Giancarlo Politi: Caro Pierluigi Mazzari, tu sei certamente il collezionista italiano più attento, autorevole e determinato. Ci puoi dire come hai iniziato e a causa di chi questa avventura, che sta diventando, mi pare, una splendida vocazione e professione? Quali e con chi sono stati i tuoi primi approcci?
Pierluigi Mazzari: Nel 1990 nasce il mio ultimo figlio, Giacomo. Sento di dovermi reinventare un linguaggio e un modo per guardarmi attorno. Uno buono mi sembra l’arte contemporanea. Il mio approccio è casuale, ma molto fortunato: la prima galleria che visito è quella di Massimo De Carlo, allora in zona Porta Venezia, a Milano.
GP: Sappiamo che Maurizio Cattelan è stato un po’ il tuo cavallo di battaglia. In un certo senso “il compagno di viaggio” per eccellenza, con cui sei cresciuto e diventato noto. Ci parli del tuo sodalizio con l’opera (e l’uomo) Cattelan? Cerchi di collezionarlo ancora oppure ritieni che il tuo grande amore per Maurizio, come tutti i grandi amori, sia alle spalle? O ritieni che costi troppo per uno come te che lo ha acquisito agli esordi?
PM: Il mio unico merito è aver comprato i suoi lavori, anche i più difficili, quando ancora esisteva un radicato scetticismo nei suoi confronti. Adesso mi sembra che Maurizio faccia parte della mia vita degli anni Novanta, anche se capisco che è un mio limite, perché lui resterà nella Storia dell’Arte.
GP: Cattelan ma non solo. Quali, oltre il nostro eroe, sono stati gli altri artisti che ti hanno folgorato sulla via di Damasco dell’arte e ti hanno dato l’adrenalina?
PM: Agli inizi Felix Gonzales-Torres, Thomas Schütte, Damien Hirst, Carsten Höller. Poi Gregor Schneider, con cui ho un legame viscerale, perché trovo che riesca a esprimere meglio di ogni altro, estremizzandole, tutta la cupezza, la violenza, l’inquietudine di questi anni. Un cupio dissolvi che mi aiuta a esorcizzare le mie paure, la mia ansia di fare tutto e subito. E poi ancora Michael Sailstorfer, Hans Schabus, Kris Martin: è lui il protagonista di My Private #5, che questa volta portiamo a Venezia durante l’inaugurazione della Biennale, in Piazza San Marco. Come vedi ho evitato di nominare artisti italiani, che non dimentico, ma sui quali vorrei fare un discorso a parte. Ho seguito da vicino la nostra “scena locale” per più di dieci anni e continuo a prestare attenzione ad artisti come Patrick Tuttofuoco e Micol Assaël, per citarti giusto un paio di nomi, ma mi sembra che un certo tipo di energia adesso riesco a scovarla solo altrove, più lontano da casa.
GP: Quali sono i grandi collezionisti guida della tua immaginazione? Chi hai guardato o stai guardando?
PM: Non ho mai pensato ad altri. Sono profondamente individualista.
GP: Scherzosamente, ma non tanto, ti ho sempre definito il “Saatchi italiano”. Cosa ti accomuna (oppure ti allontana) alla sua figura e alla sua vicenda? Lui, da grande pubblicitario di successo (curò anche l’immagine di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan contribuendo ai loro successi), con agenzie in tutto il mondo, a collezionista a tempo pieno. Tu stai accantonando la tua professione avita per iniziarne con i tuoi figli una nuova, più brillante e redditizia? E poi una volta tanto, ci puoi dire quali sono gli artisti, ma i tanti, anzi, tutti, su cui si fonda la tua collezione?
PM: Non sono sicuro che tu mi stia facendo un complimento paragonandomi a Saatchi, e in ogni modo un accostamento del genere non è sostenibile per ovvie ragioni finanziarie. Quanto ai numeri e al profilo della collezione, provo a risponderti così: non mi considero collezionista di un artista fino a quando non riesco ad acquisirne i lavori più significativi, almeno di un certo periodo. Procedo per nuclei compatti, per approfondimenti. O se vuoi, per ossessioni.
GP: Da collezionista appassionato e forse timido a grande professionista dell’arte, attento osservatore del mercato, con un team agguerrito e bravissimo di cui ti sei circondato. Come sei arrivato a questa trasformazione?
