Giancarlo Politi: Cosa pensi dell’arte di oggi rispetto al momento in cui è nato il tuo lavoro, negli anni Sessanta?
Pier Paolo Calzolari: Dell’arte di oggi è difficile parlare, del sistema dell’arte sicuramente si può discutere di più. Ho visto opere di giovani artisti eccezionali, ma il vero problema è quello che c’è dietro il sistema dell’arte. Ora, come negli anni passati, c’è l’uso spregiudicato di giovani artisti come prodotto prêt-à-porter, con la successiva selezione, più o meno condivisibile, di qualche talento. Le finalità espositive evidentemente non corrispondono più ai parametri che usavamo 20-30 anni fa.
GP: Anche 30 anni fa le cose erano diverse rispetto a 50 anni prima.
PPC: Trenta o quaranta anni fa c’era già una commistione forte con il mercato, però c’era ancora una grande vitalità e un grande sogno. Pensiamo per esempio a Harald Szeemann, un uomo, lo posso dire da ex nemico-amico, attento ai propri interessi ma sicuramente animato da un sogno. Harald riusciva a muoversi in equilibrio tra questi due aspetti. Anche anni fa compromessi e interessi viaggiavano assieme, è sempre stato così. Non c’era la necessità di produrre materiale in maniera costante, bensì giornaliera, annuale.
GP: Questo anche perché il collezionismo oggi si è molto allargato.
PPC: Questa è stata una conseguenza. Indubbiamente c’è stata un’evoluzione, ma devo dare atto del fatto che le mostre che si stanno facendo oggi a livello internazionale, salvo alcune particolarmente indicative e importanti, o sono dei replay o degli esercizi filologici coscienti o addirittura incoscienti… che è ancora peggio.
GP: Io ritengo comunque che il mercato ha sempre, in un certo senso, influenzato l’arte, dal Rinascimento a oggi.
PPC: Certamente. Il poeta e il musicista solista sono il punto estremo e più libero dell’arte. L’arte classica è sempre stata un’arte puttana, legata al denaro e al potere.
GP: A mio giudizio negli ultimi anni c’è stata un’accelerazione dell’usura dell’arte, perché inevitabilmente l’arte va incontro a un’usura. Se pensiamo all’arte dagli anni Cinquanta a oggi i protagonisti che sono rimasti sono solamente Fontana, Burri, Castellani e altri tre o quattro.
PPC: Certo, l’usura esiste. Prendi come esempio quello che ha fatto Gagosian riunendo una serie di pezzi eccezionali di Lucio Fontana: questa corazzata nell’insieme ha dato vita a una mostra di Fontana a mio giudizio tra le più brutte mai viste. Perché, parliamoci chiaro, l’usura è questo. Se io avessi dei Fontana e fossi un operatore culturale, o avessi un altro artista, ad esempio un Richard Serra, o perfino un Calzolari, metterei una singola opera in una stanza vuota: in questo caso non ci sarebbe usura, mentre se metti tre Fontana tutti assieme in una camera inevitabilmente si ha un effetto di stanchezza.
GP: La tua è la visione di un artista, diversa rispetto a quella di un mercante, il mercante non può pensarla così.
PPC: Lo so, ma il museo dovrebbe operare secondo questo principio facendo entrare una singola persona alla volta a vedere un’opera perché è “l’Opera”. Il processo di mitizzazione ma anche di valorizzazione è questo.
GP: Io credo che l’Arte Povera sia entrata a fare parte della Storia dell’Arte, poi può esserci una mostra sbagliata, ma l’opera e l’artista se ci sono restano. Semmai il problema può essere per i giovani artisti…
PPC: Vedi Giancarlo, tu sei troppo esperto, come me, per sapere che non è vero. Forse lo è per chi ha vissuto queste cose, per chi è raffinato e riesce a costruire, ma uno che non ha la tua eta né la mia e che approda al sistema dell’arte si ritrova in un mercato del bestiame. L’arte è qualcosa di paradossale. Non è casuale che i musei si siano mossi storicamente in maniera diversa, perché chi ha più esperienza nell’arte, anche antica, ha cominciato a permettere che le opere decantassero.
GP: Ricordo che vent’anni fa Damien Hirst ci disse: “Io sono stato a scuola con un gruppo di cantanti, i Blur, i quali hanno un aereo personale e quindi mi chiedo perché un’artista non può avere un aereo personale o lo stesso profilo di un cantante?”
PPC: Su questo sono d’accordo, non vedo contraddizioni, ma se a un certo punto se vuoi l’aereo, devi mettere in discussione l’aereo stesso, perché possono togliertelo e quando ti tolgono l’aereo o hai un paracadute o sai volare nello spazio, ecco. Altrimenti puoi andare incontro a una crisi depressiva.
GP: Che differenza c’è tra il tuo lavoro degli anni Sessanta e Settanta e quello di oggi? Dal punto di vista concettuale, perché formalmente possono esserci delle similarità.
PPC: Sì ci sono. Concettualmente una risposta sulle opere nello specifico non posso dartela. È chiaro che c’è stato un periodo di riflessione sul contesto che non è solo di rifiuto ma anche su me stesso. Sicuramente la mia ricerca attuale è più, riflessiva evidentemente perché non ho tanti motivi per fare cambiamenti radicali, ma piuttosto rielaborazioni anche a titolo rievocativo.
