Da molti anni, specialmente in ambito nord-americano, si è sviluppato un vasto dibattito sull’esistenza di uno specifico omosessuale. All’interno del più vasto campo del gender, i queer studies si sono progressivamente ampliati, passando da un’iniziale rappresentazione enfatica di eventi, fatti storici, testi letterari e artistici riguardanti direttamente persone omofile, o vicende che con esse possono esser messe in relazione, a un più ampio e ambizioso progetto di rilettura del presente in chiave esclusivamente omosessuale.
Il discorso si fa più complesso quando si vogliono individuare i canoni di uno “specifico omosessuale” nell’arte. Cosa si dovrebbe intendere per “arte omoerotica”? 1
Opere create da artisti della cui omosessualità siamo certi e in cui spesso, ma non necessariamente, è riscontrabile qualcosa che rimanda a un gusto omoerotico? Oppure bisogna prendere in considerazione l’opera di autori che ufficialmente non risultano omosessuali ma le cui creazioni rivelano un erotismo che rimanda senza ombra di dubbio a un taglio omofilo?
Definire un’opera d’arte dal punto di vista del genere di appartenenza è impresa ardua, vana quasi quanto il discettare sul sesso degli angeli. È un’operazione priva di senso. Nella valutazione dell’opera d’arte si prescinde dall’identità del suo artefice, la si considera forma oggettivata e come tale non appartenente né al maschile né al femminile; scaturisce da una zona indeterminata, androgina, ne conserva il carattere di identità ambigua pur restando essenzialmente neutra sotto il profilo linguistico-formale. Provocatoriamente sarei portato a dire che l’opera d’arte è tutta ermafrodita, vive di pulsioni ambivalenti e autonome, tra oscillazioni sentimentali ed emotive che ne costituiscono l’identità e, al tempo stesso, la probabilità esistenziale.
Una lettura critica dell’opera d’arte intenzionata a prendere le mosse dall’omosessualità del suo autore solleva inoltre una serie di delicatissime questioni di metodo. La conoscenza dell’orientamento omofilo dell’artista diviene la premessa necessaria per allertare il fruitore circa la possibile presenza di una rappresentazione metaforica dell’omosessualità. Ma non sarebbe forse più corretto sul piano metodologico considerare la componente omosessuale come una tra le tante possibili, e di certo non la più determinante, nell’approccio critico all’opera stessa? Quale rapporto s’instaura tra biografia e interpretazione? È possibile, o meglio, è corretto servirsi della biografia dell’artista per nutrire l’interpretazione dell’opera? Anche se si accetta l’assunto freudiano dell’arte come una sorta di biografia o di autobiografia artisticamente trasfigurata, ciò non comporta che autobiografia trasfigurata debba essere necessariamente intesa come autobiografia della differenza, né pensare che essa basti di per sé a gettar luce sul seno dell’opera d’arte.
È senza alcun dubbio fuorviante dare a fattori extra-testuali un’importanza tale da prevaricarne gli aspetti strutturali. Questo discorso vale tanto per l’artista eterosessuale quanto per quello omosessuale. L’orientamento sessuale deve rimanere sullo sfondo, sia che si tratti di eterosessualità, condizione esistenziale “normale”, quindi socialmente accettata, sia di omosessualità, percepita dal senso comune come condizione “altra”. Omosessuali o eterosessuali che siano, gli artisti condividono il medesimo atteggiamento di sfida.
La considerazione paritaria dei due orientamenti non esclude tuttavia la sostanziale diversità dei punti di vista a essi corrispondenti. Il mondo omosessuale passa al vaglio tutto quello che il mondo eterosessuale dà per scontato. Da questo continuo ripensamento prende l’avvio un processo globale di reinterpretazione della realtà che conduce alla formazione di un immaginario di impronta schiettamente omosessuale, consentendo l’individuazione di una serie di emergenze tematiche. Un intenso patrimonio di sensazioni, emozioni e stati d’animo, accentuati da un particolare modo di sentire, che accumulandosi nel “corpo” dell’arte si offrono come concrezioni linguistiche talvolta esplicite e dirette, più spesso oblique, di artisti che hanno fatto della diversità esistenziale la condizione prima del loro agire.
