In uno dei suoi testi Roland Barthes si chiede cosa accada a chi, Uscendo dal cinema,1 si incammini fuori dalla sala, al modo in cui il senso di sopore trapassi dal buio erotico dello spazio della proiezione arrivando alle vie chiare e alle strade semi illuminate della notte. Siamo alla fine degli anni Settanta e nel testo di Barthes l’esperienza del cinema inizia a raccontare una realtà ibrida, trasformando il battuage buio in cui l’immagine in movimento diventa visibile in qualcosa d’altro. Fuori dal cinema a mettersi in cammino è il cinema stesso, che si osserva e si riproduce, si guarda e si immerge in una zona di penombra eguale e opposta al sistema su cui si era sorretto sino a quel momento.
In questa meta-riconfigurazione si inserisce perfettamente la mostra curata da Alessandro Rabottini e Leonardo Bigazzi per la Fondazione In Between Art Film che ha commissionato e prodotto otto nuovi lavori di immagine in movimento installati negli spazi del Complesso dell’Ospedaletto a Venezia. La semioscurità di “Penumbra” è innanzitutto quella di questo nuovo spazio generatosi dalla moltiplicazione del cinema. I curatori hanno lavorato a partire dalla trasformazione interna al cinema avviandone una tutta loro. Il set design della mostra, a cura di 2050+, è pensato difatti come un dispositivo cinematografico totalmente ridefinito che, tanto per riprendere gli studi post-foucaultiani di Jean-Louis Baudry sul cinema, orienta e governa l’esperienza dello spettatore nella nuova sala fuori dal cinema. La mostra si apre con le immagini di Pantelleria (2022) del collettivo Masbedo, installato come una lunga feritoia nel buio della navata monumentale della chiesa di Santa Maria dei Derelitti. Sul ledwall da 32:9 che richiama i formati del cinema anamorfico degli anni Sessanta e Settanta, si alternano le immagini e il racconto di Pantelleria e del combat film realizzato appena dopo la resa dell’isola per mano alleata. Il lavoro, in collaborazione con lo scrittore Giorgio Vasta, apre a una prima questione metanarrativa sul cinema: in che modo crediamo a ciò in cui crediamo? In questo pezzo di mostra, che continua con Plateau (2021), il video a due canali di Karimah Ashadu, e con l’installazione video a tre canali di Ana Vaz È Noite na América (2022), lo spettatore inizia a essere consapevole della trasformazione che la mostra intende rendere manifesta. I cinema – al plurale – sono tanti, possibilmente infiniti; hanno attinto agli strumenti di visione, derivano dalle macchine espositive, guardano alla storia di parchi, giardini e zoo. Quello stesso zoo che è al centro del film notturno di Vaz, ambientato a Brasilia, dove la struttura d’intrattenimento era stata pensata come luogo di svago per le famiglie dei lavoratori che costruirono dal nulla la capitale brasiliana. Oggi quello spazio si sta trasformando, convertendosi in un centro di detenzione per animali selvatici che si scontrano con l’antropizzazione delle aree interne del Brasile.
Anche il lavoro di Emilija Škarnulytė Aphotic Zone (2022) racconta del buio. Una doppia immersione sia nella vita dei bacini afotici di buio assoluto che nelle immagini video degli abissi specchiate mediante una pellicola lattico-riflettente posta come soffitto dello spazio. A questo punto della visita l’ibridazione tra gli spazi delle installazioni, tutti contrassegnati da un light box numerato, e quelli del complesso dell’ospedaletto è pressoché totale. Qualities of life (Living in the Radiant Cold) il lavoro endoscopico di James Richards, che compone una suite musicale in forma di site specific sound con l’animazione delle immagini di oggetti del contagio, trova la sua paradossale completezza proprio nel luogo della cura. Lo spazio, sia pubblico della protesta, come quello raccontato da Jonathas de Andrade in Olho da Rua (2022), che privato dell’isolamento infra COVID-19 degli student hotel berlinesi di House of Nations (2022) di He Xiangyu, sono filtrati dalla restituzione filmica del mondo. Il percorso di mostra si conclude una volta ancora nel buio, quello di Takbir (2022) lavoro di Aziz Hazara in cui le proteste notturne afgane rimandano a un’appropriazione collettiva dell’oscurità. Quello della città di Kabul, ma anche alle esperienze di allucinazione collettiva del cinema dentro e fuori i sui spazi canonici. Continui cinema fuori dal cinema, in cui si ripensano i confini del regime scopico contemporaneo, in cui si ridefiniscono i rapporti tra gli sguardi – quelli che spesso i protagonisti della mostra incrociano con gli spettatori – i mezzi e le immagini in movimento. Un’esperienza autogenerativa che – secondo il principio di immedesimazione e confusione della percezione delle cose – va dalle sensazioni di chi esce dal cinema e sente ancora il sopore del buio, verso il sogno, sino a completare la rappresentazione.