, deve fare i conti con un sistema burocratico che rallenta le cose.
VB: Quali sono state le difficoltà nell’allestimento di questa mostra?
OE: A San Francisco ho avuto un rapporto fantastico con il dipartimento curatoriale e ritengo che Madeleine Grynsztein sia probabilmente oggi uno dei migliori curatori al mondo. Dico questo perché, oltre ad avere una sofisticata preparazione e conoscenza della storia e teoria dell’arte, dell’antropologia, della sociologia, della cultura economica, è un curatore che aiuta concretamente l’artista nel suo lavoro. Resta al suo fianco affinché l’allestimento risponda a quelle che sono le sue idee e le sue intenzioni, anche quando sorgono problemi con l’ingegnere addetto alle norme antincendio o con i tecnici, e le cose sembrano difficili da risolvere. L’artista non può combattere da solo contro il sistema in cui viene a trovarsi, ha bisogno di alleati, e il grande curatore è quello che si schiera dalla tua parte, senza creare fratture con l’istituzione. Questo non significa che Madeleine non sia stata critica nei miei confronti; al contrario, abbiamo avuto diverse discussioni e spesso ho trovato i suoi suggerimenti illuminanti.
VB: La mostra presenta, oltre a lavori precedenti, anche opere inedite…
OE: Il considerevole numero di opere in una mostra come questa fa sì che la sequenza stessa costituisca in sé un’opera d’arte. Racchiude una storia dalle grandi possibilità narrative, costituisce un viaggio che si sviluppa da un’opera all’altra; si inserisce l’elemento temporale, particolarmente importante. Inoltre, ciò che è affascinante di una mostra itinerante è che in ogni installazione puoi avere una sequenza diversa. E la storia quindi cambia.
VB: Hai realizzato anche diversi lavori site specific…
OE: A San Francisco ho creato un tunnel sul ponte alto più di 11 metri, visibile dall’atrio cinque piani sotto, che entra in relazione con l’architettura del museo. Così come a New York: sia al MoMA che al P.S.1 le opere saranno legate al contesto della struttura. Mi affascina la possibilità di ottimizzare la peculiarità di uno spazio. All’interno di una struttura museale mi interessa confondere i limiti tra opera e architettura, per stimolare il senso critico del pubblico e spingerlo a interagire in modo personale con l’ambiente che lo circonda, a stabilire un diverso rapporto con ciò che vede, a guardare le cose in un modo nuovo, a porsi dei dubbi, a interrogarsi e chiedersi “ma quello è il muro o è un’opera d’arte?”. Un aspetto particolarmente interessante per me è proprio il dubbio: porre dubbi, creare incertezze. Il che apparentemente può sembrare destabilizzante e controproducente, ma nelle mie intenzioni è finalizzato a guardare la realtà con occhi nuovi, rimettere in discussione il proprio sistema di valori.
VB: Parliamo della prossima installazione al MoMA…
OE: Ecco, il MoMA presenta un “problema”: il “peso” della sua storia, del suo passato, dal quale difficilmente può liberarsi. Vi è racchiusa una tale quantità di capolavori che è come visitare la maggior parte dei musei del mondo nello stesso momento. Nella storia del museo, inoltre, ci sono stati momenti di innovazione e altri più conservativi. Il mio intervento si riallaccia alle origini della storia del museo, che si basano su un approccio profondamente critico. E consente di visitarlo con uno sguardo fresco, nuovo e, ovviamente, pone dei dubbi. Se il museo è capace di reinventarsi acquista nuovamente un ruolo critico, e lo spettatore si trova a rimettere in discussione la sua visione al suo interno. E, nello stesso modo, farlo in generale, mettendo in crisi il proprio sistema di valori. È un grido di rivendicazione dell’individuo. La realtà non è stata creata per miracolo, è invece il risultato della costruzione di essa che noi stessi facciamo. E può cambiare, continuamente. Tutto può cambiare.
VB: Questo porta a riflettere su altri aspetti…
OE: Sì, sulla politica, sulla democrazia, per esempio. E sul fatto che il concetto di quest’ultima va reinventato affinché sia la democrazia nella quale vogliamo vivere. Per me, sfumare i confini tra una struttura architettonica e un fascio di luce, o tra un’opera e un elemento della struttura museale, non vuol dire solo frantumare le barriere tra i generi in sé e per sé, ma mette in discussione il concetto stesso di democrazia. So che sembra che porti un po’ troppo in là questo discorso, ma non importa.
VB: A proposito di questioni importanti del momento: il tuo lavoro è stato influenzato dalla crescente consapevolezza dei problemi legati all’ambiente, come i cambiamenti climatici o il surriscaldamento del pianeta?
