La storia di Flavio Gioia fa così: l’umanista Flavio Biondo, coniatore del termine “medioevo”, scrisse che la bussola era stata inventata intorno al 1300. Per un errore di trascrizione del suo testo in Latino però anziché leggersi “è detto da parte di Flavio che la bussola fu inventata…” si lesse “da Flavio, a quanto si dice, fu inventata la bussola…”. E così fu creato di sana pianta Flavio Gioia, la cui scultura troneggia oggi ad Amalfi e sotto la quale vi è inciso: “Flavio Gioia, Inventore della bussola”. In realtà la bussola fu inventata dai Cinesi molto tempo prima che la Repubblica Marinara di Amalfi vi entrasse in contatto.
Ma oltre a quest’aneddoto tra Amalfi e la bussola quante altre volte gli scambi tra l’Italia e l’Oriente hanno sviluppato conformazioni culturali del tutto nuove?
Edward Said pubblicò nel 1978 un libro intitolato Orientalism nel quale definì questo termine 1) come l’insieme delle discipline che studiano i costumi, la letteratura, la storia dei popoli Orientali, 2) come uno stile di pensiero fondato su una distinzione netta tra l’Oriente e l’Occidente, 3) come l’insieme delle istituzioni create dall’Occidente al fine di gestire le proprie relazioni con l’Oriente, gestione basata su rapporti di forza economici, politici, militari e anche culturali. Nel libro Said ci parla di Inghilterra e Francia come delle vere protagoniste nelle scambio di informazioni con l’Oriente, ma si scusa per non prendere in esame l’apporto di Germania, Olanda e Italia. Così è nata la ricerca di quello che mi è piaciuto definire Orientalismo Italiano e che qui propongo in piccola parte.
Per me è la costruzione di un “inventario” personale, esattamente come lo sono state altre precedenti ricerche: “L’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza di quello che si è realmente, cioè un ‘conosci te stesso’ come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te un’infinità di tracce accolte senza beneficio d’inventario. Occorre fare inizialmente tale inventario (Antonio Gramsci)”.
Di questi tempi in Italia citare Gramsci puzza di vecchio. Invece l’analisi che egli fa sui poteri egemonici nazionali in Inghilterra e Francia è molto sentita ed esse se ne servono per comprendere il proprio rapporto imperialista con l’Oriente. A cosa può servire invece a noi il concetto Gramsciano di egemonia se il nostro passato in Africa ci ha fatto più comodo dimenticarlo che ricordarlo? Anche se a scuola spesso non si studia, nelle università se ne parla poco e un film che lo descrive chiaramente è stato censurato (Lion of the desert, 1981, Moustapha Akkad) l’imperialismo coloniale si è sviluppato infatti anche in Italia.
Questo fenomeno storico è però stato quasi cancellato dalla storiografia Italiana e così è venuto meno quello che negli altri paesi è alla base dell’integrazione razziale tra indigeni e migranti: una cultura post-coloniale che costruisca il rispetto per l’altro attraverso il suo riconoscimento storico e culturale. Se in Francia e in Inghilterra l’integrazione ha provato e prova a passare (con enormi ed innegabili difficoltà) attraverso tale riconoscimento questa integrazione in terra patria come si struttura?
Nel “Bel Paese” bisogna cantarsela tra noi e noi perché non si è mai formato nessun Libico, Eritreo o Somalo che sia entrato di diritto nel dibattito culturale Italiano. Questo a differenza degli Indiani per l’Inghilterra (vedi Salman Rushdie o Anish Kapoor), o degli Algerini per la Francia (vedi Franz Fanon o Adel Abdessemed). Ma perché ciò da noi non è avvenuto? La storia dell’Orientalismo Italiano è lunga, comincia dalle repubbliche marinare, ma per capire che cosa significhi oggi questo termine bisogna comprendere come siano evoluti gli scambi culturali tra Oriente e Italia in seguito alle colonie e come mai, durante la decolonizzazione, ci sia stato un rigurgito e una negazione dell’imperialismo stesso.