D’altronde la rappresentazione visiva di soggetti strettamente connessi all’omoerotismo è presente nella storia dell’essere umano dalla notte dei tempi, anche se le valenze culturali che esprime e i significati che sottende sono ovviamente il riflesso di contesti storici e socio-culturali diversi. Scene a sfondo omoerotico compaiono nella produzione vascolare dell’antica Grecia e nei bassorilievi persiani, agli albori dell’arte orientale come nella rinascenza italiana e nel barocco, nel neoclassicismo e ancora nell’accademismo ottocentesco; un fil rouge sottile che attraverso cortocircuiti e scarti giunge sino a oggi, sviluppandosi autonomamente e molto tempo prima dell’elaborazione del moderno concetto di diversità di genere.
Tuttavia per parlare di un’arte propriamente omosessuale, o almeno deliberatamente intesa come tale, bisogna aspettare la nascita del movimento gay, l’avvento di quella che in America chiamano “post-Stonewall era” (1969) e soprattutto l’imporsi di un mercato gay di massa, che sdogana una produzione artistica destinata a una committenza che non ha problemi ad autoidentificarsi in quanto gay. Prima di questa data non è possibile parlare di un’arte dichiaratamente omosessuale, ma al massimo di una generica sensibilità omoerotica. E qui iniziano i problemi: indagare questa “zona grigia” significa mettere in questione letture critiche stratificate, porre domande “scomode” sulle ragioni di uno sguardo o di un certo approccio all’Eros da parte di un determinato artista. Significa quasi profanare quello che aveva inteso mantenere segreto, ambiguo, volutamente sfuggente, svelare la “metà oscura” di un’arte che non osa dire il suo nome. È questo il caso di molta arte omofila, ovvero prodotta nel corso dei secoli per committenze che desiderano soggetti e temi omoerotici ma non esplicitamente dichiarati tali: l’omosessualità è stata per lunghi secoli un reato punito con la morte. Diviene quindi necessario che l’opera si adatti a una cerchia di persone più ampia, in modo da poter essere letta anche, ma non necessariamente, in senso omosessuale, tranne che da pochissimi membri di una élite socio-culturale che possiede la chiave interpretativa per decifrare una serie di messaggi: “Poiché l’omosessualità non ha goduto di un discorso su se stessa pubblicamente sancito, il testo omosessuale si è dovuto occultare fra le pieghe di un discorso dominante e nascondere con abilità, in modo da prevenire qualsiasi insinuazione circa la sua presenza e nel contempo rivelarsi in trasparenza. Fino a ieri, i lavori che esibivano passioni omosessuali hanno messo in atto un’elaborata strategia di messaggi riconoscibili e codificati, nascosti e palesi”.2 Più raramente l’opera può concedersi di essere esplicita, poiché creata per una cerchia di persone ristrettissima, nonché abbastanza potente da non temere contraccolpi seri in caso di scoperta. È ormai acclarato che il primissimo Caravaggio producesse per una committenza omosessuale molto ristretta che faceva capo al cenacolo del cardinale Del Monte.3 Un microcosmo abitato da Bacchi e Giovanni Battista allusivi e a tratti lascivi che ricordano “pericolosamente” i ragazzi fotografati secoli dopo da von Gloeden.
Tracciare una storia dell’omoerotismo nell’arte è impresa da più parti affrontata. 4 Tutti concordano nell’attribuire all’antica Grecia il fulcro della storia visiva dell’omosessualità nell’arte occidentale, probabilmente per il complesso rapporto erotico-iniziatico, a sfondo educativo, che lega l’adolescente all’adulto. Una relazione simbiotica dalla quale il giovane, in una fase transeunte della sua formazione trae vantaggio dall’esperienza e dalla protezione dell’adulto in cambio del dono di sé, senza che tuttavia questa fase temporanea incida sullo sviluppo della sua sessualità matura in direzione eterosessuale a garanzia della conservazione della specie. Ne Il Simposio, Platone fornisce una spiegazione mitica della naturale propensione degli umani alla androginia 5, ma al tempo stesso per bocca di Pausania opera una distinzione tra due tipi di Eros destinata a divenire celebre: quello volgare che fa capo ad Afrodite Pandemia e quello di Afrodite Urania che “non ha parte alcuna della natura femminile, ma soltanto di quella maschile, e [che] poi è il più antico e privo di dissolutezza ed è per questo che quanti sono ispirati da un tale Eros si rivolgono al maschio” 6. La sfera del mito pullula di vicende e tematiche a sfondo omoerotico: celebre è il ratto di Ganimede a opera di Zeus, considerato a buon diritto “il prototipo arcaico del mito di fondazione dell’omosessualità” 7, nonché topos dell’iniziazione rituale fondata sulla coniunctio asimmetrica tra senex e puer e riproposta nelle bipolarità mortale/immortale, divino/umano e variamente personificate da Achille e Patroclo, Armodio e Aristogitone, Eurialo e Niso, Apollo e Giacinto, Eracle e Ila.
