A rendere la Performance Art particolarmente intrigante contribuisce una certa difficoltà che si incontra nella sua definizione, il fatto cioè che rechi in sé elementi propri di diverse forme di espressione artistica, che comporti il contatto diretto con il pubblico e il suo essere effimera, rendendo l’opera fragile e preziosa.
“Performance Art è qualunque cosa una persona attui dal vivo di fronte a un pubblico, ed è la sua difficoltà nell’essere definita a renderla così interessante, perché rappresenta una sfida. Di una performance esistono tante applicazioni e interpretazioni, tante forme diverse”, dice Charles Dennis, co-fondatore di Performance Space 122, storica istituzione newyorkese. Dennis detesta le classificazioni: “Sfido le persone a capire, ad apprezzare e a guardare un lavoro come un’opera d’arte. Soprattutto oggi che le cose si influenzano a vicenda, considero la performance come l’insieme di media diversi, installazione, video, teatro, danza, letteratura”. Quando Dennis, insieme a Charles Moulton e a Tim Miller, fondò alla fine degli anni Settanta P.S. 122, l’obiettivo che si propose fu proprio quello di sfidare le categorie. E quando Francesco Vezzoli interpreta un grande classico della letteratura del Novecento italiano, Così è (se vi pare), avvalendosi di un gruppo di superstar hollywoodiane che recitano all’interno del Guggenheim Museum di New York per l’inaugurazione di Performa 07, ecco che i confini tra le arti sono felicemente dissolti.
Quello che invece sostiene la performer Martha Wilson, fondatrice nel 1976 di Franklin Furnace — “il museo dedicato all’esplorazione del tempo” — è che “il tempo della performance è diverso dal tempo del teatro. È ciò che chiamo ‘the suspension of the belief’. Vedere Les miserables a teatro significa venire trasportati sulle barricate della Parigi del 1789, mentre quando assistiamo a una performance continuiamo a vivere nel tempo reale. Il tempo, il più malleabile dei media, è per me l’elemento più affascinante. È con queste premesse che considero la performance e il teatro su due fronti opposti”. Franklin Furnace ha lanciato la carriera di Jenny Holzer, Barbara Kruger, Eric Bogosian e Laurie Anderson, e accompagnato quella di Vito Acconci e William Wegman. Lo spazio ha preso vita dalla visione della Wilson come un museo per la dimensione dell’effimero, o più precisamente “a museum for hot air”, secondo le sue stesse parole. Ha ospitato mostre che hanno percorso la lunga storia della performance, dalla fine del XIX secolo passando per i futuristi, i decostruttivisti russi, i surrealisti, fino al gruppo Cobra, facendo così conoscere la solida tradizione del genere. Ora che non ha più una sede in quanto museo, a causa dei severi tagli finanziari dell’ultimo decennio, Franklin Furnace continua la sua attività come fondazione che assegna ogni anno un premio a giovani performer.
Per Lilah Freedland, performer israeliana nata in una famiglia di artisti e manager dello spettacolo, l’aspetto più importante di una performance è la comunicazione con il pubblico, “esattamente come avviene in teatro”, sostiene. Inizialmente l’artista, mossa dall’idea per cui istantaneità e caducità rendono una performance rara e preziosa, non ne conservava alcuna traccia o documentazione. “È l’idea sciamanistica: quando realizzi una performance, o questa viene condivisa da un altro essere umano, oppure non esiste più. ‘That’s it, it’s done”. In seguito l’artista ha però iniziato a utilizzare la fotografia e il video come mezzi di espressione e di documentazione correlati alla performance.
Il bisogno di filmare una performance è un passaggio comune a molti artisti. Una di questi è Elise Kermani, che sta realizzando il film sperimentale Jocasta, liberamente ispirato a Euripide, e che attraverso i temi dell’esilio e della guerra finisce per parlare in qualche modo anche dell’America contemporanea. “La temporaneità, la precarietà, la natura effimera della performance”, dice la Kermani, “a volte si rivelano una frustrazione”.
Anche Aaron Young ha realizzato il video di una sua performance dello scorso autunno, Greeting Card — ispirata all’omonimo dipinto di Jackson Pollock del 1944 — che vede dieci motociclisti tracciare su una superficie nera segni corposi di pittura arancione. Anche Charles Dennis sta attualmente realizzando un gran numero di video di performance, tutte visibili sul sito www.charlesdennis.net. E, a proposito di video, ricordiamo Ever Is Over All (1997) di Pipilotti Rist, attraverso cui gli spettatori del MoMA, durante la recente mostra “Out of Time”, hanno assistito come in trance catartica alla “staged performance” dell’artista che, indossando un paio di scarpe rosse e un vestito a fiori, distruggeva i vetri delle macchine in sosta lungo una strada.
