Valentina Sansone: A Berlino, lo scorso giugno, avete presentato un lavoro totalmente incentrato sull’idea di riproduzione, con un intervento su un’operazione che già modifica la matrice di partenza. Perché?
Pennacchio & Argentato: Per la mostra “Do It Just” (Berlino, Galerie Opdahl, 2008, ndr) abbiamo utilizzato delle giacche Nike contraffatte e delle banconote false. Ci siamo appropriati di una copia prelevandola e presentandola in galleria ed entrando nel processo di produzione del falso, riproducendo l’oggetto contraffatto come un originale. Più che appropriarci di un bene di consumo, volevamo appropriarci di un processo di produzione, che nel nostro caso è un processo di produzione illecito.
VS: Come si distingue il vero dal falso all’interno di questa operazione? E cosa si intende per “serialità”?
P&A: È difficile distinguere il vero dal falso perché tra i due fattori subentra immediatamente un rapporto di osmosi che fa capo al processo di produzione. Il nostro intervento diretto sul prodotto è stato puramente formale, in quanto abbiamo modificato il pattern geometrico rompendone la simmetria. Ci siamo rifatti al concetto minimalista di serialità (che, ripetuta, non produce altro che se stessa), ma nella riproduzione del falso questa diventa come un virus: non è più relativa solo a problemi di “composizione” o “non composizione” — come diceva Judd: “una cosa dopo l’altra” —, ma allo stesso processo produttivo. Oggi il concetto di serialità riflette condizioni sociali e produttive molto diverse da quelle degli anni Sessanta, che vanno dalla globalizzazione al mercato nero.
VS: Anche per la mostra a Napoli (2007) avevate messo a punto una strategia. Di che si trattava?
P&A: In un primo momento, la mostra doveva chiamarsi “Estate”. Il titolo giocava sull’ambivalenza della parola per via del suo significato in Italiano e in Inglese (“estate” in Inglese si riferisce a un patrimonio, una proprietà, ndr). La mostra avrebbe dovuto svolgersi in uno spazio chiuso, dove una saracinesca arrugginita chiudeva la galleria dall’esterno, illuminata fuori solo da un light box, una specie di insegna vecchia. In questo modo la galleria diventava un altro spazio. Dal punto di vista temporale, lo spazio espositivo diventava qualcosa che era già fallito prima ancora di esistere, qualcosa che riguardava tanto il futuro quanto il passato, una situazione preesistente o piuttosto futura… Finché non cambiammo idea e decidemmo di presentare Untitled (2007).
VS: Quando avete deciso di fare un’altra mostra e perché?
P&A: Ci piaceva l’idea di utilizzare il comunicato stampa come uno strumento produttivo, più che esplicativo e divulgativo, fingendo di essere noi stessi i galleristi.
Quando la galleria T293 ha inviato i falsi comunicati stampa del progetto precedentemente pianificato abbiamo anche ricevuto i primi riscontri… molti erano interessati alla mostra che avevamo annunciato, ma che non esisteva.
VS: Lo scopo è diventato l’operazione artistica…
P&A: L’errore ha condizionato tutto quello che è venuto dopo, rappresenta tutta la parte narrativa. La mostra che era in galleria si divideva in due fasi: una fase narrativa e una parte che consiste nelle installazioni, fisica.
VS: Come si collegano le due mostre (quella mai realizzata e quella che poi avete realizzato)?
P&A: L’una è la conseguenza dell’altra. Per l’inaugurazione non c’era nessuna informazione sulla mostra in galleria perché il comunicato non parlava di quella mostra. L’intera operazione si è basata sull’errore e su una contraddizione. Questa era la prima mostra a Napoli dopo la personale del 2005 e volevamo interrogarci di più. È stata anche l’occasione per ripensare al nostro rapporto con la città, per trovare qualche relazione forte che ci identificasse. In Untitled (Tarumizu), 2007, abbiamo giocato sulla classica foto cartolina. Nonostante il panorama sia estremamente somigliante, non si tratta di Napoli. La foto è stata scattata in Giappone e si tratta di una veduta della cittadina di Tarumizu.
VS: A partire da See Through (2005) fino a Shape of Magritte to Come (2007), c’è una maggiore focalizzazione sull’ambiguità della visione, sulla percezione in generale. In opere più recenti come Untitled, invece, il peso specifico dell’opera è più forte, invadente. C’è un’attenzione maggiore alla forma e al suo peso.
P&A: È vero, anche se in qualche modo continuiamo a sviluppare l’elemento dell’illusione. L’opera ti dà l’idea del peso proprio perché lo annulla. I pali in cemento di Untitled sono cavi, sospesi su tre palloni posti alle tre estremità. Esiste una contraddizione insita all’interno di questo lavoro. Un altro elemento ricorrente è rappresentato dalle nostre origini. Per questa installazione, infatti, siamo partiti da una riflessione sull’architettura. Qui abbiamo usato l’elemento architettonico moderno per eccellenza, il pilastro; in questo caso, due pilastri sovrapposti. L’idea era di restituire anche una dimensione di precarietà, che si ritrova nell’architettura napoletana e che è mista alla sua storia. Si tratta di qualcosa di completamente organico, che possiede anche un certo fascino, che probabilmente consiste nella sua spontaneità. La presenza della Storia si mischia a edifici di epoca greca, romana e medievale…
VS: Osservate questo aspetto come un elemento di decadenza?
P&A: Lo vediamo come un fenomeno connaturato alla città. Pasolini diceva che Napoli è rimasta l’unica tribù nel cuore dell’Europa1… Questo è ancora vero.
VS: Un riferimento allo spazio è comunque presente in See Through, che avete presentato ad Arte all’Arte nel 2005. Una finestra di specchi cattura l’immagine di un paesaggio rinascimentale e diventa un quadro che sposta lo spazio in profondità rispetto al limite della finestra reale. Lo specchio è opaco, contiene l’immagine ma non la attraversa. C’è anche un riferimento a Fabro nella scelta dello specchio come “mezzo democratico”, che non fornisce una posizione privilegiata ma uguale per tutti.
P&A: È una riflessione che abbiamo fatto anche noi, quando abbiamo presentato Shape of Magritte to Come a Francoforte nel 2006: dietro alle finestre dove era posizionata l’opera si intravedevano le sedi di alcune delle più grosse banche europee. Ogni grattacielo in città è la sede di una banca. Ma c’è qualcosa in quella città che ti comunica una sensazione di leggerezza e di trasparenza. Di uguaglianza, che è solo un’illusione.