Passando dal mito alla storia, i protagonisti di vicende omofile si moltiplicano, assurgono a exempla di “amore greco” che l’arte classica ed ellenistica celebrano e parallelamente canonizzano in una tipologia entrata a far parte del patrimonio iconografico dell’arte occidentale.Dalla vasta contaminatio tra iconografia della cristianità e tradizione classica nascono una serie di recuperi risemantizzati. Emblematici il caso di Ganimede assimilato a San Giovanni Evangelista e quello dell’aquila-Zeus divenuto il simbolo del Cristo; la conversione della dualità senex-puer nel binomio Padre-Figlio porta alla trasformazione dell’aquila pagana nella colomba dello Spirito Santo, a completamento dello schema trinitario 8.
Un mito con salde radici nella sensualità e nel desiderio viene così trasformato in emblema dell’ascesi spirituale. Del resto tutta la cristianità occidentale è segnata dal connubio tra misticismo e desiderio: da santa Caterina da Siena e Angelo da Foligno a santa Teresa d’Avila, assorta nell’estasi della trasverberazione, capace di coinvolgere il corpo in una esperienza orgasmica che permette nei momenti di massima concentrazione interiore di sperimentare “movimenti naturali”9, dal renano Meister Eckhart per il quale il desiderio porta all’identificazione con Dio al fiammingo Ruisbroek che nel desiderio identifica invece il fondo stesso della preghiera. Eppure uno degli aspetti peculiari del cristianesimo, rileva Bataille, è stato proprio quello di connettere l’erotismo e la sessualità in genere all’idea del male, attribuendo all’Eros una dimensione peccaminosa, un senso del proibito pressoché sconosciuto all’antichità.10 “Uno slancio omosessuale percorre i mistici — come Origene o Giovanni della Croce, ma anche Jean Genet e Pier Paolo Pasolini — che invocano il Cristo come sposo”.11 È un racconto di corpi estremi, dove anelito spirituale e pulsione corporea si fondono indissolubilmente. L’iconografia si adegua: Georges Didi-Huberman sostiene che il lavoro di figurabilità di tutta l’arte occidentale si basi sulla doppia incarnazione del Cristo in carne e in immagine.12 Di qui discende un processo che, dall’Umanesimo in poi, autorizza gli artisti a rifarsi alla mimetica classica. D’altronde “in tutto quello che è dilagato dagli effetti del cristianesimo, nell’arte in particolare, tutto è esibizione di corpi evocanti il godimento”.13 Quanti scuoiamenti, crocifissioni, torture, quante estasi suadenti e martirologi gaudenti costituiscono il soggetto privilegiato di tanta arte occidentale, a tal punto che “da nessuna altra parte come nel Cristianesimo — avverte Lacan — l’opera d’arte come tale si verifica essere in modo più patente quel che è sempre e dappertutto-oscenità”.14
È questa la vertigine data dall’immagine aperta che “attraversa il tempo secondo la modalità dell’impensato, del sintomo, della sopravvivenza: rimozioni e ritorno del represso, ripetizioni e rielaborazioni, tradizioni e anelli mancanti, movimenti tettonici e sismi di superficie”.15
Un racconto che dall’ideale tracima nel corporeo, oltre ogni antropomorfismo e figurazione, dove le metafore diventano metamorfosi, i segni si tramutano in sintomi e la carne, infine, si fa immagine. Le fonti testimoniano le propensioni omosessuali di numerosi artisti:16 da Donatello (la cui predilezione per i ragazzi è rivelata da una serie di documenti, tra cui le Facezie del Poliziano) a Leonardo, denunciato per sodomia nel 1476 e forse processato per lo stesso reato (i suoi contemporanei hanno lasciato accuse esplicite, a partire da quelle circostanziate del “Dialogo V” del Libro dei sogni del Lomazzo); da Botticelli (denunciato per sodomia nel 1502, altro soggetto di outing da parte del “pettegolo” Poliziano) a Michelangelo (che ammette sorprendentemente in un suo sonetto privato d’essersi congiunto con un tal Cecchino de’ Bracci e che per tutta la vita si infatua di fanciulli, sia pure presentando sempre il suo perfetto amore come “socratico”, ovvero platonico): da Giovan Antonio Bazzi, su cui il Vasari ci informa che si acquistò il soprannome di Sodoma al Cellini (che di condanne per sodomia ne subì più d’una), fino al Caravaggio stesso, e la lista potrebbe, di molto, allungarsi. Ognuno di loro ha lasciato potenti rappresentazioni di erotismo maschile, indipendentemente attinte dalla mitologia classica come dall’iconografia cattolica, e nel giudizio estetico a noi poco interessa se i loro corpi a tratti languidi, a tratti esangui ma a tratti anche prepotentemente sensuali, celino una propensione omofila dell’autore o meno.
