Nati tra il 1992 e il 1993, Diego Gualandris, Viola Leddi, Giuliana Rosso, Alice Visentin, sono impegnati in una pratica pittorica che tenta di ridefinire un immaginario sociale contemporaneo, osservando il patrimonio genetico di mitologie e simboli che definiscono la memoria collettiva. Cresciuti nella gioiosa Italia berlusconiana, della sinistra moderata e dell’orizzonte europeo come normale conseguenza di un’apparente comunitarismo politico, dal 2001, anno del G8 di Genova, la prima manifestazione politica in diretta, e dell’attacco alle Torri Gemelle, hanno fatto esperienza di un cambiamento sempre più radicale, dalla crisi economica del 2008 e la fine del lavoro garantito, al riconoscimento del fallimento e dell’insostenibilità di un modello globalizzato di economia.
Nell’immaginario di questi artisti si trova la compresenza di due elementi fondamentali: da una parte un’attenzione verso la cultura materiale e la sua espressione nelle forme narrative della favola, della leggenda e dei racconti orali tramandati, insieme alle pratiche ritualistiche pagane come la veggenza e la superstizione. Dall’altra, essi sottolineano la contaminazione della cultura popolare più antica con quella di massa dei fumetti, dei cartoni animati e della letteratura fantascientifica. In questa ricostruzione dell’orizzonte della propria immaginazione torna centrale l’attenzione alla dimensione geografica dove questi aspetti vengono rielaborati dalla figurazione artistica, permettendo sia la loro riscoperta sotto forma di un localismo arcaico e antico sia una loro riabilitazione dalla posizione di strumenti ideologici sfruttati dai crescenti nazionalismi basati sul culto dell’originarietà.
Diego Gualandris (Albino, 1993) nasce e vive sulle montagne bergamasche, ad Albino, un piccolo paese che è collegato alla stazione di Bergamo da un treno che in valle chiamano “metro”. Il suo studio si divide tra l’ex negozio di frutta e verdura della famiglia e uno spazio ricavato nel matroneo della chiesa di Sant’Anna, dove il nonno per diverso tempo lavorò come tuttofare, occupandosi, tra le altre cose, della manutenzione degli affreschi. Da questo luogo è possibile osservare la navata principale dall’alto, dal retro delle nicchie che sovrastano i fedeli. La pittura di Gualandris riflette un immaginario ricco di riferimenti iconografici provenienti da una dimensione culturale vernacolare fatta di racconti popolari, narrazioni orali tramandate tra generazioni e pratiche religiose al confine con il pagano1.
Animali mostruosi, scenari fantastici, esseri umani al limite del riconoscibile sono rappresentati attraverso le strutture compositive della pittura religiosa cristiana o in un groviglio di forme che impediscono l’identificazione di tutti gli elementi presenti nel quadro.
Ne è un esempio Nocino (2017), in cui un corpo umano ridotto in pezzi è al centro di un ambiente decadente che ricorda le raffigurazioni boschiane di tormenti infernali. La scena è incorniciata in un arco a sesto acuto colorato di un finto marmo tipico delle chiese della provincia italiana. In Terza testa del Galloleone (2018) l’artista presenta alcuni rapaci che si scontrano nella cattura di una preda. I corpi si confondono tra loro come se la forza animale fosse il reale soggetto del dipinto. Come in molte opere di Gualandris, il quadro è coperto da una velatura colorata2, in questo caso rossa, che nasconde una prima realizzazione realistica della scena, amplificando e deformando l’esperienza dell’immagine come accade in una visione o in un presagio. Proprio di trasformazioni e di improvvise sparizioni raccontano le masche piemontesi: streghe e vecchie signore che abitano nella zona del Canavese.