C’è da sottolineare poi che ultimamente nel folto panorama della Performance Art newyorkese, come fa notare anche Dennis, si è evidenziato un ritorno al concettuale anni Sessanta-Settanta, e non è un caso che durante l’ultima Performa si sia proprio assistito a un dialogo inter-generazionale grazie alla riproposizione del lavoro di Allan Kaprow e Marina Abramovic. “È importante”, ricorda Marianne Weems, fondatrice e direttore artistico di Builders Association — performance and media company fondata nel 1994 — “che si ripresenti il lavoro di questa generazione di artisti. A New York è sempre importante raccontare lo stato della Performance Art e la sua storia passata”. Opportunità questa che non manca certo in città: un esempio tra i tanti è la serie di performance proposta qualche mese fa dall’artista Fluxus Larry Miller in omaggio a Nam June Paik, in una James Cohan Gallery affollatissima. E lo sottolinea del resto anche la stessa Freedland che, dopo la performance A Power Exceed Only by The Sun, dice di essersi sentita improvvisamente erede degli anni Settanta e dell’“Endurance Art”, facendo riferimento alla storica mostra di Exit Art del 1995 che annoverava Marina Abramovic, Vito Acconci, Joseph Beuys, Gilbert & George, Yoko Ono e Gina Pane. In quel caso era il corpo ad essere l’assoluto protagonista e l’arte visiva diventava una forma di “acting”, con la fotografia, testimonianza tangibile, come ultimo passaggio.
Ma si assiste anche al fiorire di una produzione che indaga sulle differenze culturali. Un’altra artista israeliana, Tamy Ben-Tor, recentemente ha dato vita a un vero e proprio spettacolo di cabaret, o stand-up comedy, presso Salon 94, in cui ha vestito i panni di personaggi stereotipati della cultura ebraica, come l’antisemita o la signora ebrea ortodossa che critica la secolarizzazione e gli ebrei moderni. Sconvolgendo così, ancora una volta, le categorie, se ci atteniamo alla definizione di RoseLee Goldberg contenuta nel libro Performance Art, secondo la quale il performer non interpreta un personaggio (e il contenuto non segue una trama tradizionale). Anche la Freedland affronta spesso con autoironia stereotipi e tradizioni della cultura ebraica. “Quando nasci in una determinata cultura”, dice, “cresci inizialmente convinto di essere meglio degli altri. Poi matura il tuo senso critico e opti per quegli aspetti che ritieni più validi. Della mia cultura apprezzo moltissimo il senso dell’umorismo, il prendersi in giro e la capacità di esorcizzare le paure e gli incubi ridendoci sopra”. A proposito di confronto tra culture, si segnala la grande partita di scacchi (Burning Boards) organizzata da Glenn Kaino al Whitney Museum, che con candele bianche e nere al posto delle pedine affrontava i problemi legati al razzismo e alla paura dell’altro; un “altro” che in questa performance era reale, come la paura di scottarsi, ma il passare del tempo e il consumarsi degli scacchi obbligavano a fare una mossa. In questo discorso non può non rientrare la newyorkese Jessica Ann Peavy, una delle otto vincitrici del Franklin Furnace Fund di quest’anno, che nel suo lavoro affronta il tema dell’“essere nera”. L’afroamericano Adam Pendleton, nella recente produzione The Revival (Performa 07), recita le sue parole in libertà quale moderno Queneau, accompagnato dalla musica di un magnifico coro gospel che colpisce per l’impatto visivo, “scenografico”, oltre che musicale; mentre Tim Miller affronta storie personali che spingono a riflettere, nel suo caso, sui diritti sociali dei gay.
Nell’ampia costellazione di performance cittadine ci sono poi artisti che raccontano l’interiorità, come Sharon Hayes, che nella recente performance In Search of The Miraculous, parte del programma di “Art in General”, legge sul marciapiede, davanti a un pubblico particolarmente incuriosito, una lettera d’amore diversa ogni giorno, ricordando la Sophie Calle dell’ultima Biennale.
Non manca poi il tema politico, come nel lavoro recente di Taylor Mac (The Young Ladies of), “una delle cose più belle viste negli ultimi anni”, dice Martha Wilson: una performance incentrata sul ricordo del padre dell’artista mentre era soldato in Vietnam, suggestiva ed eloquente oltre che evocativa degli attuali tempi di guerra, e un tappeto di vere lettere disposte a terra.
Una nota finale riguarda l’ambiente della performance in generale, pervaso oggi dal diffuso malcontento generato dalla mancanza di finanziamenti nonché dalle difficoltà in cui incorrono molti artisti a causa della censura. E, a questo proposito, è ormai un classico la personificazione della Wilson di Tipper Gore, che aveva proposto di inserire la censura sui dischi. Tutti ora si augurano che la prossima presidenza porti nuovi fondi per la Performance Art così come per l’arte in generale, mentre Martha Wilson sta già pensando a un nuovo lavoro ispirato alla futura First Lady (o First Husband?).