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Recensioni

23 Agosto 2019, 5:21 pm CET

Alberto Burri Fondazione Cini / Venezia di Giovanni Viceconte

di Giovanni Viceconte 23 Agosto 2019
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“BURRI – La pittura, irriducibile presenza” Veduta dell’installazione presso Fondazione Cini, Venezia. Fotografia di Matteo De Fina. Courtesy Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri.
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“BURRI – La pittura, irriducibile presenza” Veduta dell’installazione presso Fondazione Cini, Venezia. Fotografia di Matteo De Fina. Courtesy Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri.
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“BURRI – La pittura, irriducibile presenza” Veduta dell’installazione presso Fondazione Cini, Venezia. Fotografia di Matteo De Fina. Courtesy Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri.
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“BURRI – La pittura, irriducibile presenza” Veduta dell’installazione presso Fondazione Cini, Venezia. Fotografia di Matteo De Fina. Courtesy Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri.

Oggetti desunti dall’esperienza quotidiana, manipolati, squarciati, bruciati, colorati o ricomposti secondo un dualismo di essenza ed esistenza tra materia e forma, apollineo e dionisiaco: sono questi i segni che accompagnano l’antologica “BURRI – La pittura, irriducibile presenza” presso la Fondazione Cini a Venezia.
L’esposizione, a cura di Bruno Corà, si compone di circa cinquanta opere provenienti da musei e collezioni italiane e internazionali, che ripercorrono i momenti più significativi del “Maestro della materia”, che torna a Venezia dopo la mostra del 1983 ai Cantieri Navali della Giudecca.

Il percorso espositivo ha inizio con le serie dei Catrami, delle Muffe e dei Gobbi, opere che l’artista esegue tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta, in cui il carattere essenzialmente pittorico dà alla materia un’energia organica e espressiva, resa evidente nei Gobbi dall’effetto fisico delle sporgenze. Si prosegue con i Sacchi (1949-50), ricchi di rammenti e cuciture, che aprono metaforicamente quelle “ferite” – ricordi di una passata professione come medico e degli anni della guerra e di prigionia – in linea con il clima culturale dominato dal pessimismo esistenzialistico. In questi lavori Burri non rappresenta la realtà, ma è la realtà che si presenta facendosi arte attraverso oggetti originari, che nella loro natura rievocativa divengono testimonianza e documenti di una storia vissuta, – ne è un esempio Nero Bianco del 1951, in cui l’artista utilizza i frammenti della bandiera americana e scritte rivelatrici degli aiuti alimentari disposti dal Piano Marshall.

Dai sacchi si passa alle Combustioni (1953–1967), in cui la fiamma ossidrica violenta con bruciature e crateri le superfici di plastica.  Un gesto arcaico che Burri in parte mette in atto anche per i Legni (dal 1955) e per i Ferri (1958/61).
La mostra continua con i Cretti (1970) di piccole e medie dimensioni ma anche con formati ambientali come il Grande Cretto di Gibellina, realizzato tra il 1984 e il 1989 nel luogo in cui sorgeva la città vecchia prima del terremoto (l’opera in questa sede è evocata da un documentario).
A chiudere è la serie dei Cellotex, realizzati fino agli anni Novanta, in cui l’artista si concentra sull’equilibrio e la spazialità del supporto, inciso, graffiato o dipinto con forme dotate di peso e di luce propria.

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