Sotto il profilo iconografico il caso San Sebastiano è esemplare della costruzione tipologica di un mito gay. Un santo che affolla l’iconografia occidentale: da Antonello da Messina a Botticelli, da Mantegna a Tiziano, dal Sodoma a Guido Reni che fornisce a Mishima la fonte iconica ispiratrice delle sue attività masturbatorie, come egli stesso ammette in Confessioni di una Maschera. Un santo celebrato da numerosi artisti omosessuali come Marsden Hartley, F. Holland Day, Frank O’Hara, e ancora Marcel Proust, Tennessee Williams, Derek Jarman, Pierre et Gilles. La rappresentazione di questo giovane corpo dolente trasudante una sensualità estenuata, già quintessenza tipologica del puer, assurge a simbolo della bellezza maschile e poi dalla fine dell’Ottocento, attraverso un progressivo illanguidimento, a icona gay par excellence, a mito della cultura che celebra nella sua figura l’espressione più alta del legame indissolubile tra bellezza, dolore ed estasi: Ecce [H]Omo.
La feticizzazione del classicismo prolunga la durata del modello iconico, travalica i limiti temporali e si proietta nel futuro. Al tempo della Belle Epoque il riferimento nostalgico agli antichi ideali della civiltà classica diventa un deliberato travestimento, si esprime in modo latente tramite simboli, allusioni, allegorie, metafore, espedienti che consentono alle tematiche omoerotiche di passare attraverso le maglie della severa moralità censoria.
Le fotografie del barone Wilhelm von Gloeden (1856-1931) e dei suoi epigoni, come Vincenzo Galdi (attivo tra il 1895 e il 1907) o Gaetano D’Agata (1883-1949), sono emblematiche di questa tendenza. Il prelievo del modello greco-arcadico è letterale, trasposto in ambientazioni idilliache popolate da efebi atteggiati in pose classiche, ignudi o abbigliati da toghe succinte. I giovani siciliani dagli occhi di cerbiatto ritratti da von Gloeden restano riconoscibili nella loro attualità che ai nostri occhi appare ormai “d’epoca”. Questo slittamento temporale amplifica l’effetto spiazzante dell’insieme, richiama un’età dell’oro tanto mitica quanto posticcia, popolata da pastorelli glabri e nudi bruniti dal sole che spesso mostrano le acciaccature della povertà, ostentano una muscolatura nervosa che tradisce la natura contadinesca più che il dichiarato modello apollineo di partenza. È proprio questo “difetto” stilistico, dovuto alla difformità delle proporzioni che si distaccano da quelle classiche, a enfatizzare, tra l’altro, l’appeal erotico di queste immagini.
