PER LA PRIMA VOLTA RIPUBBLICHIAMO QUESTE TRE LETTERE INEDITE E UNO SCRITTO TEORICO CHE PIERO GILARDI HA INVIATO A GIANCARLO POLITI TRA IL 1968 E IL 1972. È SOLO UNA RICOGNIZIONE PARZIALE DEL MATERIALE D’ARCHIVIO, MA UNA ULTERIORE TESTIMONIANZA DEL RUOLO DI GILARDI NELLA TEORIZZAZIONE DELL’ARTE DI QUEI DECENNI.
TORINO, 29 MAGGIO 1968
Ti ringrazio per le notizie che mi dai annunciandomi la pubblicazione delle mie ultime corrispondenze. A parte un nuovo filone di informazioni che inizierò al mio ritorno a New York per settembre, ora ti propongo uno scritto teorico-informativo che è un po’ la conclusione delle mie corrispondenze di viaggio.
Si chiama Oltre le strutture ed è corredato da 4 illustrazioni le cui didascalie sono scritte sul retro; sarei felice se potesse uscire nel numero di settembre, contemporaneamente ad altri miei scritti che, come ti dicevo nella scorsa lettera, appariranno sul Museumjournaal di Amsterdam e sulla rivista svedese Konstrevy, e forse su Studio international.
Dato il contenuto dell’articolo (non sono compresi artisti romani) e le reazioni conformistiche alla mia attuale attività che ho già ricevuto, ti pregherei di pubblicarlo un po’ in disparte, nelle ultime pagine: così le persone attente non lo perderebbero ed i miei denigratori non sarebbero stuzzicati.
Sicuro della tua comprensione ti saluto.
Piero Gilardi
EUROPA, APRILE 1968
OLTRE LE STRUTTURE
Negli ultimi due anni si è sviluppata una situazione creativa che ha portato il linguaggio artistico al di là delle “strutture”; questa situazione è cominciata da una spontanea tendenza di alcuni gruppi di artisti sparsi dalla California al Nord Europa fino a New York e all’Italia; all’inizio essa affiancava le esperienze “minimal”, ma ora ha chiaramente mostrato il suo autonomo carattere di ricerca emotiva e motoria.
Questi nuovi artisti si distinguono per l’intuizione di una energia “primaria”, fluida e asimmetrica; per essi l’identificazione “the media is the message” fatta da McLuhan è già una idea sorpassata; L’artista torinese Mario Merz dice: “… mi interessa quella energia libera e fluida che nasce dalla divaricazione tra il ‘pieno’ e il ‘vuoto’ che coesistono in tutte le cose…”.
Le caratteristiche più evidenti di questa situazione creativa che io chiamo arte “microemotiva”, sono un nuovo interesse per l’individualità, il carattere sensoriale delle espressioni ed il sovvertimento delle tradizionali e statiche formule dell’oggetto d’arte. Bruce Nauman in una mostra alla galleria Castelli di New York presentava vari calchi di parti del suo corpo. Dai cuscinetti tattili di Keith Sonnier ai “drips” di Ger Van Elk la sensorialità è il carattere sempre presente nelle opere “microemotive”, anche nelle più fredde e tecnicizzate. Molte di queste opere sono realizzate in forma di environments, scenografico come quello recente di Olle Kåks al Gävle Museet o fruibile come i “Lucht shows” di Boezem.
Una delle prime mostre di gruppo, in rapporto con questa direzione artistica è stata organizzata da Lucy Lippard alla Fischbach Gallery di New York nell’ottobre 1966: si chiamava “Eccentric Abstraction” e presentava oltre ai californiani Nauman e Don Potts, gli artisti dell’intero gruppo newyorkese; Alice Adams con le sue reti metalliche fatte a mano, Eva Hesse con i filamenti della Metronomic Irregularity, Gary Kuehn con dei blocchi geometrici in scioglimento, Keith Sonnier con due involucri di vinyl trasparente che si gonfiavano al ritmo del respiro, Frank Viner con le sue soft-structures in vinyl colorato. In pieno break-up delle strutture primarie non poteva non colpire la sensorialità, il biomorfismo e le implicazioni con l’inconscio del lavoro di questi artisti; a qualcuno quella direzione parve recessiva, ma si poteva leggere la novità e la concretezza delle espressioni nella scelta dei materiali “artificiali” o nella psicologia “monocroma” delle forme.
