Recentemente il filosofo Reinaldo Laddaga ha cercato di individuare alcuni precedenti di base alle iniziative di artisti e di collettivi artistici che, sorti con il nuovo millennio, sono oggi impegnati su scala globale nella definizione di un nuovo rapporto tra spazio pubblico e produzione sociale. I progetti del teatro proletario a Mosca o a Berlino negli anni Venti, i nuclei di artisti lavoratori a Parigi o a Rio de Janeiro negli anni Quaranta e Cinquanta, i movimenti degli spazi alternativi a New York degli anni Sessanta e Settanta rappresentano per Laddaga un primo catalogo di precursori possibili ma non tali da spiegare completamente il fenomeno attuale delle comunità artistiche sperimentali e dei processi collaborativi che esse attivano¹.
Martha Rosler, riproponendo la scena della controcultura americana — dalle West Coast women come Suzanne Lacy e Leslie Labowitz ai gruppi musicali come Mothers of Invention e ai collettivi newyorkesi — ha parlato invece del nuovo rapporto tra arte e attivismo inaugurato con Seattle come di una sorta di ritorno “ambiguo” all’arte politica anni Settanta, consigliando ai nuovi protagonisti di rileggere Adorno come deterrente per una deriva mainstream del fenomeno. Oggi, per Martha Rosler, non solo sarebbe necessario ma addirittura indispensabile riaprire il dibattito rimasto interrotto tra Adorno, Brecht e Benjamin sulla strumentalizzazione dell’opera d’arte nell’epoca dell’industria culturale tardo capitalista².
C’è chi ha trovato nei concetti chiave elaborati dal situazionismo — quali détournement, regime spettacolare, urbanistica unitaria — il punto di partenza per un’ipotetica genealogia della scena artistica attuale; c’è chi, come Suely Rolnik, ha arretrato questo punto al movimento antropofagico brasiliano degli anni Venti che dunque, come tale, non può più essere visto esclusivamente quale precedente di tutte le formazioni d’avanguardia brasiliane successive ma come premessa metodologica a una globalizzazione dell’arte dal basso. Nella pratica dell’antropofagia il colonizzato, invece di accettare la propria condizione come subalterna e di sottomettersi alla cultura dominante, “cannibalizza” gli elementi della cultura del colonizzatore come forma di appropriazione, di adattamento ai repertori locali e di decostruzione del discorso egemonico³.
Rolnik orienta il suo sondaggio archeologico a partire dalla nozione di “soggettività flessibile” che trae dalla contrapposizione formulata da Brian Holmes tra “personalità autoritaria”, come tipica figura della modernità, e “personalità flessibile”, come nuovo soggetto politico e sociale che si afferma con il progressivo sviluppo della tecnologia informatica e con quello di una conseguente “classe virtuale”⁴.
C’è chi invece ha spostato gli inizi del dibattito artistico ed estetico contemporaneo a partire dal movimento di azione culturale rivoluzionario argentino Tucumán Arde, che alla fine degli anni Sessanta ha concepito l’arte essenzialmente come pratica politica proponendo tre differenti livelli di strategia operativa: uno sociologico, relativo a come documentare la crisi economica nella provincia argentina, uno controinformativo, sui modi di comunicare la crisi, e l’ultimo relativo agli spazi d’arte e, dunque, direttamente espositivo.
Per parte loro, Catherine David e Jean-François Chevrier — forse per primi e da una prospettiva programmatica — hanno rivisitato una serie di eventi tra il 1945 e il 1997 che sono caratterizzati da una dimensione di critica radicale a un modernismo dogmatico e riduttivista, alla fondazione antropologica della cultura occidentale, alle categorie e alle gerarchie dell’arte e della conoscenza. Artisti come Marcel Broodthaers, Hélio Oiticica, Öyvind Fahlström, architetti come Aldo van Eyck, fotografi come Garry Winogrand e Helen Levitt sono alcuni dei protagonisti di questo nuovo racconto che presenta se stesso come alternativa fondamentale all’interpretazione avanguardista del Novecento⁵.
A partire da queste proposte di continuità storica non c’è chi non veda come la ripresa attuale del progetto culturale modernista — come emancipazione sociale, critica istituzionale, domanda di democrazia, relazione tra arte e realtà — difficilmente possa collocarsi entro le premesse e gli sviluppi della modernità artistica stessa.