Più crude e meno estetizzanti le fotografie del cugino del barone, Wilhelm von Plüschow (1852-1930), che inizia a produrre nudi maschili verso il 1880, forse a Napoli. Nel decennio successivo diviene tra i più celebri autori di questo tipo d’immagini in Europa, avviando un vero e proprio commercio para-pornografico ante-litteram su larga scala. Non a caso von Plüschow lavora anche su commissione, ritraendo in costume adamitico i giovani amanti di un’intera generazione di turisti gay in Italia, il più famoso dei quali un tale Nino Cesarini, legato al barone francese Jacques d’Adelswärd Fersen (1880-1923), protagonista de L’esule di Capri (1959) di Roger Peyrefitte. Con il passare degli anni la fama di von Gloeden ha eclissato la memoria del cugino, al punto che sovente la produzione di entrambi è stata oggetto di numerosi conflitti attributivi. Eppure le immagini di von Plüschow possiedono un’immediatezza, un realismo che von Gloeden invece deliberatamente evita: “mentre i lavori di Gloeden presentano un aspetto artistico-sperimentale più accentuato e si ispirano alle tendenze artistiche della sua epoca, l’opera di Plüschow ne appare nettamente differenziata tanto sul piano dello stile quanto su quello del contenuto. Essa pare evolversi dalla semplice messa in scena ad una concezione verista del nudo”.17 In questo senso von Plüschow è finanche più moderno, ma l’estetica imbevuta di citazionismo del barone è destinata a consacrare una serie di stilemi acquisiti successivamente dalla fotografia omoerotica, un genere a lungo considerato estraneo ai territori dell’arte, che ha il merito di tradurre in immagini il pensiero del proprio tempo, diventando contemporaneamente emblema dello stile di un epoca. Classicismo ed esotismo sono utilizzati da von Plüschow con parsimonia, nel vano tentativo di aggirare la censura. Espedienti che non gli risparmiano il carcere e nel 1907 l’espulsione dall’Italia per una vicenda di prostituzione minorile, mentre von Gloeden, nonostante le diverse denunce, vi termina i suoi giorni indisturbato.
È lungo i percorsi tortuosi della fotografia omofila e omoerotica che si può facilmente rintracciare la storia del coming out dell’arte gay, da una fase ancora “eroica” ai giorni nostri. A cavallo tra Ottocento e Novecento si afferma la cosiddetta “fotografia pittorialista”, caratterizzata da un approccio fotografico atto a imitare, quanto più possibile e con l’ausilio di tutte le tecniche all’epoca disponibili, la pittura. È l’impossibile tentativo, prima dell’avvento del digitale, di ibridare reale e immaginario, ma in un’ottica ancora di emancipazione della fotografia da vile atto meccanico al rango di Arte.
Fred Holland Day (1864-1933) è uno degli esponenti principali di questa tendenza. Le sue immagini alludono all’antichità classica nella posa, nella composizione e spesso nel tema. Profondo conoscitore delle opere degli antichi maestri e della statuaria classica, come dell’arte giapponese e dei disegni del contemporaneo Aubrey Beardsley, sviluppa uno stile accattivante e complesso, animato da contrasti di luce e dalla combinazione di motivi esotici con elementi simbolisti. All’inizio del secolo breve la sua influenza e la sua reputazione di fotografo rivaleggiano con quella di Alfred Stieglitz, la cui fama, una volta tramontata la moda del pittorialismo, avrebbe più tardi eclissato la sua. Lungo la strada che dalle emergenze tematiche porta alla “post-Stonewall era”, un posto d’onore spetta sicuramente a Paul Cadmus (1904-1999), esponente di spicco, insieme al compagno Jared French e George Tooker, di quel movimento passato alla storia come “Realismo Magico Americano”. Il lavoro di Cadmus può inquadrarsi agilmente nella tradizione figurativa interna al XX secolo, da Balthus a Magritte, da Francis Bacon a Lucien Freud. I suoi primi dipinti si contraddistinguono per la feroce satira morale ma soprattutto per la sfacciata venatura omoerotica, a tratti quasi oltraggiosa. I suoi referenti sono eterogenei: dal segno inciso e nervoso di un Matthias Grünewald alla visionarietà caustica di artisti a lui più vicini come James Ensor, Otto Dix o George Grosz. Consumato artigiano, riscopre la tecnica rinascimentale della tempera all’uovo, che richiede grande destrezza, donando in compenso effetti di straordinaria lucidità e brillantezza ai colori. I suoi nudi maschili migliori risalgono alla metà degli anni Quaranta, quando l’artista si concentra sulla giovane working class newyorkese. I suoi personaggi appaiono oggi quasi ultra-mondani, liberi da ogni obbligazione sociale, altamente sessuati e liberamente sessuali. Cadmus traghetta l’estetica dello sguardo omoerotico maschile verso una maggiore consapevolezza, ne problematizza l’estetica. Il suo lavoro e quello degli altri realisti magici, influenzato in parte dagli esiti coevi del Surrealismo, si carica di una riflessione psicologica su una realtà nascosta, intercettando trasversalmente la sensibilità delle fotografie di George Platt Lynes, le innovazioni nella danza, sostenute dal cognato di Cadmus, Lincoln Kirstein; il cinema sperimentale, e penso ai lavori di Maya Deren e Kenneth Anger, le esplorazioni letterarie di E.M. Forster.