Nel 1967 a Francoforte, c’è stata la prima mostra di gruppo degli artisti “microemotivi” europei, i cui lavori si presentavano naturalmente più chiari e maturi; esponevano Barry Flanagan e Richard Long di Londra, Jan Dibbets di Amsterdam, Bernard Hoke di Berlino e Konrad Lueg di Düsseldorf.
Flanagan compone delle sculture-environments con sacchi riempiti di quella materia inerte ma duttile che è la sabbia; Long taglia nell’erba di un prato la traccia di forme geometriche concentriche: la forma è visibile ma è mimetizzata nella materia variabile della natura aperta, rimane la magia di un giardino Zen “postecnologico”.
Sempre a Londra, George Passmore cola del gesso e del poliestere con naturali gesti fisici: la materia si distende sul piano fino al momento dell’indurimento e il senso del lavoro vive sospeso nel rapporto tra il segno della “gestualità” e “l’inerzia” primaria della materia stessa. Quella sospensione è energia senza struttura; la sua dimensione è puramente mentale, come si può anche comprendere dalla descrizione che Long fa di un suo recente environment invisibile: “…I was away on my bicycle putting up a sculpture which surrounds an area of 2401 square miles…”.
Oggettivare una situazione imponderabile è lo scopo del lavoro che Boezem fa ad Amsterdam con i suoi “Lucht show”; tende e tovaglie astratte che con il loro movimento materializzano il vento. Sempre ad Amsterdam, Ger Van Elk fa espandere del poliuretano colorato ai quattro angoli del pavimento di una stanza: la resina si espande libera e sensuale verso l’interno, ma contemporaneamente aderisce alla geometria negativa degli angoli; tra “sensualità” e “geometria” si crea una tensione che da un nuovo senso alla primarietà del fenomeno fisico dell’espansione.
Olle Kåks, di Stockholm, esaspera questa “tensione di compresenza” tra le parti all’interno di un fatto primario, rappresentando giganteschi meccanismi di schiacciamento, le cui parti sono immobili ma piene di tensione allusive; Kåks riveste le masse dei suoi meccanismi con superfici decorative-sensoriali molto precise nello spirito del suo lavoro.
A Berlino c’è Bernard Hoke che lavora con una grande libertà sperimentale; un suo recente lavoro è fatto con due effimere colonne di schiuma saponosa, rigenerate a ciclo continuo da due contenitori nei quali acqua e detersivo vengono sbattuti meccanicamente.
Anche in Italia lavorano degli artisti “microemotivi”; sono Mario Merz e Gilberto Zorio di Torino. Merz è molto vicino a Bruce Nauman perché usa sovente un linguaggio ispirato a Duchamp; in alcuni dei suoi lavori c’è un oggetto “archetipo” intersecato da una luce al neon modellata sulle proiezioni energetiche nello spazio, dell’oggetto stesso; in questo modo Merz dissocia la forma e ne estrae una fluida ed essenziale presenza che è un’immagine “dell’energia primaria”.
Zorio invece ha lasciato da tempo lo schema della “rappresentazione” ed ora fa vivere dentro le sue opere, fenomeni magnetici o chimici; egli dice: “…il mio problema è di creare un ‘modulo’ di movimento senza ritmo… ogni azione dovrebbe essere prevedibile ma sempre nuova…”; un suo lavoro del 1967 concretizza esattamente questo problema. È un cilindro oscillante ricoperto di cloruro di cobalto, questo sale cambia colore dal rosa all’azzurro in rapporto alle variazioni dell’umidità atmosferica; il colore di questo lavoro non è mai stato uguale per più di un’ora ma il fatto è “comprensibile” ed il senso del lavoro sta nella fluida presenza emotiva del fenomeno al di là della sua struttura ed Entropia.