PM: Timido lo sono ancora. Ma non avendo alcun tipo di approccio intellettuale all’arte, il gruppo che mi sono scelto (mi ha scelto?) — Barbara Casavecchia, Anna Daneri, Paola Manfrin — mi ha aiutato a meglio comportarmi, guidandomi al di là della semplice passione e/o intuito, mutando il mio ruolo da collezionista puro (che continuo a esercitare, in piena autonomia) a committente di opere, anzi di mostre. Mi hanno insegnato, anche a costo di qualche scazzo epocale, come il punto di vista dell’artista debba essere compreso e rispettato.
GP: My Private. Espressione di una timidezza di fondo, di arroganza o un modo di sfuggire alla catalogazione e alla visibilità piena? O un po’ come Maurizio Cattelan, maestro del gioco delle tre carte? Cioè sei sempre l’altro che non sembra o non appare?
PM: My Private nasce da un’intuizione geniale del gruppo fondatore che comprende immediatamente la mia naturale propensione al low profile. Che poi io abbia ottenuto il contrario, mi lascia ancora perplesso…
GP: A Torino, con il tuo “Spazio per l’arte” (nome supposto, non conosco il nome di battesimo), ti sei appropriato di una stupenda chiesa metodista per creare una alcova dei tuoi amori. Dopo Pietro Roccasalva, quali altri “amori” o copulazioni ci proporrai?
PM: Eros, Amore e alcove per me stanno altrove. My Private continuerà a essere un progetto nomade.
GP: A me pare che tu abbia l’abitudine di mostrarti sempre un po’ in ombra o di scorcio e mai frontalmente. Ci puoi parlare infine di te stesso? Da dove vieni, dove vuoi andare, parlaci dei tuoi figli, dei libri che leggi e non leggi, quali film vedi e quali non vuoi vedere, la musica che ti piace, quali sono gli artisti che ammiri e quelli che detesti? Insomma dicci chi è in privato, non solo chi è in My Private, Pierluigi Mazzari.
PM: Difendo la mia privacy perché credo di non avere nulla da raccontare. Se proprio vuoi, ti dico che sono di origine mitteleuropea, ma con una forte propensione caratteriale mediterranea. Mi sento un imprenditore “meticcio” in quanto ho diversi interessi, strutturati con leggerezza, e perché sono convinto che il meticciato sarà presto determinante, anche e soprattutto come mentalità.
GP: Quali sono gli artisti, se esistono, che non sei riuscito ad acquisire?
PM: Con chi mi piace, riesco a essere piuttosto ostinato. Non ho grandi rimpianti.
GP: E quali, ma senza il gioco delle tre carte, quelli che ameresti acquisire?
PM: Non te lo dico, sono nella mia testa, qualcuno già in collezione, e tutti molto giovani.
GP: Come arrivi a “innamorarti” di un artista e decidere poi di collezionarlo? In che modo si manifestano le tempeste ormonali che ti fanno optare per un’opera e un artista?
PM: La scelta è “de panza”, mediata però dalla ragione. Il che non vuol dire che diventi fredda o troppo cerebrale. Si organizza istintivamente sulla base di informazioni diverse, quali l’età, i galleristi di riferimento, la nazionalità, la cultura di appartenenza dell’artista.
GP: Poca o niente pittura nella tua collezione? Allergico alla trementina o la pittura è per te un genere obsoleto? Il tuo collega inglese, Charles (Saatchi), non la pensa così. Dimmi, dicci…
PM: Di solito sono attratto da lavori che interagiscono con l’architettura: così va a finire che, anziché pezzi “mini” da appendere sopra al caminetto, a me propongono grandi installazioni o progetti fuori misura. E non riesco a dire di no. Fanno eccezione tre artisti che usano la pittura per raccontare storie misteriose, da cui sono profondamente affascinato: su tutti, Francis Alÿs, che colleziono con avidità. Per quanto riguarda il panorama italiano, Roberto Cuoghi e Pietro Roccasalva. Ma lasciami ancora un paio d’anni e vedrai in collezione altri pittori, ancora in sordina… Mi piacciono perché fanno un tipo di pittura che non prescinde mai (ed è questo, per me, il valore aggiunto) da una sorta di personalissima angoscia, una “malattia” che mi trovo a condividere.
GP: Io ti ritengo il dottor sottile del mercato… Lo scarto tra l’acquisto di un’opera di un giovane o giovanissimo artista e la sua collocazione in asta è sempre più ridotto. Cosa significa? Questo fatto è un incentivo per il mercato o un pericolo? E come giudichi il ruolo delle gallerie rispetto alle aste?