Il cinema dal canto suo muove molto precocemente i primi, timidi passi, fin dai tempi del muto, sovente caratterizzato da fugaci apparizioni d’individui omosessuali rappresentati genericamente, se uomini, con una gestualità affettata, truccati o con all’occhiello un garofano verde (simbolo distintivo dello scrittore omosessuale Oscar Wilde). Questa rappresentazione stereotipata garantisce l’immediato riconoscimento, atto a suscitare l’ilarità del pubblico. È il caso, tra gli altri, di Charlot Macchinista, girato da Charlie Chaplin nel 1916. Risale al 1930 il primo celebre bacio omosessuale della storia del cinema: Marlene Dietrich, in Morocco (di Josef von Sternberg): travestita da uomo durante uno spettacolo, bacia una donna del pubblico. A seguito della relativa libertà degli esordi, sotto la spinta delle frange più reazionarie dell’opinione pubblica, nascono le commissioni di censura, per tagliare nelle pellicole i contenuti ritenuti osceni: uno per tutti, il famigerato “Codice Hays” in vigore negli Stati Uniti dal 1934 al 1967, che proibisce di mostrare a qualsiasi titolo, anche negativo, personaggi omosessuali nei film, in quanto la loro pura e semplice apparizione è considerata immorale. L’omosessualità se non sparisce, diviene a questo punto molto più difficile da identificare nella cinematografia successiva, se non ancora una volta attraverso allusioni, codici, piccoli stereotipi relativamente espliciti per l’epoca in cui sono stati realizzati, ma che oggi a malapena decodifichiamo. Una situazione che permane, più o meno invariata, fino agli anni Settanta del Novecento. L’omosessuale è quasi sempre un personaggio negativo, portatore di un vulnus che spesso paga con la morte: la cameriera morbosamente attaccata alla sua padrona in Rebecca, La prima moglie di Alfred Hitchcock (1940) o il personaggio velatamente gay di Plato in Gioventù bruciata (di Nicholas Ray, 1955). In Improvvisamente l’estate scorsa, (diretto da Joseph L. Mankiewicz e tratto dall’omonima pièce teatrale di Tennessee Williams, 1959), il volto del protagonista, omosessuale, non viene mai mostrato per tutta la durata del film!18
Negli stessi anni è attivo in Francia Jean Cocteau (1889-1963). La sua attività teatrale e cinematografica lo mette in relazione con registi come Rossellini (che porta sul grande schermo La voix humaine con Anna Magnani), Visconti e Fellini ed esercita una profonda influenza sulla Nouvelle Vague e in particolare su Truffaut. Pur senza affrontare esplicitamente tematiche omosessuali i film di Cocteau, di cui spesso è protagonista Jean Marais, suo compagno per molti anni, emanano una forte carica omoerotica. Al centro dell’attenzione della cinepresa sono spesso uomini attraenti, in genere poco vestiti, che intrattengono relazioni ambigue: Orfeo e Cégeste in Orfeo (1950) o Paul e Dargelos e Agathe in Les Enfants Terribles (1950). Freud a proposito di Le sang d’un poète (1930) affermò enigmaticamente che era come guardare attraverso il buco della serratura un uomo che si spoglia. Diversamente i suoi disegni sono tanto raffinati quanto audaci: dalle torbide illustrazioni per Jean l’Oiseleur, Ad Usum Delphini (1925-26), alla selvaggia e virile bellezza di Dargelos ritratto nei disegni pubblicati nel romanzo-confessione, pubblicato anonimo, Le livre blanc (1930), che può essere considerato a buon diritto il suo “manifesto” omosessuale; dai disegni grottescamente osceni dell’album La vierge au g. c. (1931) al beardsleysiano La peur donnant des ailes au courage (1938); dagli Orfeo “carnali” ai nerboruti marinai delle più che esplicite illustrazioni per Querelle de Brest (1947), capolavoro di Jean Genet portato poi sullo schermo da Fassbinder (1982), che tanto ha influenzato l’immaginario omosessuale, fissando per sempre il mito omoerotico del marinaio. È questo un altro topos ineliminabile, affrontato da una serie di artisti omosessuali come Charles Demuth (1883-1935), Tom Keogh (1921-1980), Ed Cervone (1945-2001), le cui illustrazioni, ancora regolarmente pubblicate nelle riviste per soli uomini di tutto il mondo, si avvicinano nello stile a quelle di Tom of Finland, (Touko Laaksonen, 1920-1991), artista che mette in scena una sua personale mitologia che si concentra sugli archetipi della mascolinità gay: boscaioli, operai, motociclisti, poliziotti, uomini vestiti di pelle, soldati e soprattutto marinai, trasformati in porno-attori iperdotati, generalmente intenti in brutali performance erotiche che si spingono nei domini del leather e del sadomaso.