Qui, nello specifico a Frassinetto, Alice Visentin (Ciriè, 1993) era solita trascorrere le estati nella casa della nonna materna circondata da una strana concezione di “fede” verso ciò che appare soprannaturale e governato da leggi metamorfiche. Il gruppo di personaggi presenti nei dipinti di Visentin prendono forma da questa particolare fiducia verso le storie, la stessa che spinge le persone a leggere un romanzo alla fine di una pesante giornata di lavoro. L’artista preleva i propri soggetti dalla letteratura, dalle storie di personaggi famosi o ‘straordinari’ che ascolta dalla radio mentre dipinge e dalla propria vita personale, quando pensa che questa possa assumere tratti fantastici3. Una prima serie di opere, concepite da Visentin come rappresentazioni di figure algide portatrici di un sapere arcaico, sono dedicate al jazzista Thelonius Monk, ai fumettisti Bonelli, al danzatore Lindsay Kemp, al cantautore Jacque Brel e all’antieroe Don Chisciotte. Il dipinto Don Chisciotte (2017) presenta il protagonista del romanzo di Miguel de Cervantes come un personaggio femminile a cavallo vestito di un abito che funziona come apertura per osservare un bosco sovrastato dalla luna piena. La mimesi con la natura è riconosciuta da Visentin come un elemento fondante per la costruzione di una nuova saggezza che trova le sue origini nei valori delle comunità rurali. I ‘gruppi’ o le ‘bande’ presenti nei lavori più recenti, come La banda dei comici (2019), sottolineano l’importanza di un atteggiamento etico anti-cavalleresco4 che in passato nasceva proprio nelle campagne e che oggi è riscontrabile nelle periferie urbane.
L’associazione spontanea di persone in risposta a necessità di natura emotiva, economica e sociale è per l’artista il punto di partenza sia per un possibile micro-agire politico sia per la costruzione di una forma rinnovata di conoscenza. Questi nuclei volontari sono anche concepiti come forme alternative di famiglia al di là di qualsiasi ideologia di comunità5. Mentre la creazione di un gruppo diventa la prima risposta politica a una condizione contemporanea di fragilità e alla ricerca di riscatto, nel tempo le culture popolari hanno incanalato le paure del singolo in pratiche collettive basate su superstizioni e riletture folkloristiche della liturgia cattolica.
Giuliana Rosso (Chivasso, 1992) è affascinata dagli aspetti di surrealtà e dalla loro espressione nel misticismo popolare, che rielabora nella creazione di dipinti di piccolo e grande formato, sculture e interventi installativi. I soggetti più frequenti sono bambini e adolescenti intrappolati in ambienti dai colori acidi e avvolti in un’atmosfera notturna. Nell’aula di un liceo, un ragazzo inebetito si dondola sulla sedia mentre un serpente si solleva da una bottiglia (Bad boy, 2018); una ragazza si nasconde in una piscina verdastra mentre i suoi capelli galleggiano con le sembianze di alghe infestanti (Pool party, 2018). Rappresentati come mostri, zombie e figure in stati alterati di coscienza6, questi adolescenti diventano metafora di una condizione di persistente angoscia. Rosso, che sembra concentrarsi sui tentativi dell’essere umano di contenere le proprie paure, cerca e costruisce un nuovo linguaggio per esprimere la fragilità di un mondo interiore e di un inconscio traboccante7.
La ricerca iconografica dell’artista non si limita a una riproposizione di immagini, storie e pratiche della cultura popolare, ma si concentra sull’individuazione di topoi e mitemi narrativi presenti nella storia dell’arte. In La fine e l’inizio (2019), l’artista mette in scena una lotta, soggetto tipico della pittura e dei bassorilievi classici, ambientata in un sobborgo metropolitano. Due ragazze si strattonano mentre dei cellulari a terra illuminano i loro corpi come su un ring; gli accessori che indossano, borchie e unghie fuori misura, diventano attributi di mostruosità, caricature di un carattere esondante. La scena della lotta viene impoverita del valore eroico e atletico di sfida per ridursi a uno scontro nervoso e isterico, in cui due giovani donne conquistano il centro dell’immagine.