Attraverso queste formazioni a genealogie multiple, sotterranee e frammentarie, che sono il risultato di differenti modelli di osservazione, risulta impossibile vedere le pratiche artistiche emerse negli ultimi anni come una diretta emanazione del background modernista, oltre l’interruzione dell’era della deregulation reaganiana, del “There Is No Alternative” di Margaret Thatcher, del relativismo di tutti i valori degli anni Ottanta.
Ma non si tratta di verificare più o meno le condizioni di una storia lineare della modernità: i suoi fenomeni di persistenza, le forme di ricorrenza di progetti, di aspirazioni, di parametri. Non si tratta neppure di verificare se la modernità è andata in polvere una volta per tutte, come ha già detto Appadurai. Tanto meno di decostruire l’immagine unitaria della tradizione delle avanguardie artistiche del Novecento nel momento in cui si cerca di formulare una possibile genealogia del nuovo spazio di politicizzazione che ora si sta aprendo con la relazione recente tra pratiche artistiche e istanze attiviste. L’impressione generale è che anche le domande di emancipazione e il discorso di critica radicale che il dibattito estetico e artistico contemporaneo solleva non siano più così “moderni” e che abbiano, cioè, referenti diversi (i “molti” invece del “popolo”), spazi d’intervento differenti (il “qui e ora” determinato rispetto al luogo deputato), obiettivi diversi (la fine dell’utopia), oltre alle molteplici strategie messe in opera per raggiungerli.
Venuta meno la cornice socialista, e ormai all’interno di un regime produttivo totalmente trasformato come quello postfordista, è possibile che i termini del problema siano ancora gli stessi? Non c’è nessuna differenza visibile tra le dimostrazioni degli Art Workers’ Coalition e le proteste o escraches (exposure protests) del Colectivo Etcétera? Tra la strategia di “The People’s Choice” (1981) di Group Material e quella del “Wunscharchiv” (Archivio del desiderio) (1996) del gruppo Park Fiction? Tra la messa a nudo della “corporation culture” da parte di Hans Haacke e la cartografia delle maglie nascoste del capitalismo da parte di Bureau d’ñtudes? Tra la messa in scena della xenofobia in Adrian Piper o in Black Audio Film Collective?
Nel tempo del “lavoro immateriale” — secondo la definizione di Maurizio Lazzarato⁶ — non solo non è possibile conservare una rigida divisione tra produzione intellettuale, azione politica e cultura: è addirittura impensabile distinguere il lavoro dal resto dell’attività umana. Se nel regime fordista, come dice Paolo Virno⁷, l’intelletto restava fuori dal ciclo produttivo, nel postfordismo attuale — al contrario — lavoro e non-lavoro sviluppano una identica produttività basata sull’esercizio di generiche facoltà umane come il linguaggio, i sentimenti, la socialità, l’estetica, ecc. Le differenze allora tra le forme della disobbedienza civile anni Sessanta-Settanta e le pratiche insurgent della scena artistica attuale diventano immediatamente comprensibili. Non è un caso neppure che le forme del neomovimentismo contemporaneo così come quelle dell’attivismo artistico attuale si definiscano proprio a partire da uno sfondo comune caratterizzato dalla fine del politico. Il differente rapporto giocato con la rappresentanza e il potere è così il vero discrimine tra l’arte politica degli anni Settanta (o più genericamente modernista) e quella attuale. Non c’è più l’aspirazione a impadronirsi dello Stato (o dei suoi istituti come il museo, il partito, il luogo del lavoro, ecc.); è piuttosto un’attitudine a difendersi e a uscire da esso ciò che caratterizza la situazione attuale. In questo senso la rappresentazione del dissenso contemporaneo si manifesta non solo e non tanto come critica teorica o protesta attiva quanto come defezione, esodo, uscita. “Exit”, come avrebbe detto il sociologo Albert O. Hirschman, non “Voice”: abbandono anziché scontro. Ricerca di nuovi spazi d’intervento, di pratiche costituenti, di micro-azioni su scala locale, di forme di autogestione, di autorganizzazione, di empowerment.