Nel momento in cui scrivo questo articolo molti altri artisti lavorano nel senso dell’arte “microemotiva”, in tutti i centri artistici del mondo; la realtà di questa nuova situazione creativa è verificata dalla sua influenza su correnti artistiche e su artisti già affermati dai “Felts” liberi di Bob Morris alle Foam-sculptures di Chamberlain agli environments viventi di Michelangelo Pistoletto. Alcuni artisti che fanno strutture gonfiabili sono strettamente inseriti nel nuovo clima creativo.
Nonostante la varietà delle espressioni, diverse da gruppo a gruppo di artisti “microemotivi”, si impone l’evidente unitarietà dell’idea di fondo; questa universalità è certamente in rapporto con il carattere aperto e problematico dell’idea di fondo, ma è anche in rapporto con l’universalità della intuizione di una nuova e diversa libertà psichica per l’individuo al di là dell’entropia della società tecnologica.
Piero Gilardi
TORINO, 26 GENNAIO 1969
Caro Politi,
Non potendoti più dare una corrispondenza da New York e S. Francisco, ho pensato di mandarti delle foto recenti; due sono di artisti americani e due sono di lavori recenti di Van Elk e Boezem che già erano presentati nella mia corrispondenza da Amsterdam; sul retro troverai le didascalie che ho steso per le quattro foto.
In Germania non sono andato perché un incontro in quei giorni mi ha dissuaso ad affrontare di nuovo quell’ambiente artistico così commercializzato; si trattava di Harald Szeemann che in precedenti incontri aveva aderito all’idea di convocare una riunione di artisti prima di aprire la sua grande mostra “Le attitudini che diventano forma” (è la nuova situazione internazionale stabilizzatasi dalla
mia Microemotive art), ma che ora grazie a pressioni ufficiali ricevute in USA ha “tagliato” l’assemblea e pensa di realizzare la mostra “d’autorità”; da parte mia non ho potuto fare altro che tagliargli la mia collaborazione, ma già mi accorgo quanto la mia fiducia nel dargli informazioni e nello scrivere di artisti di California fosse già mal posta in partenza; finora l’unico rapporto onesto con gli uomini dei musei che ho avuto è quello con Beeren dello Stedelijk di Amsterdam: lui farà una mostra analoga (la sua idea è prioritaria a quella di Szeemann) basandosi sul parere degli artisti e sulle loro reali esigenze; io sarò ospitato nel catalogo con un lungo saggio sulla “politica” dell’avanguardia.
Certo mi ci voleva questo periodo di attività teorica per capire la mistificazione
e la manipolazione che l’establishment fa sempre dell’avanguardia; l’arte andava
rivoluzionariamente verso la “vita”, ma tutte le rivoluzioni vengono tradite ed anche stavolta la “vita” è stata esclusa dall’arte, finally.
Cordiali saluti ed auguri di svolgere lucidamente e con distacco la tua attività.
Piero Gilardi
23 OTTOBRE 1972
Caro Politi,
Ho ricevuto il tuo biglietto (scritto da una delle tue due anime…) ma non ho proprio come accontentarti.
Avevo pensato per un momento di scriverti un appello agli artisti perché facessero tutti una militanza rivoluzionaria, ma poi a mente fredda ho pensato che questi anni di involuzione dell’avanguardia artistica, seguiti all’apertura dialettica del 1968-69, hanno stratificato una gelida crosta di cinismo e opportunismo.
Forse se viene uno “Stato fascistoide” questo appello bisognerà farlo comunque per difendere la libertà democratico-borghese che ancora ci serve per sviluppare l’organizzazione di classe.
Per adesso oltre alla militanza specificamente politica, qualcosa si riesce già a fare con le masse proletarie. Quest’estate abbiamo fatto del teatro con un Comitato di Lotta di quartiere con Dario Fo: la creatività delle masse cova sotto la cenere, non bisogna solo aver fretta di farla maturare a tappe forzate, perché altrimenti ci proiettiamo dentro i nostri residui di idealismo piccolo-borghese.
Ti saluto
Piero Gilardi