OE: La natura mi ha sempre interessato, ma non sono mai stato un ambientalista. Mi ha sempre interessato il modo in cui la natura ci parla di come l’uomo guarda alla natura stessa. Detto ciò, sono ovviamente sensibile ai problemi legati all’ambiente e non ci sono dubbi sul fatto che la nuova consapevolezza generale di queste problematiche abbia influenzato le mie opere. Senza che questo crei però nessuna particolare rottura o modifica rispetto al mio lavoro precedente. Anzi, credo ci sia una grande continuità. Quel che poi ritengo straordinario e che mi appassiona molto è il fatto che il Green Movement, il movimento ambientalista, oltre ad avere evidenziato che bisogna riconsiderare il prezzo alto che si paga per il progresso, ha avuto il merito di ricreare un senso di appartenenza alla comunità. Ci ha insegnato che si può essere parte della collettività senza perdere la propria individualità. Viviamo in un periodo dominato dall’egomania e dalla mancanza di senso di responsabilità…
VB: In che senso?
OE: Nel senso che ogni persona, sia a livello individuale che di politica delle istituzioni e di rapporti internazionali, si occupa soltanto di se stessa, senza considerare le conseguenze che si ripercuotono, in un modo o nell’altro, su tutti. Fenomenologicamente parlando, ognuno di noi modifica la realtà. È solo il non far niente, il non prendere posizione, il disinteressarsi che credo sia profondamente negativo. Bruno Latour, per esempio, filosofo e sociologo della scienza, si occupa proprio della possibilità di rivalutazione dell’essere singolo e cittadino globale o individuo sociale al tempo stesso, e della relazione tra i due aspetti.
VB: Quando hai iniziato a interessarti alla fenomenologia?
OE: A dire la verità quando ero studente. All’inizio non mi ero specializzato in nessun campo specifico, ho attraversato diverse fasi e a un certo punto mi sono interessato in modo particolare alla danza. Poi mi hanno incuriosito le teorie sulla psicologia della Gestalt e gli studi che si occupavano della relatività delle cose e del fatto che la realtà dipende da come viene percepita. Il che significa che il modo in cui ci relazioniamo alla realtà, neurologicamente e fisicamente, è strettamente legato al modo in cui percepiamo il mondo esterno. Ma non ho un legame particolare con la fenomenologia; non mi interessa se è autoreferenziale ma se si relaziona alla realtà. Come quella di cui si occupa un altro studioso che ammiro molto, Dan Zahavi, professore dell’Università di Copenhagen, uno dei maggiori esperti di Husserl.
VB: Nel tuo lavoro è anche molto importante l’idea di trasmettere il concetto di comunicazione tra le persone…
OE: Sì. Nel 1994 ho realizzato un lavoro (Moss Wall) sulla differenza tra osservare un’opera d’arte da soli o insieme ad altre persone. E sulle sensazioni che si sviluppano in una situazione come questa, nonché sul valore che la consapevolezza dell’essere insieme ad altri dà all’esperienza. Se pensiamo al modo in cui le opere d’arte sono state fruite nella Storia, all’interno delle chiese, nelle corti, nei palazzi, negli studi, ci si rende conto che non si era mai da soli. Nessuno, probabilmente, ha mai osservato la Gioconda in solitudine… L’arte è un modo bello ed efficace di vivere l’esperienza della collettività, e la comunicazione è tutto. Per questo non voglio che si attribuisca troppo significato al mio lavoro, perché è in gran parte basato sul dialogo. L’opera non esiste senza il pubblico, questi è parte integrante dell’opera stessa e della sua creazione.
VB: I “materiali” che utilizzi sono la luce, il colore, l’acqua, il vapore acqueo. A questo proposito Jonathan Crary, critico e docente della Columbia University, ha scritto, “non [sono mai] fenomeni autonomi… [ma] veicoli per l’esplorazione di una vasta gamma di fenomeni umani e sociali”.
OE: Certo. Nelle mie opere ho investito sulla relazione tra l’aspetto estetico e la realizzazione di qualcosa di bello e in qualche modo effimero, e sul modo di tramutarla in qualcosa di reale. Ho sempre pensato al mio lavoro come a qualcosa di strettamente connesso alla realtà, non lontano dalla realtà e tanto meno come una fuga dalla realtà.
VB: Quali sono i tuoi progetti futuri?
OE: È un periodo di grande ispirazione: in studio stiamo portando avanti una serie di nuovi esperimenti dei quali sono entusiasta e contemporaneamente sto lavorando alla realizzazione di un’accademia d’arte che sia allo stesso tempo un museo e uno studio. Nascerà a Berlino, probabilmente all’inizio del 2009. Ho grande fiducia nel futuro dell’arte.
VB: L’arte quindi ci salverà?
OE: Non sono sicuro di questo. Ma penso che contribuisca, per il peso che può avere…