L’identità Italiana si creò in ritardo rispetto agli altri stati europei, quando, con la formazione del Regno d’Italia (1861), si diede fine alla lunga stagione degli staterelli in lotta tra loro. Il Regno si affrettò a dichiararsi stato imperialista, pregustando quel fatidico “posto al sole” che gli Italiani con tanta convinzione chiedevano. Il colonialismo in Africa ebbe così inizio e con esso anche la fase iniziale del nostro capitalismo. In realtà il nostro capitale era ben lontano dall’aver dato alla nazione una ricchezza tale da giustificare il passaggio alla fase imperialistica. Ma, anche se l’Italia era troppo povera perché potesse permettersi di conquistare altre civiltà, la debolezza del suo sistema economico non la frenò perché essa si concentrò sul contrasto che il suo sviluppo aveva con quello degli altri stati capitalistici con cui voleva competere – che invece avevano le giuste disponibilità monetarie. La vera spinta all’azione coloniale è quindi per l’Italia il puro prestigio: volersi dimostrare altrettanto forte come quegli stati che si erano formati anni e anni prima e che da tempo avevano intrapreso un cammino egemonico.
Si diffuse così in quegli anni per l’operato d’Italia la definizione di “Imperialismo straccione” (non ricorda la “Crociata dei pezzenti”?), evidenziando che la povertà e la voglia di conquista potevano stare insieme, ma prevedendo gli avvenimenti futuri: le varie disfatte militari. L’insediamento in Africa si rivelò infatti tutt’altro che facile e tra una sconfitta e l’altra, presa dal panico, l’Italia sarà l’unica nazione ad usare gas ed altri mezzi di tortura per sottomettere le nazioni indigene.
Però, muovendosi attraverso evocazioni di grandi imprese passate o di richiami sacri, si garantiva che l’azione violenta fosse azione buona, con scopo elevato (vedi D’Annunzio e Marinetti). Se l’Inghilterra celebrava la missione civilizzatrice britannica e la Francia la diffusione dei “grandi principi”, per l’Italia la grande evocazione era l’immagine di Roma da diffondere e allestire scenicamente in tutto il mondo conquistabile. Il fascismo rese questa pretesa forte ed evidente e creò tutta una serie di istituzioni “Orientaliste” come le varie società, leghe e istituti coloniali. Moltiplicò anche manifestazioni come fiere, giornate, congressi ed esposizioni tutte di dimensione coloniale. Ma poi tutte queste istituzioni che per Said stanno alla base della formazione di una cultura post-coloniale perché sono state rigettate nel nulla e volutamente dimenticate dalle politiche seguenti?
La debolezza strutturale del sistema economico che in quegli anni fu investita dalla voglia di prestigio internazionale si mostrò in tutta la sua fragilità durante le truci battaglie di conquista che, sollevando il biasimo della comunità internazionale, girarono tenacemente a vuoto e il conseguente fallimento della restaurazione di Roma tolse l’alibi alla realtà dei fatti: lo sfruttamento dei territori conquistati. Durante il periodo della decolonizzazione e dopo si preferì dimenticare tutto: da una parte la destra Italiana, quella che aspirava alla restaurazione di Roma, viveva un momento di profonda vergogna nei confronti del mondo intero per i crimini che aveva commesso; dall’altra la sinistra aveva promulgato l’aspetto proletario della colonizzazione (terre per i nullatenenti) e preferì non far ricordare.
Sul versante africano i governi che si stabilirono in loco, come il regime della Jamahirija Libica, divennero fortemente anti-Italiani (spesso assecondati dai protettorati Inglesi) e non permisero ulteriori commistioni impedendo ai loro connazionali di studiare o trasferirsi in Italia. Sfidarono poi anche l’iconografia Italiana del tempo in una sorta di iconoclastia del colonizzatore che cancellò molte tracce delle cose buone che gli Italiani avevano fatto in architettura e urbanistica.
L’Orientalismo Italiano è quindi un fantasma. Se prima del Regno d’Italia il rapporto con l’Oriente era proficuo, mercantile, affascinante ed erotico, dopo la formazione dell’identità Italiana esso diventò voglia di assoggettare brutalmente per definire la superiorità di una civiltà sull’altra. L’incapacità di occupare realmente le terre poi spinse tutti a voler dimenticare un’azione di per se umiliante che con la Roma antica poco aveva a che fare. Così la decolonizzazione fu solo un veloce embargo, e veloce fu pure la memoria a resettare e digerire il malfatto. In più, oltre a non aver sfruttato il periodo della decolonizzazione per creare la suddetta cultura post-coloniale, sono all’ordine della cronaca i respingimenti nel canale di Sicilia di chi oggi parte proprio dalla Libia.
E così l’Italia conserva ancora la sua “razza” quasi intatta e grida sempre, o spesso, “Mamma li Turchi!”.