PM: Per crescere ci vuole tempo, quindi credo che per un giovane artista passare subito in asta, senza la protezione intelligente di una galleria, sia un pericolo. Dopo di che, considero il mercato un volano straordinario, il motore che consente all’intera baracca di funzionare. Una forza con cui tutti, senza falsi moralismi, prima o poi sono tenuti a misurarsi.
GP: Oggi tutti beneficiamo di questa congiuntura del mercato dell’arte: artisti, gallerie, collezionisti, critici, riviste d’arte… Visto che il mercato ormai si è ampliato enormemente, anzi si è globalizzato, ritieni che la congiuntura favorevole possa durare a lungo oppure prevedi a breve un assestamento?
PM: Credo che questo trend così a lungo positivo non passerà tanto presto: muteranno soltanto gli scenari, probabilmente seguendo la migrazione del potere finanziario verso Oriente. Il fulcro degli scambi si è già spostato da New York a Londra; è ragionevole che la prossima tappa sia Hong Kong. In ogni caso, io resto affezionato ai canoni estetici del Vecchio Continente, con una propensione netta, quasi compulsiva, per gli artisti del Nord Europa.
GP: Tu acquisti in galleria oppure direttamente dagli artisti? Le gallerie italiane offrono sufficientemente a un collezionista giovane e ambizioso oppure è inevitabile rivolgersi all’estero?
PM: Acquisto presso le gallerie di riferimento: chi cerca di eludere il triangolo imprescindibile artista-galleria-collezionista non fa mai molta strada. Tra le italiane, per me il futuro lo rappresenta la Galleria Zero… di Paolo Zani. In ogni modo, è chiaro che qui viviamo in ambito provinciale, ed è essenziale globalizzare la propria indagine.
GP: Cosa mi dici delle fiere d’arte in Italia? Bologna, Torino, Milano…
PM: Sono curioso di vedere cosa farà Andrea Bellini a Torino, perché mi pare abbia una linea molto condivisibile. Per ora, l’unica fiera che valga veramente la pena di frequentare è Basilea. Poi, se vuoi fare anche il turista, vai a Frieze o a Miami.
GP: A Napoli collezionisti intelligenti, ambiziosi e generosi (Napoli, sempre “anema e core”…) come Morra Greco (altri lo stanno seguendo) ma anche altri, hanno aperto spazi adeguati per rendere pubblica la loro collezione. Milano, che avrebbe bisogno molto, molto di più di Napoli (che è abbondantemente coperta da gallerie private e da istituzioni pubbliche), non dispone né di istituzioni pubbliche (ma visto come vanno le cose, meglio così) né di fondazioni private con collezioni pubbliche (e le Fondazioni Prada e Trussardi hanno virato verso strategie diverse). Non hai mai pensato di istituzionalizzare il tuo ruolo e offrire in visione la tua collezione anche a noi poveri milanesi?
PM: Qualsiasi mio investimento in funzione dell’arte prescinde da aiuti pubblici, a differenza, credo, di qualche caso che citi. Sono diffidente in proposito: non per niente il mio brand è My Private. Anziché presentare una collezione in un solo posto, sempre lo stesso, preferisco esporre una collezione di mostre senza fissa dimora, che durano una serata e continuano a cambiare indirizzo. Da Milano siamo partiti (con Schneider, nel 2003), ma per il momento ci piace l’idea di restare in viaggio. D’altra parte, su richiesta della direttrice Chiara Parisi, il Centre d’art et du paysage de l’Ile de Vassivière nel 2006 mi ha onorato ospitando alcuni lavori chiave di questo progetto, nella mostra “My Private – Escaped from Italy”. Tentativo, credo riuscito, di collezionismo privato che diventa fruibile in una prestigiosa sede pubblica.
GP: E già che ci siamo, come giudichi le attività culturali (in particolare artistiche) del Comune di Milano? A te sembra che l’offerta sia adeguata alla richiesta e alle necessità del territorio?
PM: Il Comune di Milano è soltanto un’azienda, gestita senza strategia per l’arte. Non parlo di cultura, perché personalmente non me lo posso proprio permettere. A me basterebbe che, per esempio, qualcuno capisse come Bilbao è diventata una città visitabile grazie al solo museo di Frank O. Gehry, con tutto quello che ne consegue per le casse comunali.
GP: Se per un semestre dovessi prendere il posto di Vittorio Sgarbi, come assessore, quali sarebbero i provvedimenti immediati che prenderesti?
PM: Vittorio Sgarbi è uno storico dell’arte: va rispettato quando ritaglia la sua funzione assecondando la propria natura e i propri studi. Ma non mi pare che abbia la stessa sensibilità quando si occupa di arte contemporanea.