L’industria del cinema a sua volta crea nuovi campi d’applicazione: gli Stag Films, questo il nome attribuito ai film pornografici prima della legalizzazione nel 1970. Il primo film pornografico noto è prodotto in Europa nel 1908. Le prime scene spinte, gay e bisessuali risalgono invece agli anni Venti, quando è prodotto e distribuito in Francia Le menage moderne du Madame Butterfly. A causa delle restrizioni giuridiche, gli inizi della pornografia gay si consumano in produzioni underground, la cui commercializzazione consiste nella distribuzione di immagini di singoli uomini nudi o dotati di perizoma. La pornografia gay, tra il 1940 e il 1950, è incentrata su uomini atletici e culturisti in pose statuarie, con un approccio che noi oggi definiremmo decisamente softcore.
Il risvolto “legittimo” di questa tendenza è costituito dalle foto “discinte” (sia femminili che maschili) dei divi del grande schermo, che iniziano a essere proposti e venduti come “sex symbol”. Fin dall’epoca dei divi del cinema muto rimangono icone immarcescibili (e irriducibilmente ambigue) le fotografie di attori come Rodolfo Valentino o Ramon Novarro, ritratti a torso nudo o in costume da bagno. Queste foto, commissionate dagli stessi studios, sono destinate soprattutto a un pubblico femminile di “fan” e veicolate attraverso una rete capillare di riviste specializzate, sempre più diffuse e vendute a basso costo.
Accanto a questo settore, fino alla seconda guerra mondiale cresce costantemente la fotografia legata al “culto del corpo”. Questo fenomeno dà l’abbrivio alla nascita delle prime riviste dedicate alla cultura fisica (celebre, longevo e spesso audace il mensile francese La culture physique), da cui deriva il termine “culturismo”, o la statunitense Physique Pictorial, su cui inizia a pubblicare, a partire dal 1956, lo stesso Tom of Finland. Gli editori si rendono presto conto del potenziale commerciale di questo tipo di prodotto e spingono per pubblicare immagini sempre più sensuali ed erotiche.
Paradossalmente nel dopoguerra gli Stati Uniti, pur essendo una nazione più puritana rispetto alla media dei paesi europei, surclassano l’Europa (anche) nella produzione di nudo artistico maschile. Il nuovo benessere di massa, unitamente alla crescita vertiginosa della sottocultura omosessuale, fanno esplodere la domanda di nudo maschile commerciale. La chiusura delle frontiere a immagini considerate “oscene” costringe gli americani a dotarsi necessariamente di una produzione nazionale.
Alla fine degli anni Cinquanta Bruce Harry Bellas (1909-1974), meglio conosciuto come Bruce of Los Angeles, è uno dei fotografi più rappresentativi dell’estetica beefcake (“bistecconi”) legata al mito crescente della cultura fisica: è l’irruzione di un erotismo esuberante, che ibrida i registri del nudo artistico e di quello erotico-commerciale. Questo tipo di produzione dilaga anche al di fuori degli Usa, grazie alle riviste specialistiche e alla crescente popolarità di culturisti come Steve Reeves, cui il cinema peplum hollywoodiano dischiude le porte dell’olimpo delle star. Una vera produzione di massa, smerciata per corrispondenza o attraverso riviste di culturismo. Fra i nomi più celebri: John Mizer della Athletic Model Guild, Lon of New York, attivo fin dagli anni Quaranta, Douglas of Detroit, Dave Martin, Milo of Los Angeles, Chuck Renslow (Kris of Chicago) della Western Photography Guild e di studi o artisti meno noti come Les Demi-Dieux, David of London, Vince of London, dei francesi Jacques Ferrero e Bruno Caro.