GP: Alcune opere di oggi però sono formalmente più belle di quelle degli anni Sessanta, almeno dal mio punto di vista. Forse perché anche il mestiere si è raffinato.
PPC: Sicuramente, gli anni per il mestiere contano. Tuttavia la giovane età, il momento storico e i mezzi a disposizione ti portavano a comunicare attraverso un grido. In questo universo il grido emergeva come una piccola stella, una piccola scintilla, eppure sentivo la mancanza di un passaggio, la ricostruzione del linguaggio. Con il passare degli anni ho ritenuto fosse più necessaria una riflessione sul linguaggio, sull’organizzazione, il passaggio dal gutturale al funzionale.
GP: Ma tu ti consideri pittore?
PPC: Sì. Tempo fa un ragazzo dell’università di Bologna mi ha contattato interrogandomi sul problema pittura, che per lui era il piano dipinto. La mia idea di pittura invece è totalmente diversa. Esistono le linee forza che non sono solo le linee di forza cromatiche. È come spiegare le foto di un tempio, ci sono le parti corrose del marmo, i passaggi, le camminate, l’intensità dei pensieri delle persone: anche questi elementi sono pittura. Poi c’è un momento in cui qualsiasi tipo di tempio, che sia ebraico, cattolico o scintoista diviene pittura, un momento che è fatto di colore e segno perché offusca i toni e lascia una traccia, un momento di raccoglimento. È il momento della preghiera, il posto di dio, il punto dove concentrarsi su se stessi. La prospettiva si accorcia i toni si intensificano perché è un dettaglio del tutto. Ho sempre pensato alla pittura come a un dettaglio del tutto e un dettaglio in sé.
GP: Hai avuto sempre un rapporto dialettico e problematico con molte delle tue gallerie. A cosa era dovuto? A un’eccessiva richiesta da parte delle tue gallerie o a un tuo non concederti?
PPC: Dal punto di vista intellettuale devo dire che io sono assolutamente difficile, con un carattere non piacevole. Sicuramente il motivo è stato la mia poca disponibilità e poca duttilità. Dall’altra parte è anche vero che, non tutte, ma molte gallerie sono particolarmente aggressive o possessive oppure, anche peggio, pensano di lavorare con una scuderia. Io non faccio parte né di una famiglia né di una scuderia. La funzione principale di un gallerista è quella di vendere per percentuale e punto.
GP: Invece tra le gallerie più commerciali con chi hai avuto un rapporto più dialettico?
PPC: Barbara Gladstone, perché c’è stata un’intesa semplice: comprava vendeva, comprava vendeva.
GP: Il tuo rapporto con l’Arte Povera invece a volte è stato anche conflittuale, vero?
PPC: Ho sempre pensato che l’Arte Povera fosse una costellazione, non un gruppo. Una costellazione importantissima perché dal punto di vista di Emilio Prini, mio e di altri, è stato l’unico movimento non d’avanguardia che non si muoveva in maniera piramidale. I movimenti d’avanguardia sono soliti negare il passato e proiettarsi in avanti; quasi nessuno dell’Arte Povera ha invece mai fatto questo. Gli artisti si sono sempre posti in maniera orizzontale. Per Arte Povera si intende una grande rivoluzione laica, una visione francescana non antropomorfica, ma antropocentrica, di rapporto con la terra, con il fuoco, l’aria, una visione di esplorazione reciproca e orizzontale. Se per Arte Povera si intende ideologia e altro io non sono sono d’accordo, non l’ho mai intesa così.
GP: Con Alighiero Boetti hai avuto dei rapporti?
PPC: Sì eravamo molto amici. Sia a Torino che a Roma abbiamo avuto un’amicizia che è stata molto presente fisicamente poi si è diradata, ma i nostri incontri erano sempre eccezionali.
GP: Con Jannis Kounellis?
PPC: Con Kounellis c’è stato un rapporto di amicizia e partecipazione nei primi anni poi non più, per svariati motivi.
GP: Con Michelangelo Pistoletto?
PPC: Non ho avuto tanti rapporti con lui. Ho sempre stimato i suoi primissimi lavori, che credo invece lui non abbia mai stimato molto, e che ha riscoperto in seguito. I suoi primi lavori sono stati davvero importanti ma ho fatto sempre molto fatica con il resto del suo lavoro. Massima considerazione, però quando ci parliamo, parliamo di altro.
GP: Qual è il critico o il curatore con cui hai avuto un rapporto di maggiore dialogo?
PPC: Faccio fatica, non saprei, tutti e nessuno, ma indubbiamente per colpa mia, per mancanza di capacità di esporre il mio lavoro per spiegarne i meandri.
GP: Anche il fatto che tu vivi defilato non aiuta.
PPC: Sì, vivo un tantino defilato.
GP: Ti manca il rapporto con i tuoi colleghi?
PPC: Mi manca molto. Non so, sono fortunato se ci vediamo rarissimamente con Enrico Castellani, e non ci si parla neanche troppo, però c’è quella sintonia per cui ci si capisce, come anche con Giuseppe Penone o con Anselmo. In altri casi francamente fatico molto, il mondo dell’arte è fatto di persone che tendono a uniformarsi, senza dare scandalo: c’è una volontà, se non addirittura necessità, di mimetizzarsi.