L’opera veneziana di Markus Schinwald muove da un intervento analitico sulla struttura architettonica del Padiglione austriaco (costruito da Joseph Hoffmann nel 1934), con l’obiettivo di organizzare nei suoi spazi un rapporto di evocazione reciproca tra interno ed esterno, luce e ombra. Due ingressi laterali del padiglione sono stati bloccati dall’artista, lasciando solo lo spazio di una fessura per far filtrare la luce. L’intero edificio diventa così una macchina di costrizione, il cui interno è occupato da un labirinto capovolto dove le pareti discendono dal soffitto e s’interrompono a un metro dalla pavimentazione. L’esito per gli spettatori è una prospettiva visiva forzata sulle gambe degli altri passanti, di cui sono visibili solo i busti dimezzati vaganti nell’ambiente. Alcune nicchie nel percorso ospitano una serie di dipinti a olio, ritratti maschili e femminili realizzati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Comprati dall’artista su cataloghi d’asta e poi restaurati, Schinwald sovrappone pittoricamente su ciascuno di essi delle protesi — perfettamente integrate nello stile dei dipinti — che alterano i lineamenti dei soggetti raffigurati, costringendoli a sorridere, a esibirsi in smorfie o a scomparire completamente dallo sguardo. Come un fastidio temporaneo che annulla la compostezza classica della persona ritratta, o una dissociazione psicologica resa manifesta da un elemento esterno, l’intervento di Schinwald trasforma i volti in un enigma e i soggetti rappresentati in una galleria di individualità imperfette e patologiche. Sono simili a delle protesi anche le gambe in legno di sedie Chippendale disarticolate e riassemblate dall’artista sino a rassomigliare a degli arti contorti di animali o indefinite creature antropomorfe. Nella loro ambigua natura, queste forme rimangono appese alle pareti più alte del labirinto, come trofei o idoli votivi di un culto ignoto. È il rapporto tra oscurità e piena visione, deformazione e integrità a determinare la logica di Schinwald nel padiglione, che articola tutto il suo intervento come un’architettura mentale e schizofrenica, un corpus di elementi alienati tra loro e irriducibili a una discorsività razionale.
Il senso di deriva si accentua nelle videoproiezioni, dove compaiono vari personaggi, tra cui un danzatore di tip tap circondato da matasse di fili elettrici e un uomo con una gamba incastrata negli interstizi di un muro. Agilità e costrizione, impaccio e movimento si alternano nelle scene cariche di atmosfera oppressiva, tra immagini rallentate e codici visivi prossimi a una dimensione di sospensione onirica (“Legs pushing, legs grabbing, legs outstretched…”, ripete ossessivamente una voce in sottofondo). Schinwald predilige il simbolo e l’intuizione e come nei Sonnambuli di un grande viennese, Hermann Broch, i personaggi anonimi dei suoi video sembrano agire sotto ipnosi, bloccati da pulsioni sotterranee che impediscono loro di operare razionalmente e spiegare a se stessi le proprie affezioni. Se Italo Svevo poteva scrivere a inizio Novecento che “l’uomo è malato” e il suo corpo una “complicazione enorme”, anche Schinwald sembra far riecheggiare alcuni dei miti più disturbanti della sua tradizione nazionale e l’attraversamento del Padiglione austriaco diventa il varco di una soglia tesa tra inazione, infermità ed entropia.