Antitetica la sensibilità del più famoso George Platt Lynes (1907-1955), la cui ricerca, influenzata dal Surrealismo, si nutre di una compostezza classica ma allo stesso tempo straniante. Amico di Jean Cocteau e Julien Levy, è un riconosciuto fotografo di moda: lavora per Vogue, Harper’s Bazaar, per le quali ritrae diverse star del cinema di Hollywood, da Katharine Hepburn a Gloria Swanson e Orson Welles, ma anche intellettuali come Aldous Huxley, Igor Stravinsky e Thomas Mann. La vera passione della sua vita è tuttavia la fotografia omoerotica, iniziata negli anni Trenta e coltivata per oltre due decenni. Fotografa nudi amici e attori, tra cui un giovane Yul Brynner, ma questa sua attività rimane rigorosamente privata per anni, anche se vende sotto pseudonimo le sue immagini a riviste omofile europee. La sua cifra stilistica inconfondibile si distingue per l’estrema pulizia formale nella composizione dell’immagine e la drammatizzazione sapiente che imprime alle luci creando vibratili effetti chiaroscurali, dove ogni singolo elemento, dall’ambientazione alla posa stessa del modello, rimandano a un ideale armonico di classicità atemporale; caratteristiche che faranno di George Platt Lynes un altro nume tutelare della posteriore fotografia omoerotica. Tra gli alfieri di una corrente della fotografia che potremmo definire “naturalista”, emblematico in Germania il lavoro di Kurt Reichert, la cui concezione del nudo corrisponde all’ideale “wagneriano” propugnato dall’estetica nazista almeno quanto quello di Leni Riefenstahl, controversa regista del regime. Il suo ideale apollineo di bellezza, potenza e forza, ne farà negli anni un altro autore di culto per la fotografia di nudo maschile. Di ispirazione classicista in quegli anni anche il lavoro del raffinato Raymond Voinquel (1912-1994) e del tedesco Herbert List (1903-1975), le cui composizioni austere, in bianco e nero, scattate per lo più in Italia e Grecia, hanno avuto un ruolo determinante per la fotografia moderna, in particolare per fotografi di moda come Herb Ritts, palesemente influenzati dal suo stile.
Attivi negli stessi anni, lo scrittore e fotografo statunitense Carl Van Vechten (1880- 1964), figura di spicco del movimento culturale della “Harlem Renaissance” si specializza soprattutto nei ritratti, celebri quello di Gertrude Stein, di cui è amico, Francis Scott Fitzgerald, Frida Kahlo e Diego Rivera. Nella fotografia omoerotica, tenuta rigorosamente segreta tutta la vita e riscoperta solo postuma, denota una particolare predilezione per i ritratti di uomini di colore, un’attitudine in linea con in suoi interessi letterari, ma allora rara negli USA. Herbert Tobias (1924-1982) invece, documenta il fronte russo e la Berlino distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale per poi diventare, grazie a un approccio provocatorio e anticonformista, l’enfant terrible della fotografia tedesca dell’immediato dopoguerra. Un nome presto dimenticato, sebbene i suoi scatti al giovane Klaus Kinski e alla chanteuse dei Velvet Underground Nico (a lui si deve l’invenzione del fortunato pseudonimo), rimangano bene impressi nell’immaginario collettivo. Il suo contributo alla fotografia omoerotica è stato quello di raccontare le nascenti comunità gay di Parigi e Berlino negli anni Cinquanta, di scandagliarne la parte trasgressiva e nascosta con approccio intimo e personale. Un’attitudine da storyteller che lo farà molto apprezzare da Pasolini, e allo stesso tempo ne fa un anticipatore, interessante in quanto misconosciuto, delle ricerche, tra gli altri, di Diane Arbus, Larry Clark, Nan Goldin, Wolfgang Tillmans.
Questo scenario, in buona parte ancora sommerso, cambierà radicalmente dopo il 1969 con la nascita del movimento gay e conseguentemente di un mercato che porta alla nascita di una pornografia omofila esplicita e di massa, nella quale l’ambiguità del mondo “beefcake” e i vari escamotage stilistici, legati a suggestioni classiche, ad ambientazioni di sapore naturalistico o a richiami esotici, cederanno da un lato a una produzione meramente pornografica, ma sempre aperta ad audaci sperimentazioni estetiche pronte a metterne in questione lo statuto dell’hard; dall’altro a una crescente produzione di nudo d’arte dichiaratamente e fieramente omosessuale, rivolto quasi esclusivamente al mercato gay che, da allora, è in crescita costante.