Due anni dopo l’antologica alla GAM di Torino, la mostra lucchese, promossa da Claudio Poleschi e Gianni Frezzato, e supportata dai testi di Giorgio e Tecla Magnoni, Gian Marco Montesano e Claudio Olivieri, mantiene vivo il mito della personalità di Osvaldo Licini e apre un’ulteriore pagina sulla sua opera. D’indole erratica, lo straordinario pittore marchigiano conobbe e frequentò le avanguardie parigine, ma con un’ostinazione da vero eremita si ritrasse nel natio borgo di Monte Vidon Corrado, e non disdegnò neanche di morirvi, nel 1958, all’età di sessantaquattro anni.
Quando, dopo un periodo di rodaggio giovanile in cui saggiò tradizionali motivi paesaggistici, approdò all’astrattismo, lo stile di Licini assunse immediatamente i suoi connotati inconfondibilmente lirici e trasognati, perché voleva “dimostrare che la geometria può diventare sentimento”. L’astrattismo fu per Licini l’occasione per un definitivo alleggerimento della sostanza corporea, che lo condusse a una bidimensionalità sostanziata solo da un colore vibratile e pulsante. I moduli geometrici vanno a costellare architetture celesti, “castelli in aria”, o misteriose rastrelliere terrestri. Possiamo vedere qui la strabiliante Locomotiva dei primi anni Trenta, una palizzata di moduli verticali che riecheggiano il profilo della macchina, o il Prisma su fondo giallo, di un decennio più tardi, un divaricarsi di triangoli che puntano i vertici sul terreno come un ragno meccanico o un’arrancante stella caduta.
Dai primi anni Quaranta appaiono veri e propri personaggi fantastici: ecco gli Olandesi volanti, il cui volto è delimitato da un arco di mezzaluna, con niente più che un appunto di cifre o lettere per indicare i lineamenti, così come alcune altre composizioni non saranno niente più che paesaggi di caratteri tipografici. Ed ecco gli Angeli ribelli, il cui rappresentante più famoso è il grande Angelo ribelle su fondo blu cupo. Distaccato qui in solitudine nella chiesa di San Matteo, investito da uno spot che lo strappa all’oscurità come un raggio di grazia, rifulge di un’aura ectoplasmatica, pallida apparizione evocata da una liturgia paganeggiante. Se d’ora in poi a queste soluzioni più libere e svolazzanti, di cui le insondabili “Amalassunte” sono il risultato più magico, si alterneranno ritorni di fiamma a cunei e losanghe, tutto sarà sempre conciso, palpitante, sospeso, favoloso: “Il mio regno è nell’aria”, diceva. E i suoi quadri non erano infatti di questa terra ma stazionavano in una “zona siderale”.