Tra i quartieri più antichi di Milano, in via Canonica, si trova lo studio di Viola Leddi (Milano, 1993). La stanza è costellata di immagini appese e di cataloghi ricolmi di foglietti che indicano gli appunti visivi dell’artista in fase di ricerca. Se impressiona l’accumulo di riferimenti visuali già qui presenti, lo stupore si amplifica quando l’artista mostra lo studio del nonno, Piero Leddi, noto pittore della seconda metà del novecento italiano. Dalla sua morte, il luogo è rimasto intatto e si è trasformato in uno spazio di ispirazione per l’artista che ogni giorno è circondata da libri, archivi fotografici, curiosità dalle più svariate parti del mondo e da una preziosa collezione di oggetti cerimoniali di origine polinesiana e africana. Questo universo di frammenti definisce l’immaginario di Leddi che pone come punto di partenza l’inevitabile confronto con la narrazione insita all’interno della storia dell’arte, associandolo a un altro tema a lei caro: la rappresentazione del corpo femminile.
Creature adorabili (2019), è una serie di tre dipinti realizzati per la sua prima mostra personale. L’artista trae spunto dall’arte preclassica etrusca, dalla pittura murale pompeiana, dalle avanguardie europee della prima metà del Novecento e dal Ritorno all’ordine italiano, impiegando questi riferimenti iconografici come un ‘materiale’ culturale da ritagliare e ricomporre. Donne in pose desiderabili offrono il proprio corpo-oggetto a un ipotetico sguardo esterno maschile, mentre creature misteriose dall’aria beffarda ammaliano lo spettatore. Come chimere, questi personaggi richiamano lo stesso grado di indulgente desiderabilità della donna, ma diventano strumento per rivitalizzare questi corpi ormai anonimi. Guardando alla letteratura fantascientifica di stampo femminista, Leddi prende in prestito alcune delle tecniche che permettono alla narrazione di ridefinire il nostro orizzonte percettivo come i passaggi di stato o viaggi nel tempo. Le creature adorabili intervengono come nuovi attributi delle donne rappresentate, agendo come loro estensione. Guardare all’immaginario di questi artisti, significa prendere coscienza della complessa rete di relazioni sociali che lo compongono, trasformando la pittura in una pratica situata e collocata8.
Si potrebbe pensare a una vera e propria riterritorializzazione pittorica in cui la creazione di un linguaggio si struttura a partire da un’esperienza incarnata e radicata in un luogo. Da questo particolare punto di vista che è sia artistico che etico-politico, ciò che trapela è una forma di surrealismo popolare9, lo stesso che è servito alla fine degli anni Novanta a contrastare le spinte progressiste e generaliste. Questa dimensione, oltre a parlare attraverso una lingua vernacolare, permette di comunicare una sensibilità antica che esprime le fragilità e le paure umane, le dimensioni sospese della conoscenza che comportano una certa intensità nella percezione. Gli ambienti incantati dal tempo ciclico del mito nei dipinti di Gualandris, la saggezza materialistica delle bande dipinte da Visentin, l’insicurezza presente nei volti degli adolescenti di Rosso e la natura destabilizzante delle creature di Leddi rimandano a un sistema di realtà che il filosofo Federico Campagna definirebbe ‘magico’.
Di fronte all’età della tecnica, del neoliberalismo politico ed economico e del lavoro come religione dominante, diventa fondamentale tornare a un tipo di relazione con la realtà che non tenta di esaurirla10 ma che ne custodisce il lato ‘inspiegabile’. Il sistema di realtà basato sulla magia pone l’ineffabile come elemento fondante, proponendosi non solo come un’alternativa alla tecnica, ma strutturandosi come un “sistema cosmogonico che è in grado di affrontare in modo terapeutico lo stato di annichilimento nel quale la tecnica ha ridotto l’individuo contemporaneo, il suo mondo e la sua richiesta di una realtà vivibile”11. Nel delineare il proprio immaginario questa pittura situata risponde traendo ispirazione da quelle dimensioni della cultura che utilizzano la metafora, l’allegoria e la narrazione come linguaggio espressivo, nel tentativo di rinnovare l’orizzonte sensibile di una cultura visiva uniformata e alienata dalla iperproduzione di immagini.