La critica istituzionale del museo è ciò che accomuna Broodthaers, Haacke e altri artisti del periodo. Molta dell’energia degli Art Workers’ Coalition è stata spesa negoziando con i musei: quando fanno un’incursione con il loro poster “And Babies?” contro la guerra del Vietnam nella sala del MoMA che ospitava Guernica e quando nel 1970 distribuiscono il loro statement con le richieste ai musei americani in 12 punti in cui chiedono ingressi liberi, l’estensione delle attività espositive nelle comunità nere e portoricane, l’appoggio delle donne artiste, ecc. Così anche quando, per la mostra “The People’s Choice”, Group Material chiede agli abitanti del quartiere ispanico sulla East Thirteenth Street di New York di scegliere una serie di oggetti da esporre che abbiano un significato per loro e per le loro famiglie, ha ancora come referente il museo e il suo ruolo ufficiale. Al contrario, quando Park Fiction richiederà agli abitanti del quartiere St. Pauli di Amburgo di visualizzare i propri desideri, ciò sarà rivolto alla definizione di un progetto di costruzione collettiva di un parco urbano lungo le rive dell’Elba. Così, nel 1917, Marcel Duchamp presenta a New York la sua opera Fountain per esporla presso la Società degli Artisti Indipendenti: un orinatoio rovesciato ed enigmaticamente firmato “R. Mutt”. Nel 2003, al contrario, Marjetica Potrc realizza una vera toilet (Dry Toilet) nel barrio La Vega a Caracas confrontandosi con le pressioni della città informale e inaugurando un nuovo rapporto tra architettura e infrastruttura tale da spostare le facoltà d’intervento dalla istituzione pubblica alle iniziative individuali⁸. Dry Toilet è un powerful tool per un’arte della sopravvivenza o una sorta di tactical media come quelli a basso costo e fai-da-te proposti dai mediattivisti?
Molti altri casi potrebbero ancora testimoniare lo spostamento da una rappresentazione univoca del ruolo dell’autore alle attuali forme mimetiche, rizomatiche e impreviste che questo viene ad assumere, così come una grande trasformazione si registra nella definizione delle piattaforme flessibili e aperte degli attuali workteam artistici in cui figure eterogenee si confrontano per discutere, progettare, operare: dal gruppo danese Superflex a quello di San Pietroburgo, Chto Delat?/What Is to Be Done?
Credo che proprio rispetto al rapporto tra arte e politica uno spostamento radicale dalle istanze della modernità si sia registrato. Non solo pensando al rapporto dissolto dall’avanguardia tra arte “pura” e “politica”, ma anche al differente ruolo dell’engagement politico nell’arte così come è rappresentato nella teoria di Lukacs o in quella di Adorno e cioè nella concezione di un’opera d’arte organica o di un’opera d’arte d’avanguardia⁹. Oppure se penso che ancora in Benjamin la posta in gioco è tra la politicizzazione dell’arte o la estetizzazione della politica, in cui l’una è subordinata comunque all’altra o viceversa.
Oggi, sia che partiamo dalle teorie di Jacques Rancière o di Bernard Stiegler sulla questione del sensibile come momento d’incontro tra estetica e politica, sia che l’approccio metodologico appartenga alla tradizione dell’operaismo italiano, e dunque si fondi sulla trasformazione del processo di produzione contemporaneo, la dimensione del rapporto si gioca nell’immediata coincidenza tra lavoro e percezione, tra produzione materiale e intellettuale, tra struttura e sovrastruttura.
A questo punto le domande fondamentali mi paiono allora: quale modello di rappresentazione dei “molti” si contrappone e si sostituisce al declino delle immagini unificanti delle appartenenze moderne di classe, popolo, nazione, razza e religione? Che cosa si sostituisce all’idea di utopia? È possibile l’invenzione di organismi politici non rappresentativi, cioè di un modello di democrazia non rappresentativa? È ancora possibile separare le storie convergenti dei movimenti artistici dalla formazione dei nuovi protagonismi sociali? I luoghi rispettivi della loro produzione? Se lo zapatismo dichiara che il proprio luogo non è la fabbrica ma le profondità sociali, possono le pratiche artistiche rivendicare un proprio luogo di produzione?
La tematica della comune di Parigi e la tematica dei soviet — ha detto di recente Paolo Virno — diventano realistiche solo ora, solo a queste condizioni di sviluppo scientifico, intellettuale, comunicativo10. Ma forse si tratta ancora di un problema di genealogia.